Professoressa Zuffa1), nel corso della sua carriera ha più volte lavorato nell’ambito della detenzione femminile. Nel 2018, in seno al progetto Women in transition (WIT)2), ha organizzato dei focus group rivolti a donne detenute e personale penitenziario. Come racconta nel libro La prigione delle donne, da questo lavoro è emerso un interessante racconto su cosa vuole dire “essere donna in carcere”. Ce ne può parlare?
Il progetto era nato con un preciso input di una Asl toscana per lavorare in ambito di prevenzione del rischio suicidario in carcere, con un focus sulle donne. Partendo da questa indicazione, ci siamo mosse da un diverso punto di vista non concentrandoci sui cosiddetti soggetti “a rischio”, ma capovolgendo l’approccio: lasciare la parte di deficit individuale e puntare su una prospettiva più ampia, su quello che è il punto di vista dei soggetti concreti, in questo caso del soggetto femminile. Ci siamo così concentrate sulla visione di loro stesse, del carcere e di loro stesse nel carcere. Da qui abbiamo deciso di impostare la questione prevenzione del suicidio come una questione di miglioramento della situazione in generale delle donne in carcere, partendo da questo: quali sono i punti più critici dal punto di vista della soggettività femminile? Quali sono i punti forza?
È facile concentrarsi sulle disgrazie femminili, sulla miseria femminile, sulla doppia sofferenza femminile, sulla marginalità e precarietà (sociale, economica, sanitaria) che caratterizza in generale la popolazione detenuta e in particolar modo quella femminile. Non si può però comprendere bene come lavorare per migliorare le condizioni di queste persone se non si riesce a cogliere insieme a questi punti problematici anche le aree di forza, i vantaggi su cui ci si può appoggiare. Spesso i punti più critici di maggiore sofferenza sono anche quelli che dall’altra parte sono delle potenziali risorse.
Nella rappresentazione tradizionale femminile c’è questa incompatibilità per cui il reato si oppone alla donna madre
Esempio più lampante è il rapporto con i figli e con la famiglia in generale. Le donne in carcere sono ben consapevoli degli stereotipi che gravitano sulla madre criminale. Nella rappresentazione tradizionale femminile c’è questa incompatibilità per cui il reato si oppone alla donna madre. Da un lato la donna prova quindi una maggiore sofferenza e sensi di colpa legati alla sovrapposizione tra il suo ruolo di madre e di autrice di reato; spesso si tratta di un pensiero fisso e presente che rende più dolorosa la carcerazione. Dall’altro rappresenta una grande risorsa perché è su questo che le donne fanno spesso conto per ricominciare a vivere una volta fuori dal carcere.
Oltre a quelli legati al ruolo di madre, con il progetto WIT abbiamo visto come resistono, forse più radicati nel carcere che fuori, alcuni stereotipi legati alla rappresentazione tradizionale del femminile. Si tratta di una stereotipia trasversale, ossia che colpisce tutti quelli che hanno a che fare con le donne detenute, dall’agente di polizia, all’educatrice, alla volontaria. Uno di questi è il cosiddetto “eccesso emotivo femminile”: le donne vengono rappresentate come soggetti instabili emotivamente, con un’enorme carica emotiva che non riescono a tenere sotto controllo, in opposizione alla razionalità maschile. Da molti operatori penitenziari le donne sono trattate come lunatiche, infantili e capricciose. Molti scontri tra donne detenute sono definiti come futili capricci, scoppiando spesso per gli spazi del carcere, per come si condivide la cella o gli oggetti. Storicamente l’ambiente dove si vive (la casa) è un luogo femminile. È chiaro che su questo le donne hanno una maggiore sensibilità e quindi possono sorgere dei conflitti, proprio perché questo per loro è più importante. Qua andrebbe ricordata l’importanza di mettersi dal punto di vista delle donne, guardare alle cose con gli occhi delle donne. Se c’è un litigio che può riguardare la mancanza di rispetto per uno spazio bisogna capire come questo sia importante nel vissuto delle persone.
