Tra le donne autrici di reato, qualsiasi indagine svolta ha evidenziato la massiccia presenza di esperienze di pregressa vittimizzazione che sono state, in modo diretto o indiretto, all’origine del reato realizzato
È ormai da diversi anni che il tema della violenza sulle donne, come la questione di genere in senso lato, riceve la dovuta attenzione da parte della società. Si continua invece a trascurare quell’universo femminile che entra in relazione con la giustizia penale non nella veste di persona offesa bensì di imputata, prima, e condannata e detenuta poi.
Tra le donne autrici di reato, qualsiasi indagine svolta ha infatti evidenziato la massiccia presenza di esperienze di pregressa vittimizzazione che sono state, in modo diretto o indiretto, all’origine del reato realizzato. Al netto di ciò, nella percezione generale difficilmente la condizione detentiva viene associata a quella di vittima. Dagli studi che, sul finire del secolo scorso, hanno approfondito il tema emerge invece una popolazione detenuta composta da donne che hanno subito episodi di violenza ed abusi durante l’infanzia e l’età adulta, all’interno del contesto familiare o della relazione affettiva. Tale dato mette in luce un’ulteriore peculiarità che caratterizza la detenzione femminile, già percorsa da innumerevoli aspetti di criticità.
Secondo studi di psicologia, come confermati anche da autorevoli documenti ad opera di organismi internazionali (quali l’Handbook on Women and Imprisonment, ad opera dell’UNODC, o il Factsheet on women in prison del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti), la violenza, nella sua forma fisica, psicologica o sessuale, ha un impatto evidente sulla salute, sia fisica che psichica, e sull’emersione di comportamenti a rischio (quali l’assunzione/le dipendenze da alcol, droghe o psicofarmaci) da parte delle donne che ne sono vittima. Se la relazione tra violenza e salute è ormai acclarata, il tema della sofferenza psicologica della donna rimane ancora non opportunamente considerato dagli operatori sanitari e nel contesto dei servizi sociali e giudiziari, tanto da, come verrà approfondito nel prosieguo rispetto ad alcune vicende processuali, ritorcersi contro la donna, se tale sofferenza si manifesta in perdita di memoria, sintomi da stress post-traumatico o assenza di segni di sofferenza, che possono rendere meno credibile la sua denuncia.
Secondo la più recente letteratura psicologica americana, rispetto alle donne libere e altresì agli uomini incarcerati, le donne detenute riportano una prevalenza significativamente più alta di abusi emotivi, fisici e sessuali
Secondo la più recente letteratura psicologica americana (cfr. P. Saxena, N. Messina, 2021), rispetto alle donne libere e altresì agli uomini incarcerati, le donne detenute riportano una prevalenza significativamente più alta di abusi emotivi, fisici e sessuali: gli studi mostrano una correlazione più forte nelle donne tra gli abusi subiti, e il loro protrarsi nell’adolescenza/età adulta, e una maggiore gravità di esiti cronici sulla salute mentale e fisica.
Un passato drammatico facilita dunque l’emersione di disturbi psichici e di dipendenza da alcool o droga, i quali sono molto frequenti tra le detenute donne. È emblematico in tal senso che nel 2022 ben 5 donne si siano tolte la vita in carcere.
A tali considerazioni si aggiunga la circostanza per cui il luogo in cui avviene la limitazione della libertà personale segue i canoni dettati dalle esigenze e condizioni di detenuti di sesso maschile: la permanenza in carcere si presenta dunque manifestamente inadeguata ad affrontare le vulnerabilità specifiche della componente femminile della popolazione ristretta e, dunque, a produrre soddisfacenti risultati di reinserimento sociale (C. Pecorella, 2018).
