“L’impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus alla persona nell’ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto ad un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione.
Una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa.
Da questo punto di vista si evidenzia la violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa.
L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione.
Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di “desertificazione affettiva” che è l’esatto opposto della risocializzazione.”
Queste chiare e condivisibili affermazioni di principio sono contenute nella motivazione delle sentenza n. 10 del 2024 della Corte costituzionale, che era stata investita dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto della questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia”: ciò in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, della Costituzione.
L’accoglimento della questione da parte della Corte costituisce una vera e propria rivoluzione culturale nella concezione stessa della pena detentiva
L’accoglimento della questione da parte della Corte costituisce una vera e propria rivoluzione culturale nella concezione stessa della pena detentiva, vista non più come una necessaria e totale privazione dei diritti del condannato, ridotto ad essere una non-persona quanto alla dimensione affettiva della sua stessa esistenza. Non va infatti taciuto che la Corte ha significativamente considerato non solo la sfera sessuale, ma l’intera sfera affettiva delle persone condannate e delle persone che con esse hanno rapporti di coniugio, di unione ed anche di semplice convivenza. Osserva infatti la sentenza che la compressione – sino all’annullamento – del diritto alla affettività dei detenuti si riverbera necessariamente sui loro partners, costretti a subire, anche per periodi lunghi di tempo, una restrizione senza avere avuto colpa alcuna. Scrive in proposito il Giudice costituzionale che “per quanto in certa misura sia inevitabile che le persone affettivamente legate al detenuto patiscano le conseguenze fattuali delle restrizioni carcerarie a lui imposte, tale riflesso soggettivo diviene incongruo quando la restrizione stessa non sia necessaria, e pertanto, nella specie, quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza. Anche tali rilievi sulla lesione della dignità del terzo valgono per l’affettività in ogni sua manifestazione, e non soltanto per la sessualità, pur se quest’ultima, nella specifica prospettiva del coniugio, assume una rilevanza peculiare.”
La Corte ha ovviamente dovuto preliminarmente esaminare la relazione tra la questione sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto e la propria precedente decisione emessa con la sentenza n. 301 del 2012 che aveva, in certo qual modo, riconosciuto la violazione del diritto alla affettività, ma aveva motivato l’inammissibilità argomentando che l’eliminazione del controllo visivo non basterebbe comunque, di per sé, a realizzare l’obiettivo perseguito, dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto di cui si discute: in particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, fissare il loro numero e la loro durata, determinare le misure organizzative»; operazioni che – proseguiva la sentenza – «implicano, all’evidenza, scelte discrezionali, di esclusiva spettanza del legislatore: e ciò, anche a fronte della ineludibile necessità di bilanciare il diritto evocato con esigenze contrapposte, in particolare con quelle legate all’ordine e alla sicurezza nelle carceri e, amplius, all’ordine e alla sicurezza pubblica».
Nonostante le ragioni di inammissibilità dell’ordinanza, la sentenza n. 301 del 2012 dichiarò che la questione allora sollevata evocasse «una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale», esigenza che – si precisò – non trova una risposta adeguata nell’istituto dei permessi premio, «la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria”, segnalando al legislatore che il tema dell’affettività intramuraria del detenuto rappresentava «un problema che merita ogni attenzione».
Visto l’assordante silenzio del legislatore – e per ben dodici anni – sul tema e visto che – come è indubbio – la disciplina del diritto alla affettività in carcere richiederà misure di carattere organizzativo che non possono essere disposte da altri se non dal Governo, la Corte avrebbe potuto replicare la propria precedente pronuncia, eventualmente concedendo al legislatore un termine per provvedere, secondo la schema adottato – e per ben due volte e con effetti dilatori – in tema di ergastolo ostativo.
Va invece dato atto all’odierno Collegio di aver affrontato la questione con coraggio e di aver rotto gli indugi della politica, dichiarando l’illegittimità della disposizione impugnata.
Ma non solo.
La Corte, al fine di evitare la prevedibile impasse del legislatore nel provvedere su un tema di difficile approccio politico in un tempo di prevalenti logiche securitarie, ha inteso dettare “alcuni profili conseguenti alla sentenza che oggi pronuncia”: in pratica si tratta di un decalogo che è ad un tempo di indirizzo per un futuro legislatore di buona volontà e di contenuto per provvedimenti da assumere da parte dell’amministrazione o, più probabilmente, dei magistrati di sorveglianza. Come sottolinea la sentenza, si tratta di aspetti già rilevati dalla sentenza n. 301 del 2012 e dall’art. 19 del d.lgs. n. 121 del 2018 per il detenuto minorenne.
- Ecco i profili indicati:
- La durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude.
- In quanto finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva.
- Posto che numerosi testi sovranazionali indicano nella predisposizione di luoghi appropriati una condizione basilare per l’esercizio dell’affettività intramuraria del detenuto, può ipotizzarsi che le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico.