L’infantilizzazione della persona detenuta per le donne è particolarmente pericolosa perché si incontra con l’immagine della donna come soggetto emotivo e infantile
A questo si aggiungono poi dei punti nevralgici dello stato di detenzione, come l’infantilizzazione della persona detenuta, corrispondente ad una diminuzione della dignità personale. Se questa tendenza vale per tutti, uomini compresi, per le donne detenute è particolarmente pericolosa perché appunto si incontra con l’immagine della donna come soggetto emotivo e infantile. Le donne sono già tradizionalmente viste a metà strada tra i minori e l’uomo adulto, emblema della razionalità. Questo processo di infantilizzazione tipico della detenzione trova quindi un terreno particolarmente morbido nel soggetto femminile. Di questo le donne si rendono ben conto e crea una sofferenza in più.
Da una parte quindi essere donna in carcere richiama un nocciolo duro di stereotipi legati al tradizionale ruolo femminile, ancora più radicati in stato di detenzione, dall’altra le donne che hanno partecipato ai nostri laboratori hanno dimostrato una volontà e una capacità di ragionare per superare questa visione stereotipata su cui è importante fare leva. Punto di forza è inoltre la capacità relazionale delle donne in carcere e l’apertura a intraprendere percorsi di empowerment, finalizzati al lavoro sulle proprie risorse e sulla propria soggettività. L’immagine di doppia disgrazia femminile circola molto anche tra le donne stesse, ma limitarsi a questa vuol dire negare una parte della realtà femminile che esprime volontà di forza e volontà di reazione.
Nel suo libro parla di carenza strutturale di attenzione alle donne all’interno di un carcere strutturalmente maschile. Secondo lei andrebbe previsto un approccio diverso, distinto?
Il primo obiettivo dovrebbe essere quello di abbattere la barriera di sesso: andrebbero create attività in comune
Il discorso di focalizzare le donne detenute è abbastanza complesso. Bisogna pensare che il crimine femminile non è mai stato visto come il crimine maschile. Vediamo ad esempio lo storico dibattito in America dove una parte del movimento femminista americano voleva delle carceri femminili distinte da quelle maschile. Alcune vennero realizzate e se da una parte erano più leggere di quelle maschili (più simili a delle comunità), dall’altra poiché la figura femminile che veniva fuori era, come detto, a metà tra minori e adulti, questi luoghi erano delle specie di riformatori. Per certi aspetti il riformatorio ha sicuramente condizioni di vita migliori, ma dall’altro verso è molto più intrusivo, con l’ambizione di rieducare la donna detenuta secondo il modello tradizionale della virtù femminile. Ovviamente ora i termini sono molto diversi, ma è un terreno abbastanza scivoloso. Si può rischiare, soprattutto attraverso una istituzione chiusa come il carcere, di ripercorrere delle vecchie strade.
Rispetto alla discussione carceri femminili o sezioni femminili in carceri a prevalenza maschili, da un parte è vero, e l’esperienza lo dimostra, che le sezioni femminili sono delle semplici appendici perché le attenzioni delle autorità sono concentrate sui maschi e sui loro numeri, e questo è un grandissimo pericolo. Dall’altra però bisogna stare molto attenti per evitare strutture solo femminili che ospitano poche detenute e offrono poche opportunità. Questo era ad esempio ciò che emergeva da una ricerca effettuata sul carcere femminile di Empoli, ora chiuso. Si trattava di un luogo molto poco depressivo apparentemente, con numeri piccoli, ottimi rapporti con il personale però era poverissimo di attività perché era una piccola realtà. Dalle interviste fatte ad alcune donne detenute a Empoli emergeva il desiderio di tornare in carceri più grandi che offrissero più opportunità.
Secondo me andrebbe seguita l’indicazione data all’epoca degli Stati Generali: il primo obiettivo dovrebbe essere quello di abbattere la barriera di sesso, per cui ci sono attività, ad esempio quella scolastica, che magari non si riescono a mettere in piedi sia per gli uomini che per le donne e dunque andrebbero create attività in comune. Dove ci sono state esperienze del genere sono state poi interrotte per il terrore della promiscuità. Questa è però una conseguenza della segregazione sessuale e del fatto che in Italia è di fatto prevista la pena suppletiva della castrazione sessuale. Assurdo quindi colpevolizzare le donne e gli uomini per questa paura di promiscuità che impedisce una vita comune all’interno di un unico luogo, potenzialmente in grado di offrire più opportunità a tutti.
