Le norme

Le norme

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Patrizio Gonnella

Le norme per le donne detenute: analisi e mancanze

La legge in vigore si limita a prevedere che le donne siano separate dagli uomini (articolo 14 legge 354 del 1975)

Non sono solo le norme a cambiare la qualità della vita nelle carceri, ma di certo le norme hanno un peso, non solo regolativo ma anche di orientamento culturale.

Nella legislazione penitenziaria italiana ci sono pochi riferimenti alla condizione specifica delle donne detenute. Le donne costituiscono una minoranza della popolazione carceraria, e il modello penitenziario prescelto è, sia nelle norme che nella sua traduzione pratica, prevalentemente concepito per gli uomini. Manca un insieme dettagliato di norme e standard capace di tener conto delle esigenze specifiche delle donne detenute. La legge in vigore si limita a prevedere che le donne siano separate dagli uomini (articolo 14 legge 354 del 1975). La parola ‘donna’ compare altre sei volte nell’Ordinamento penitenziario, ma mai con uno sguardo olistico alla specificità dei bisogni personali. La più recente innovazione è del 2018 quando la famosa montagna partorì il topolino. Nonostante nel disegno di legge delega di riforma dell’Ordinamento penitenziario fosse indicata la necessità di una norma ad hoc che, seguendo il modello delle European Prison Rules del Consiglio d’Europa (Regola 34), affrontasse tutte le particolarità della detenzione femminile con una prospettiva di genere, invece ci si è limitati a modificare l’articolo 19 introducendo il seguente comma: «Tramite la programmazione di iniziative specifiche, è assicurata parità di accesso delle donne detenute e internate alla formazione culturale e professionale». Nella legge del 1975 le donne sono altresì citate a proposito della necessità di assicurare ispezioni e traduzioni con personale dello stesso sesso, nonché per la loro condizione di madri, presenti o future. Non altro.

Le Regole Penitenziarie Europee dedicano un più ampio spazio alla condizione delle donne. Si parla di bisogni non solo fisici, ma anche professionali, sociali e psicologici, così delineando un’identità femminile che non è solo biologica ma è anche biografica e sociale

Come detto, invece, in ambito europeo le Regole Penitenziarie Europee dedicano un più ampio spazio alla condizione delle donne. La citata Regola 34, tra l’altro, prevede che: «Le autorità devono porre un’attenzione particolare ai bisogni fisici, professionali, sociali e psicologici delle donne detenute al momento di prendere decisioni che coinvolgono qualsiasi aspetto della detenzione». Dunque si parla di bisogni non solo fisici, ma anche professionali, sociali e psicologici, così delineando un’identità femminile che non è solo biologica ma è anche biografica e sociale.

Nella successiva Regola 81 si prevede che debba esserci un personale penitenziario formato e specializzato a lavorare con le donne (oltre che con minorenni, stranieri e malati psichici). Dunque le specificità penitenziarie richiedono attenzione su tanti livelli, compresi quelli organizzativi, formativi, strutturali. Invece la donna nell’Ordinamento penitenziario italiano è considerata principalmente nella sotto-identità di madre. In parte se ne è resa conto la stessa amministrazione penitenziaria, che pur non facendo il passo lungo e necessario di una più complessa riorganizzazione degli uffici, per colmare il gap che divide la nostra legge rispetto alle regole europee, nel 20081) ha proposto un regolamento ministeriale per le sezioni e gli istituti femminili. Viene messo a disposizione degli istituti periferici un regolamento-tipo che dovrebbe valere dappertutto a esclusione delle sezioni di Alta Sicurezza. Si ammette in modo esplicito che la circolare «mira a colmare una grave lacuna dell’organizzazione penitenziaria, favorendo l’introduzione su tutto il territorio nazionale, pur con gli adattamenti necessari a ciascuna realtà locale, di una regolamentazione specifica che tenga conto delle peculiarità dell’esecuzione penale riguardante il genere femminile». Compare la parola ‘genere’. Si riconosce che «forse anche a causa dell’esiguità della percentuale di donne detenute, rimasta pressoché costantemente attestata intorno al 5% delle presenze complessive, si riscontra un’evidente difficoltà del sistema a elaborare accorgimenti organizzativi e offerte riabilitative idonei a cogliere e valorizzare la specificità della popolazione detenuta femminile». Addirittura si scrive che: «nel mondo penitenziario, sono andati diffondendosi linguaggi e codici valoriali riferibili essenzialmente agli uomini, basati su meccanismi di dominio e su modalità relazionali fondate sul potere e sulla forza. Ciò ha determinato un’oggettiva difficoltà nel riconoscere ed accogliere la complessità del ‘femminile’ inteso non sono come differenza di sesso ma anche come diversità dl sistemi simbolici e valoriali… Si rende, quindi, necessario un lavoro di sensibilizzazione finalizzato all’attivazione e alla costruzione di un impianto concettuale, metodologico e di intervento politico e sociale che riconosca e valorizzi la differenza di genere, così dando piena attuazione alle norme, nazionali ed internazionali, che tutelano i diritti delle persone ristrette».