- È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia.
L’associazione Antigone era stata ammessa quale amicus curiae nel giudizio di legittimità costituzionale ed ha depositato una propria memoria scritta con la quale ha sostenuto le ragioni del Magistrato di sorveglianza di Spoleto.
L’associazione Antigone era stata ammessa quale amicus curiae nel giudizio di legittimità costituzionale ed ha depositato una propria memoria scritta con la quale ha sostenuto le ragioni del Magistrato di sorveglianza di Spoleto. In particolare avevamo sostenuto che nella questione relativa al diritto alla sessualità intramuraria il bilanciamento tra valori costituzionali, la tutela di un diritto ex art. 2 Cost. verso la garanzia delle esigenze di sicurezza connaturate allo stato detentivo appariva del tutto assente: il diritto alla sessualità non è compresso – in ragione di specifiche esigenze di sicurezza – con riguardo alle sue modalità di godimento, ma negato integralmente a prescindere da ogni valutazione in riferimento al caso concreto.
Avevamo ancora rilevato l’irragionevolezza della mancata garanzia del diritto alla sessualità intramuraria ove le risultanze del caso concreto lo consentissero, dubitando che le esigenze di sicurezza posseggano, in questo caso, una forza tale da poter giustificare l’assolutezza della mancata garanzia di un diritto inviolabile espressione della più ampia sfera affettiva come elemento positivo del trattamento ex art. 15 O.P. Osservavamo infine che la garanzia di un diritto fondamentale, come quello alla sessualità, non può essere rimessa a valutazioni di natura premiale, essendo la sfera affettiva inserita negli elementi positivi del trattamento (artt. 15 e 28 O.P.), funzionali al reinserimento sociale imposto dal terzo comma dell’art. 27 Cost., essendo del resto inapplicabile tale tipologia di permessi nei confronti dei detenuti in attesa di giudizio definitivo, che è pari a poco meno di un terzo della popolazione attualmente ristretta all’interno degli istituti penitenziari.
Nella nostra memoria avevamo inoltre sottolineato come dalla sentenza del 2012 vi fosse stato un mutamento del quadro normativo, con l’art. 19 del decreto legislativo n. 121 del 2018 che, proprio al fine di favorire le relazioni affettive, ha espressamente previsto, per i detenuti minorenni, la possibilità di usufruire ogni mese di quattro visite prolungate che si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico.
Avevamo rilevato l’immobilismo parlamentare, nonostante la valenza monitoria della sentenza n. 301 del 2012, ed il difficile rapporto di coerenza di tale inerzia con la dimensione sovranazionale ben espressa nella garanzia offerta dalla Convenzione EDU al rispetto della vita privata e familiare e al matrimonio (artt. 8 e 12) e, più specificamente, nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa (Racc. n. 1340 del 1997 e Racc. 11 gennaio 2006). Quest’ultime ben esprimono l’esigenza che le normative nazionali offrano piena tutela all’individualità del detenuto anche attraverso la protezione della sua sfera sessuale. Alla Raccomandazione n. 1340 sulla necessità di predisporre all’interno degli istituti, luoghi nei quali i ristretti abbiano la possibilità di incontrare i propri visitatori da soli, si accompagna la successiva regola del 2006: «le modalità di esecuzione dei colloqui devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali» (n. 24, quarto comma). La disposizione, di per sé rilevante per il riferimento alla “normalità” delle relazioni familiari – comprensiva anche la dimensione intima – è illustrata nel commento in calce, contenente una rilevante specificazione quanto ai tempi: «ove possibile devono essere autorizzate visite familiari prolungate», la brevità del lasso temporale può «avere un effetto umiliante per entrambi i partner».
Ora l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale da parte della Corte non ci può che rendere vigili sulle modalità con le quali il chiaro dettato del Giudice delle leggi verrà eseguito a tutti i livelli.
Ora l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale da parte della Corte, se da un lato ci conferma nelle osservazioni e nei rilievi che avevamo sviluppato, non ci può che rendere vigili sulle modalità con le quali il chiaro dettato del Giudice delle leggi verrà eseguito a tutti i livelli.
Non possiamo infatti non osservare che il legislatore, inteso sia come Parlamento che come Governo, mantiene una sostanziale inerzia, non risultando alcuna iniziativa in atto. Le indicazioni puntualmente formulate nella senza della Corte in tal modo sembrano indirizzarsi solo alle amministrazioni, centrale e periferiche, ed alla magistratura di sorveglianza. Il che reca con sé il rischio che si possano avere risposta assai diverse da un luogo ad un altro, con disparità di trattamento ancor più odiose dopo la pronuncia della Consulta. Senza contare che occorrerebbero stanziamenti ad hoc, oggi neppure ipotizzati.