Invero, le peculiarità descritte sono state prese in considerazione sul piano internazionale, in prima battuta, in una Risoluzione del Parlamento europeo del 13 marzo 2008, in cui si constatava che “gran parte delle donne detenute è stata vittima di violenza, abusi sessuali, maltrattamenti nell’ambito della famiglia e della coppia”, evidenziando dunque l’esistenza di una correlazione tra tali episodi pregressi e la successiva carriera criminale: si invitavano gli Stati membri a dare maggiore considerazione al passato traumatico delle donne detenute, attraverso la formazione del personale, l’introduzione di strutture di reinserimento concepite per le donne e l’aumento dei centri di detenzione femminili sul territorio. Nelle successive Regole per il trattamento delle donne detenute o sottoposte a misure non detentive (c.d. Bangkok Rules), adottate nel 2010 dall’Assemblea generale dell’Onu ad integrazione delle Regole minime per il trattamento dei detenuti del 1955, per quel che maggiormente interessa in questa sede, viene dichiarata la necessità di tener conto delle vissute esperienze di violenza (si veda la regola n. 6 che richiede uno screening medico all’ingresso in carcere, che includa un esame di eventuali abusi sessuali o di altre forme di violenza che possono essersi verificate prima dell’ingresso). Tuttavia, come evidenziato nel Global Prison Trends del 2021, ad opera della ong Penal Reform International, a più di 10 anni dalla loro adozione, l’attuazione delle Regole di Bangkok rimane oltremodo frammentaria, essendo ancora carenti i programmi di intervento e di sostegno per le donne detenute sopravvissute alla violenza di genere.
Rispetto al contesto italiano, poche indagini approfondiscono l’ormai assodato legame tra vittimizzazione e detenzione femminile. Una tra queste è la ricerca portata avanti da un gruppo di studiosi penalisti (C. Pecorella, 2018) sulla sezione femminile della Casa di Reclusione di Milano-Bollate (nello specifico su 69 donne in espiazione di pena alla data del 31 dicembre 2015), dalla quale è emersa, rispetto al campione in oggetto, un’alta percentuale di donne che avevano subito violenze nell’infanzia (da parte dei genitori in 18 casi e altri familiari in 4 casi) o in età adulta (in 14 casi ad opera del partner): in un solo caso la violenza era stata opera di estranei, mentre in 5 casi agli abusi da parte della famiglia si erano aggiunti quelli del partner. Tale ricerca sottolinea come un chiaro segnale del disagio con cui le donne vivono la detenzione sia dato dal fatto che vi è da parte di queste una scarsa partecipazione alle attività trattamentali, ai corsi di istruzione, di formazione professionale e alle attività culturali. Ricostruendo la vicenda criminale del campione di donne analizzato (da cui emerge una predominanza di reati commessi contro il patrimonio, in materia di stupefacenti, nonché di reati contro la persona, nello specifico ben 14 omicidi), si evidenzia come, al netto dei casi in cui il reato trae origine esclusivamente in un disturbo psicopatologico della persona o è collegato ad una dipendenza, si tratti di forme di criminalità radicate in contesti culturali dove il ruolo della donna è relegato a garantire la prosecuzione della specie o di ipotesi di delitti dettati dalla scelta di porre fine ad anni di umiliazioni e violenze da parte del partner.
L’esempio più evidente e diretto della correlazione tra vittimizzazione pregressa e sviluppo di successivi comportamenti devianti è quello dei casi di omicidio o tentato omicidio del partner
Tale ultima constatazione ci dà l’opportunità di menzionare un recente studio (C. Pecorella, 2022) che analizza delle vicende giudiziarie che hanno portato alla condanna di alcune donne per il reato di omicidio. L’esempio più evidente e diretto della correlazione tra vittimizzazione pregressa e sviluppo di successivi comportamenti devianti è infatti proprio quello dei casi di omicidio o tentato omicidio del partner, posti in essere dalla donna per difendersi o porre fine a una situazione persistente di aggressioni fisiche e psicologiche. Il contesto di violenza, come confermato da una recente ricerca dell’ong Penal Reform International, caratterizza pressoché tutti i casi di uccisione del partner o dell’ex- partner da parte di una donna che non presenti disturbi di natura psicologica che abbiano una qualche incidenza sulla commissione del fatto.