Dopo queste premesse ci si sarebbe potuti attendere una maggiore ambizione regolamentare. Invece restano ancora eccessive le assimilazioni tra uomo e donna nella vita quotidiana. Eppure le donne evadono meno, non commettono quasi mai atti di violenza e i magistrati di sorveglianza si fidano maggiormente di loro nella concessione di misure alternative alla detenzione. Seppur meritoriamente ispirato a una idea nuova di regolamentazione specifica della identità femminile, tornano anche nella circolare alcuni stereotipi. Ad esempio sulle vocazioni e le passioni femminili. L’identità femminile di cui occuparsi pare sia in alcune regole quella della donna casalinga appassionata di sartoria, per cui la si autorizza a tenere con sé il kit per il cucito, cosa che mai sarebbe pensabile prevedere anche per il più tranquillo e ‘sicuro’ degli uomini.

Un’attenzione adeguata è data nella legislazione primaria e secondaria alle donne detenute madri. La legge italiana prevede un’ampia possibilità di accesso alle alternative alla detenzione, sia nella fase pre-processuale che nell’esecuzione della pena. La madre può scegliere di tenere con sé il bambino fino all’età di tre anni. In questi casi, esistono sezioni e istituti speciali con un regime interno molto aperto e un alloggio simile a una casa normale. Tuttavia, la legge non prevede che l’amministrazione penitenziaria si occupi delle attività più significative per i bambini, in particolare della possibilità di uscire dal carcere, che sono affidate a volontari. L’art. 47-quinquies prevede una specifica misura alternativa (detenzione domiciliare speciale) per le donne con figli fino ai dieci anni di età.

Nell’Ordinamento penitenziario tutto è tendenzialmente declinato al maschile, a partire dal linguaggio

Nell’Ordinamento penitenziario tutto è tendenzialmente declinato al maschile, a partire dal linguaggio. Come detto, vi sono riferimenti alle donne qua e là in ordine sparso, con uno sguardo rivolto prioritariamente (o meglio quasi esclusivamente) alla donna qualora si trovi nella condizione di madre di bambino piccolo. Vi è una considerazione normativa indiretta per la madre in quanto genitrice di un bambino di cui ha la potestà di cura. All’articolo 11 si prevede, come menzionato, che alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini si prevede l’organizzazione di appositi asili nido. Gli articoli 21-bis e 21-ter, introdotti in epoca più recente2), assimilano il lavoro all’esterno all’assistenza dei figli. Queste norme insieme a quelle che seguono, in materia di donne in stato di gravidanza o di neo-madri, mettono al centro dunque non la donna in quanto tale ma la donna nel suo rapporto con il figlio che verrà o che è appena nato. Come detto è la relazione madre-figlio che si vorrebbe preservare nell’interesse superiore del minore.

Con le due leggi del 2001 e del 2011, approvate nell’arco di un decennio, il legislatore, sull’onda dell’emozione data dall’innocenza ristretta dietro le sbarre, ha cercato soluzioni che consentissero di andare oltre il modello detentivo classico, ogniqualvolta ci fossero donne con bimbi piccoli. Il legislatore ha provato a disegnare nei confronti della detenuta madre un sistema di speciali misure alternative alla detenzione e di attenuazioni alla reclusione ordinaria. Si individua un ventaglio di soluzioni alternative alla pena del carcere. Dalla ipotesi che più gli assomiglia – la reclusione in un istituto a custodia attenuata – a quella più lontana per caratteristiche, come la casa famiglia protetta.