All’interno dunque di un unico sistema, ad oggi declinato solo al maschile, si potrebbe comunque adottare un approccio che prenda più in considerazione i bisogni e le specificità della detenzione femminile? Cosa si potrebbe fare a tal fine, da un punto di vista pratico?
Un carcere che ha assimilato quanto l’esperienza femminile può offrire e che si presenta con una veste un po’ migliore, sia per le donne che per gli uomini
Più che di bisogni e specificità differenti parlerei di ‘sguardo’ differente femminile sull’insieme della condizione carceraria, che porta a suggerire cambiamenti in un unico sistema (sia per donne che per uomini) valorizzando l’esperienza delle donne. Su alcuni spaccati dei problemi del carcere, lo sguardo femminile ha un di più di consapevolezza, proprio per il portato storico dell’esperienza femminile e proprio perché negli ultimi 30/40 anni le donne hanno lavorato cercando di ragionare sulle proprie esperienze. L’importanza delle relazioni con i figli, con i partner, l’importanza di mantenere intatte queste relazioni, l’importanza dell’affettività, questi sono settori che ovviamente sono importanti anche per gli uomini, ma che sotto lo sguardo femminile acquisiscono maggiore centralità. Questo è il punto di vista che già anni fa presentava Tamar Pitch, quando conduceva il Tavolo degli Stati Generali dedicato alla detenzione femminile. Invece di dire: carceri divisi; invece di dire: il carcere per gli uomini che vale anche per le donne; dovremmo dire che il carcere delle donne vale per gli uomini e per le donne. Un carcere che ha assimilato quanto l’esperienza femminile può offrire e che si presenta con una veste un po’ migliore, sia per le donne che per gli uomini.
Sono diversi gli ostacoli e le carenze che impediscono la realizzazione di questo passaggio. Come prima cosa credo bisogni superare il concetto di lavoro in carcere per compartimenti stagni. Il volontariato va per conto suo e nessuno sa bene cosa fa, gli educatori sono pochi e lavorano per conto proprio, la Polizia penitenziaria idem. Non si riesce in tale modo a programmare un lavoro di miglioramento ambientale che ovviamente è un lavoro collettivo. La collettività entra in gioco solo in ottica emergenziale. Di fronte ad un’emergenza o a un compito specifico da portare avanti si mette insieme l’équipe, che in tempi ordinari non opera. Non esiste un lavoro di programmazione, ad esempio, per il miglioramento delle relazioni all’interno del carcere. Anche la prevenzione dei suicidi è sempre gestita con un’ottica emergenziale invece che come un miglioramento generale dell’ambiente all’interno degli istituti. Questo cambio d’approccio ovviamente andrebbe a beneficio di tutti, operatori e persone detenute. Tra queste, le donne ne beneficerebbero in particolar modo in quanto – come più volte emerso nei focus group – sono molto sensibili a queste problematiche strutturali dell’ambiente circostante. Sono sensibili anche perché spesso colgono in queste carenze relazionali una mancanza di rispetto nei loro confronti. Tutta la vita delle persone in carcere è sotto il controllo di chi ci lavora. Se in questo controllo della vita quotidiana viene in più avvertito un senso di non attenzione e di incuranza a questi aspetti più morali, può scaturire una crisi vera e propria. Le carceri dovrebbero dunque riuscire ad uscire da queste logiche emergenziali e riflettere su cosa vuol dire il dettato costituzionale, inteso come rispetto di tutti i diritti fondamentali esclusa solo la libertà di movimento. Ci sarebbe a tal fine bisogno di un grande lavoro di formazione affinché venga incoraggiato un cambiamento di approccio lavorativo. Una formazione efficace andrebbe erogata coinvolgendo tutti, dall’agente al volontario, creando piccoli nuclei misti.