Lo studio porta avanti una riflessione sul riscontro che quel gesto disperato e drammatico trova nelle norme del nostro ordinamento giuridico. Tra quelle analizzate, solo in due pronunce si ritiene sussistente in capo alla donna la scriminante della legittima difesa: si tratta di sentenze che dimostrano come siano praticabili quelle soluzioni ermeneutiche critiche rispetto all’interpretazione restrittiva dei presupposti necessari per il riconoscimento di una situazione di legittima difesa. Si fa riferimento a quell’impostazione che tende a ravvisare la scriminante in esame solo nel caso in cui il gesto sia compiuto nel corso di un’aggressione in atto, potendosi in tal caso rinvenire il presupposto dell’attualità del pericolo o della necessità dell’azione, dovendosi per contro escludere invece tutte quelle ipotesi in cui l’azione, in questo caso della donna vittima di violenze, intervenga in un momento di poco successivo all’ultimo atto subito, oppure in via preventiva per impedirne ulteriori. Tale consolidato orientamento, che conferma la scarsa applicazione dell’istituto della legittima difesa nel nostro ordinamento per scelte di politica criminale legate alla necessità di evitare un indiscriminato spazio di autotutela privata, se applicato a casi di uccisione del partner maltrattante aumenta il rischio di possibili processi di vittimizzazione secondaria, atteso che manca totalmente da parte dei giudici l’indagine del vissuto della donna e la capacità di saper riconoscere le conseguenze che quella violenza ha prodotto sul suo comportamento. Emblematico in tal senso l’articolo 61 delle già menzionate Regole di Bangkok, nel quale si incoraggiano le autorità giudiziarie a tenere in considerazione il background tipico delle donne autrici di reati come fattore “almeno” attenuante.
La mancanza di una visuale di genere del fenomeno criminale femminile si riscontra altresì nel campo dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, in particolare del delitto di calunnia, ritenuto integrato in alcuni casi di donne che ritrattano o ridimensionano precedenti accuse. La circostanza della ritrattazione è qualificata automaticamente in termini di responsabilità penale senza alcun approfondimento delle peculiarità che assume la calunnia nell’ambito delle relazioni affettive, trasformando così il giudizio per calunnia in un ulteriore episodio di vittimizzazione (anche nei casi in cui l’esito sia il proscioglimento o l’assoluzione, atteso che la sola esperienza processuale può avere una valenza afflittiva). In alcuni casi analizzati in uno studio sulla giurisprudenza del tribunale di Milano (C. Pecorella, 2020), lo stato psicologico della donna è ritenuto irrilevante per valutare il peso della ritrattazione. Che da queste ritrattazioni possano nascere più o meno automaticamente imputazioni per calunnia si sollevano molti dubbi di ragionevolezza.
Altre ricerche hanno evidenziato che vissuti di pregressa violenza possono influenzare la scelta deviante o il percorso criminale anche in termini non di stretta causalità lineare
Quella fin d’ora descritta è la prospettiva di donne ritrovatesi prima imputate e poi detenute per atti di stretta conseguenzialità rispetto alla violenza subita. In senso più ampio altre ricerche hanno evidenziato che vissuti di pregressa violenza possono influenzare la scelta deviante o il percorso criminale anche in termini non di stretta causalità lineare, ma concorrendo allo sviluppo di alcune condotte criminose. Spesso si tratta di reati di carattere economico, come il furto, il taccheggio o l’utilizzo di carte di credito rubate, atteso che, allorquando la vittima riesca ad allontanarsi da una situazione di abusi, questa si trova spesso in condizioni di estrema precarietà che influenzano il ricorso ad attività illegali.
Secondo un’ulteriore studio (C. A. Romano, L. Ravagnani, N. Policek, 2017) svoltosi in alcuni istituti penitenziari italiani attraverso la somministrazione di 116 questionari (elaborati a partire da un originale creato da Susan Sharp dell’University of Oklahoma, studiosa che da anni si occupa di questi temi), è emerso che il 15,9% delle donne intervistate avesse vissuto con un padre violento e il 10,3% con una madre violenta: il 24,1% del campione ha dichiarato di aver subito violenza fisica da bambina (nel 40,7% dei casi si trattava di un soggetto non legato da parentela, nel 37% dei casi di uno o entrambi i genitori, nel 22,2% di un parente, nel 7,4% di un fratello o di una sorella e nel 3,7% dei casi di un patrigno o di una matrigna).