Anche il precedente articolo 39 della legge in materia di isolamento per motivi disciplinari (che ne prevede la sospensione in caso di donne gestanti o puerpere) è pensato principalmente in funzione dell’esigenza prioritaria di conservare intatto il rapporto con la prole e di non creare danni irreversibili a quest’ultima. Il successivo articolo 50 prevede che: «Se l’ammissione alla semilibertà riguarda una detenuta madre di un figlio di età inferiore a tre anni, essa ha diritto di usufruire della casa per la semilibertà di cui all’ultimo comma dell’articolo 92 del decreto del Presidente della Repubblica 29 aprile 1976, n. 431».

Dunque più che un’attenzione specifica alla condizione femminile, nel tempo si è strutturata un’attenzione all’identità di madre

Dunque più che un’attenzione specifica alla condizione femminile, nel tempo si è strutturata un’attenzione all’identità di madre. Un’attenzione che però non è rivolta alla madre tout court, ovvero anche a quella con figli piccoli o grandi fuori dall’Istituto, bensì alla sola madre di bimbo molto piccolo costretto a stare in carcere per mancanza di altre soluzioni familiari. Sono i soli articoli 14, in materia di ubicazione delle donne e loro netta separazione dagli uomini, e 42-bis in materia di traduzioni (articolo introdotto nel 1992 in occasione delle modifiche dirette a irrigidire la legislazione penitenziaria nei confronti delle persone accusate o condannate per taluni crimini ritenuti più gravi) a occuparsi della donna in quanto donna e non del solo caso della donna-madre.

Come si può vedere l’insieme delle disposizioni di legge non guarda in profondità alla differenza femminile. Una maggiore consapevolezza dell’identità femminile è presente invece all’interno del Regolamento di esecuzione del 20003). All’articolo 8 a proposito di igiene personale e all’articolo 9 in materia di vestiario e corredo si introduce, seppur con molta cautela, il tema della specificità dei bisogni delle donne. Alle sole donne viene concessa la presenza del bidet in cella (art. 7), norma, tra l’altro, solo parzialmente adempiuta. Nel tempo è stata la sola condizione di madre di figlio infante ad avere un’attenzione crescente.

Il nostro Ordinamento penitenziario, dunque, non riproduce fedelmente gli standard internazionali contenuti nelle Regole Penitenziarie Europee, nelle Regole Penitenziarie Onu (Mandela Rules, 2015) e nelle Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reato (cosiddette Regole di Bangkok, luglio 2010).
Queste ultime contengono alcune Regole che meriterebbero una loro traduzione nella nostra legislazione affinché acquisiscano cogenza.

    In particolare le seguenti norme, per la loro potenziale capacità di migliorare la qualità delle condizioni detentive e di contrastare la recidiva, potrebbero avere un impatto positivo:

  • Regola 5: «Gli alloggi delle donne detenute devono disporre di strutture e materiali necessari a soddisfare le esigenze igieniche specifiche delle donne, compresi gli assorbenti igienici forniti gratuitamente e una fornitura regolare di acqua da mettere a disposizione per la cura personale dei bambini e delle donne, in particolare di coloro che cucinano e di quelle incinte, che allattano o che hanno le mestruazioni». Una norma di questo tipo ben potrebbe essere inserita nel Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario.
  • Regola 6, lettera e): «Lo screening sanitario delle donne detenute deve includere uno screening completo per determinare i bisogni primari di assistenza sanitaria, e deve anche determinare: (…) l’abuso sessuale e altre forme di violenza che possono essere state subite prima dell’ammissione».
  • Regola 7, par. 1: «Se viene diagnosticata l’esistenza di abusi sessuali o altre forme di violenza prima o durante la detenzione, la detenuta deve essere informata del suo diritto di ricorrere alle autorità giudiziarie. La detenuta deve essere pienamente informata delle procedure e dei passi da compiere. Se la detenuta accetta di intraprendere un’azione legale, il personale competente deve essere informato e deve immediatamente riferire il caso all’autorità competente per le indagini. Le autorità carcerarie devono aiutare queste donne ad accedere all’assistenza legale».
  • Regola 10, par. 1: «Alle donne detenute devono essere forniti servizi sanitari specifici per genere almeno equivalenti a quelli disponibili nella comunità». Si tratta di prevedere indicazioni normative precise per chi opera nei servizi socio-sanitari delle Asl, affinché il trattamento medico non sia prevalentemente finalizzato alla diagnosi e alla terapia ma tendenzialmente verso la prevenzione. I numeri bassi della popolazione detenuta femminile ben consentirebbero uno screening medico generalizzato preventivo, nonché un’attenzione alle storie di vita di ciascuna delle donne presenti nelle carceri, anche allo scopo di identificare tratti comuni nelle rispettive biografie. Non è infrequente in esse ritrovare episodi di violenza sessuale o maltrattamenti nei contesti familiari e sociali di provenienza. L’identificazione degli stessi potrebbe essere utile per avviare percorsi di analisi e sostegno psico-sociale, a loro finalizzati al recupero della memoria e di una prospettiva di emancipazione dai luoghi criminogeni e di dominio maschili. Gli operatori del servizio socio-sanitario devono costruire un ponte con gli altri operatori, affinché le storie di violenza subita siano anche al centro di una eventuale successiva azione legale. In ogni istituto penitenziario dovrebbe esserci uno sportello di orientamento legale che abbia anche una vocazione ad affrontare questioni di genere.
  • Regola 22: «Le punizioni con l’isolamento o la segregazione disciplinare non devono essere applicate alle donne incinte, alle donne con neonati e alle madri che allattano in carcere». Non esiste nella legge italiana una norma esplicita che vieti l’isolamento per i gruppi vulnerabili. Quindi la legge penitenziaria italiana non è in linea non solo con la Regola 22 delle Bangkok Rules ma anche con l’articolo 45, comma 2, della Mandela Rules che prevede che proibisce l’isolamento e misure simili in una serie di casi riguardanti persone vulnerabili e cita anche le donne e i bambini. L’isolamento è nocivo. Produce effetti devastanti per la salute psico-fisica. Un riferimento regolamentare specifico alle donne favorirebbe sicuramente un uso ancora più ridotto della sanzione disciplinare della esclusione dalle attività in comune.
  • Regola 33, par. 1: «Tutto il personale incaricato di lavorare con le donne detenute deve ricevere una formazione relativa alle esigenze specifiche di genere e ai diritti umani delle donne detenute». Sarebbe sicuramente utile un riferimento specifico nei piani formativi ai bisogni e ai diritti delle donne detenute. È dalla formazione degli operatori di Polizia, dei direttori e degli educatori che passa un nuovo modello penitenziario che tenga conto delle differenze nell’uguaglianza.

Infine, nella Legge 395/1990, che smilitarizzò il Corpo degli Agenti di Custodia e che modificò il modello organizzativo introducendo i Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria, non ci sono norme che affrontano la discriminazione di genere nei confronti del personale femminile. La Regola 29 delle Regole di Bangkok stabilisce che «le misure di rafforzamento delle capacità del personale femminile devono includere anche l’accesso a posizioni di responsabilità per lo sviluppo di politiche e strategie relative al trattamento e alla cura delle donne detenute». La regola 30 delle Regole di Bangkok chiarisce che deve esserci un «impegno chiaro e sostenuto a livello dirigenziale nelle amministrazioni penitenziarie per prevenire e affrontare la discriminazione di genere nei confronti del personale femminile». L’articolo 32 delle Regole di Bangkok sottolinea, infine, la necessità di sviluppare e attuare «politiche e regolamenti sulla condotta del personale penitenziario volti a fornire la massima protezione alle donne detenute da qualsiasi violenza fisica o verbale, abuso e molestia sessuale basata sul genere». Di tutto questo ci sarebbe bisogno nella legislazione e nella pratica carceraria italiana.

References

References
1 Circolare numero PU-GDAP-1a00-17/09/2008-0308208-2008 del 17 settembre del 2008 che istituisce il Regolamento interno per gli istituti e le sezioni femminili.
2 Rispettivamente con leggi n. 40 dell’8 marzo del 2001 e n. 62 del 22 aprile del 2011, ovvero le due leggi che hanno cercato, senza riuscirci del tutto, di residualizzare la presenza in carcere di bambini sotto i tre anni costretti alla reclusione insieme alle loro mamme condannate.
3 Anche nel Regolamento del 2000 approvato con d.p.r. n.230 vi sono norme dedicate alle donne-mamme e precisamente l’articolo 14 (che non prevede limitazioni alla ricezione dei pacchi per le detenute madri con prole in carcere) e l’articolo 19 (che assicura alle gestanti e alle madri con bambini l’assistenza di specialisti in ostetricia e ginecologia. Prevede anche che il parto debba essere preferibilmente effettuato in luogo esterno di cura. Inoltre dedica attenzione all’assistenza pediatrica e ostetrica oltre che alla vita stessa del bambino).