Per quanto riguarda invece il disagio psichico, nel corso della sua esperienza professionale ha riscontrato particolari specificità che riguardano le donne detenute? In generale, cosa andrebbe fatto secondo lei per migliorare la gestione del disagio psichico in carcere?
Vi è una differenza tra i disturbi femminili e maschili. Ad esempio per le donne prevalgono le sindromi depressive e gli stati di sofferenza legati al distacco dai figli
Anzitutto va detto che c’è poca ricerca e pochi dati sulla salute mentale in carcere. Quei pochi dati che ero riuscita a rilevare quando lavoravo per il Comitato Nazionale per la Bioetica3) sulla salute in carcere dimostrano una differenza tra i disturbi femminili e maschili, che ovviamente si tratta di una differenza prevedibile. Ad esempio per le donne prevalgono le sindromi depressive e gli stati di sofferenza legati al distacco dai figli. Per le ragioni raccontate prima, nelle esperienze di detenzione femminile appaiono inoltre più nitidi e frequenti processi di ‘depersonalizzazione’ e dis-empowerment.
Inoltre, un punto molto delicato da tenere a mente, particolarmente quando si parla di donne detenute, è quanto dice l’OMS in relazione alla salute mentale in carcere, ossia che essa non è solo una questione di servizi di salute mentale, non è solo questione di psichiatri e psicologi in carcere, ma è una questione di condizioni ambientali. Nei lavori dell’OMS veniva fuori che il fattore protettivo più importante per la salute mentale in carcere era trovare delle relazioni supportive, un buon clima relazionale e delle figure di sostegno. Ovviamente da una parte non dobbiamo negare la realtà, sapendo che in carcere c’è una maggiore concentrazione di disturbi, anche di disordini psichiatrici di una certa gravità, dall’altra parte però la stragrande maggioranza delle persone ha problematiche psicologiche che sarebbe sbagliato trattare come disordini psichiatrici, visti solo in termini di assunzione di terapie, e che andrebbero invece affrontate in termini relazionali e di miglioramento delle condizioni. Questo anche e soprattutto in situazioni di crisi, ad esempio quando si riceve una brutta notizia, che andrebbero supportate in maniera diversa. Per superare una crisi non si dovrebbe isolare una persona, come accade in carcere, per evitare che compia gesti estremi, ma si dovrebbe intervenire sulla crisi supportandola. Questo è vero anche in un’ottica preventiva. Nel momento in cui emergono dei segnali di particolare disagio, la persona non deve essere isolata, ma al contrario andrebbe collocata con chi ha un buon rapporto, cercando ad esempio di farla interfacciare con il personale con cui ha migliori relazioni. Bisogna trovare un equilibrio, altrimenti il rischio è che le direzioni degli istituti, che già sono pressate da tante situazioni, per paura di non saper gestire le situazioni si disfino del problema, semplicemente isolando i soggetti più a rischio.
Bisognerebbe superare l’approccio emergenziale e prevedere una programmazione strutturata della salute, sia fisica e psichica, in carcere
Teniamo presente che il carcere ha l’eredità nefasta dell’OPG, ma il carcere non è preparato a gestire né le grandi problematiche né le piccole. Qui c’è una debolezza anche dei DSM, che allo stesso modo avevano la scappatoia degli OPG. La riforma che li ha aboliti forse avrebbe dovuto mettere in conto un lavoro di formazione in carcere per gestire tali problematiche, affinché esso fosse in grado di gestire le sofferenze più acute ma anche di adottare degli interventi per ridurre il tasso di sofferenza psichica della popolazione carceraria. Nella formazione degli operatori penitenziari si guarda al disagio psichico solamente come un problema individuale, di soggetti singoli che hanno problematiche psichiatriche, che sono in carcere anche se dovrebbero essere altrove. La questione viene vista come di competenza altrui (dello psichiatra e dello psicologo), che riguarda l’operatore penitenziario solo in ottica di gestione del soggetto. Da quanto emerso dal CNB, in generale manca una programmazione della salute sia fisica e psichica in carcere. Non c’è un progetto, ad esempio un piano triennale dell’istituto per migliorare la salute delle persone detenute. Il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe tradursi non solo in obiettivi di gestione dei servizi, ma anche di miglioramento della salute delle persone detenute. Si lavora anche qui in compartimenti stagni. Se non vi è comunicazione tra aree sanitarie e direzioni, con una programmazione comune, il passaggio al SSN perde un po’ di senso. Bisognerebbe nuovamente superare l’approccio emergenziale e prevedere una programmazione strutturata.