Passando ora ad un piano più prettamente giuridico, anche dal punto di vista della normativa dedicata alla vittima di reato si constata una scarsa attenzione alla figura dell’autrice di reato vittima di violenza. La cornice normativa in oggetto si compone delle Direttive europee n. 80 del 2004, di natura civilistica, in materia di diritto all’indennizzo per la vittima, e n. 29 del 2012, di matrice penalistica, che definisce gli standard minimi di tutela, di supporto e protezione da mettere in campo da parte degli Stati membri, garantendo inoltre alle vittime di reato un ruolo attivo nel procedimento penale a carico del presunto autore. Una ricerca condotta di recente da Antigone (C. Antoniucci, 2018) ha sottolineato come le vittime in stato di detenzione presentino esigenze di tutela marcatamente diverse da quelle della vittima di reato in stato di libertà: tra tutte, quella di poter condividere con l’autore della violenza il luogo di detenzione, o il tema, rispetto a possibili violenze subite in carcere, anche da appartenenti della Polizia penitenziaria, dell’assenza di un’autorità indipendente deputata a ricevere le denunce, atteso che è la stessa Polizia a svolgere tale ruolo.
Sebbene la correlazione tra detenzione femminile e pregressa vittimizzazione emerga in tutte le ricerche, anche internazionali, può tuttavia dirsi che definire il fenomeno a livello generale risulta particolarmente complicato in ragione della disponibilità di letteratura scientifica frammentaria.
In termini più ampi, dimostrare in modo più puntuale tale correlazione ha l’obiettivo di promuovere meccanismi di conoscenza e, quindi, di prevenzione in primis della violenza subita e, in secondo luogo, dei possibili sviluppi di comportamenti devianti, secondo un modello di intervento che si basi sulla lettura complessiva di un vissuto fatto di violenza, di dinamiche familiari, di fattori sociali, economici e culturali, oltre che di caratteristiche personali. Tale obiettivo è realizzabile solo attraverso politiche sociali che vadano oltre l’ambito della giustizia penale.
A fronte dell’esiguità dei numeri e delle specificità esposte, rispetto alla detenzione femminile appare ancora più impellente la domanda su quanto sia necessaria la carcerazione e se a questa effettivamente si ricorra rispettando il canone dell’extrema ratio dell’intervento penale. Per rispondere compiutamente a tale interrogativo sembra indispensabile un’indagine empirica a tutto campo sulla popolazione ristretta e sulle carriere devianti (M. Miravalle, 2018). La risposta detentiva sembrerebbe infatti inadeguata a rispondere da sola alle esigenze di una popolazione che, secondo quel nesso tra vittimizzazione e criminalità, necessiterebbe anche e soprattutto di luoghi di cura e assistenza, dove mettere in campo strumenti specifici capaci di guardare alle peculiari esigenze delle donne.
Breve bibliografia
C. Antoniucci, Le ‘Direttive vittime’ e la violenza in carcere. Le direttive comunitarie in materia di tutela dei diritti delle vittime di reato nel contesto della detenzione, consultabile su www.antigone.it;
M. Cruells – N. Igareda (edito da), MIP PROJECT- Women, Integration and Prison; An analysis of the sociolabour integration processes of women prisoners in Europe, Barcelona, 2005, consultabile su https://cordis.europa.eu/project/id/HPSE-CT-2002-00111/es;
M. Miravalle, Quale genere di detenzione? Le donne in carcere in Italia e in Europa, in G. Mantovani, Donne ristrette, Torino, 2018, pp. 29 ss.;
C. A. Romano, L. Ravagnani, N. Policek, Percorsi di vittimizzazione e detenzione femminile Victimization and female detention, in Rass. it. Crim., n. 2/2017, pp. 115 ss.;
C. Pecorella, Conoscere il passato per poter giudicare il presente: quando la violenza reiterata è all’origine dell’uccisione del partner, in C. Pecorella (a cura di), La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, Milano, 2022, pp. 235 ss;
C. Pecorella (a cura di), La criminalità femminile. Un’indagine empirica e interdisciplinare, Milano, 2020,.
C. Pecorella, Donne in carcere. Una ricerca empirica tra le donne detenute nella II Casa di Reclusione di Milano-Bollate, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora. Fra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, Milano 2018, pp. 663 ss.;
P. Saxena, N. Messina, Trajectories of victimization to violence among incarcerated women, in Health & Justice, volume 9, Article number: 18, 2021;