Un tema più volte rilevato da Antigone è come in diversi casi le donne detenute provengano da precedenti trascorsi di abusi. Alcune addirittura si rendono conto in carcere di aver subito tali abusi perché magari è la prima volta che parlano con un operatore e raccontano la propria storia. Appena fuori dal carcere il percorso intrapreso rischia però di svanire. Aver smosso qualcosa nel periodo di detenzione può avere effetti forti, facendo in alcune occasioni crollare la persona in stati di depressione. Secondo lei come si potrebbe intervenire?
Il passaggio della medicina penitenziaria al SSN dovrebbe tradursi nella considerazione dell’intervento in carcere solo come in uno dei vari presidi sanitari del territorio (..) Si potrebbe immaginare un percorso più fluido tra il dentro e il fuori
Purtroppo ad oggi non è garantita la continuità terapeutica. Soprattutto in casi di crisi è necessario che venga mantenuto un filo di continuità con chi ha instaurato un particolare dialogo in carcere. La persona che esce dall’istituto, per le sue esigenze di salute, dovrebbe poter ritrovare quelle persone anche all’esterno. Non importa se poi la persona decide di non proseguire il percorso intrapreso, l’importante è che sappia che volendo potrebbe farlo. Un’idea potrebbe essere la previsione nei presidi territoriali di momenti di collegamento con gli operatori, dove ad esempio gli psicologi che hanno seguito la persona in carcere sono a disposizione per qualche ora a settimana. Tale servizio potrebbe poi fungere da tramite, accompagnando la persona verso nuovi servizi esterni. Il passaggio della medicina penitenziaria al SSN dovrebbe tradursi nella considerazione dell’intervento in carcere solo come in uno dei vari presidi sanitari del territorio. Gli psicologici e gli psichiatri che lavorano in istituti penitenziari non dovrebbe essere legati solo a questi. Trattandosi di specialisti appartenente al DSM si potrebbe infatti immaginare un percorso più fluido tra il dentro e il fuori, a beneficio sia della persona detenuta che dello specialista stesso. Da un punto di vista teorico questo approccio risulta ovvio, la pratica è però più complessa.
References
↑1 | Grazia Zuffa, psicologa, PhD, svolge attività di ricerca e formazione nel campo dell’uso di droghe, delle dipendenze, del carcere. E’ stata responsabile dell’attività di ricerca della Onlus Forum Droghe e ha collaborato con numerose altre realtà della società civile. Ha fatto parte del Comitato Scientifico Nazionale sulle tossicodipendenze (2006-2008). È’ stata Professoressa di Psicologia delle tossicodipendenze presso la facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Firenze. Ha svolto diversi incarichi istituzionali, a livello locale e nazionale. Dal 1987 al 1994 è stata Senatrice della Repubblica. Ha fatto parte del Comitato Regionale di Bioetica della Toscana (1996-2000). Dal 2006 è membro del Comitato Nazionale di Bioetica. |
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↑2 | Con il progetto WIT Grazie Zuffa e Susanna Ronconi proseguono la ricerca sul carcere femminile condotta nel 2013 e raccontata nel volume Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere. I focus group realizzati nel 2018 all’interno del progetto WIT hanno coinvolto donne detenute e personale degli istituti di Firenze Sollicciano e Pisa Don Bosco. Da questo percorso prende spunto il libro La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti, Susanna Ronconi e Grazia Zuffa, Ediesse, 2020. Il progetto è stato ideato ed eseguito da La Società della Ragione ONLUS. |
↑3 | Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), istituito con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 28 marzo 1990. Per approfondire il tema “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere”, 22 marzo 2019, relazione del gruppo di lavoro coordinato dalla Dott.ssa Grazia Zuffa. |