In carcere la strutturale omologazione tra i generi rende urgente tutelare le differenze
Donne in carcere: un problema nel problema
Nella società esterna al carcere, molte questioni legate alla parità di genere sono ancora al centro del dibattito pubblico e scientifico1). Le donne, almeno formalmente, hanno conquistato una serie di diritti pur trovandosi spesso in bilico tra obblighi che derivano dal mondo del lavoro e ‘doveri’ inerenti l’ambito domestico e della cura. Il dibattito scientifico è ricco di contributi che mettono al centro come, di fatto, le disparità di genere continuino a condizionare la vita delle donne: la metafora delle ‘funambole’ rappresenta il tentativo di dimostrare di essere in grado di bilanciare autonomia e indipendenza economica con il gravoso impegno nella sfera privata, segnatamente riguardo il ruolo materno2).
Se le difficoltà legate a una rigida divisione dei ruoli maschili e femminili nel mondo ‘fuori’ condizionano ancora profondamente le donne, paradossalmente in carcere, la strutturale omologazione tra i generi rende urgente tutelare le differenze, proprio per rispondere adeguatamente ad alcune specifiche esigenze della popolazione detenuta femminile.
Come si evince dal rapporto sulla detenzione femminile pubblicato dal Ministero della Giustizia3), nel 2008 la Commissione dei diritti della donna presso il Parlamento Europeo censurava il fatto che vi fossero nell’Unione Europea per la popolazione carceraria femminile, soltanto strutture attrezzate per accogliere una popolazione prettamente maschile4) (…). Nel rapporto emerge, inoltre, che la specificità femminile, sotto il profilo di bisogni differenti da quelli maschili, è stata a lungo ignorata da norme e principi internazionali.
La risoluzione del 13 marzo 2008 del Parlamento europeo invitava gli Stati membri a ‘tenere maggiormente presenti le specificità femminili, nonché creare condizioni di vita adatte alle esigenze dei figli che vivono con il genitore detenuto’, e l’attivazione di strutture adatte ai bambini di età inferiore a tre anni5), nonché la garanzia di strutture igieniche adeguate per le donne e l’inserimento nel sopravvitto di prodotti per l’estetica (quali cosmetici e bigiotteria).
Se fuori dal carcere il riconoscimento delle donne si gioca su istanze che mirano ad abbattere o allentare le differenze (uomo/donna), in carcere, invece, sembrerebbe che alcuni interventi basati sull’attenzione alle differenze di genere, mettano l’accento su peculiarità che nella società esterna amplificano differenze stereotipate e rigide divisioni dei ruoli. La riforma dell’ordinamento penitenziario offre spunti importanti sulla parità di genere, in particolare l’articolo 1, che rimarca il dettato costituzionale sui diritti fondamentali:
‘Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto e la dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine di sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione6).
Attualmente aderiscono alla Cnupp, Conferenza Nazionale Universitaria Poli Penitenziari, trentaquattro Atenei, con 1246 persone detenute impegnate nel compimento degli studi universitari. Tra queste 45 sono le donne
Il contributo si basa sulle differenze di genere presenti nell’esperienza dei Pup, Poli Universitari Penitenziari nati in Italia nel 2018 grazie alla stipula di protocolli d’intesa bilaterali tra Università e Prap, nonché sulla base delle esperienze dei progetti ventennali ‘Università in carcere’ presenti nelle Università di Padova e Torino. Attualmente aderiscono alla Cnupp, Conferenza Nazionale Universitaria Poli Penitenziari presso la Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, trentaquattro Atenei, con 1246 persone detenute impegnate nel compimento degli studi universitari, iscritte a 385 corsi di laurea e, tra queste, 1201 uomini e 45 donne7). La popolazione detenuta di sesso femminile, riconosciuta in carcere nelle funzioni prettamente materne, subisce in misura maggiore rispetto al genere maschile le conseguenze delle varie emergenze in cui versa il sistema penitenziario italiano. In un simile contesto appare particolarmente difficile mettere a tema ‘una questione femminile’ riguardo alcuni elementi del trattamento penitenziario e nello specifico, la promozione, per le donne, di interventi volti a favorire il compimento degli studi universitari intrapresi. Tanto più perché la probabilità di attivare corsi universitari per le detenute è già verosimilmente bassa, rappresentando una quota piccola della popolazione carceraria; pertanto, più faticosamente si realizzeranno le condizioni materiali e organizzative per attivare in molte sezioni femminili percorsi di istruzione universitaria (sistemazione in istituti favorenti la didattica, garanzia di spazi adeguati per lo studio, collocamento delle detenute in sezioni motivate dall’interesse ad attivare determinati percorsi offerti dagli Atenei, limitazione di trasferimenti).
Dato che la formazione ai più alti livelli, in carcere, per le donne sembra marginale rispetto alla complessità dei problemi che investono i contesti detentivi, caratterizzati da un malessere generalizzato e multidimensionale, mettere al centro ‘una questione femminile’ è utile anche per la prevenzione di una serie di problematiche che possono sfociare in patologie psichiatriche con evoluzioni non sempre prevedibili8). Se il tasso di suicidi in carcere è considerato generalmente ‘drammatico’ è importante riflettere sui numeri più recenti che rilevano, in base a dati aggiornati al mese di settembre 2022, che ‘con un numero di presenze medie pari a 54.920 detenuti e 65 decessi avvenuti in nove mesi, il tasso di suicidi è pari a circa 13 casi ogni 10.000 persone detenute. (…) Si tratta del valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero’ (…). Quasi il 50% dei casi di suicidio riguarda persone non italiane con un’incidenza significativamente maggiore tra questi detenuti, che sono circa il 30% del totale’9). Con particolare riferimento alla situazione delle detenute si osserva che i casi di suicidio finora sono stati cinque, con un tasso superiore a quello degli uomini, pari a quasi il 22%. Nel 2021 e nel 2020 ‘solo’ due donne si erano tolte la vita. Nessuna nel 2019’10). Sembrerebbe, dunque, trattarsi di un fenomeno in crescita, forse esasperato dalle ulteriori criticità causate dalla pandemia.
Sul finire dell’800, Émile Durkheim evidenziava come ogni atto individuale, anche un atto estremo come il suicidio, sia legato a condizionamenti sociali e squilibri nell’integrazione sociale che si ripercuotono violentemente sull’individuo11). Possiamo convenire con Durkheim nel ripensare al suicidio come ‘un fatto sociale’ che scaturisce da dinamiche relazionali e sociali altamente condizionanti.
Siamo convinte, infatti, che i percorsi di risocializzazione realizzati anche tramite i saperi universitari necessitino per le donne di motivazioni, risorse e rimozione di cause ostacolanti, proprio alla luce dell’importanza e ‘utilità dello studio e dei percorsi culturali in carcere considerati oggi, in Italia, come processi di emancipazione per le persone detenute nonché esperienze di consolidamento della loro identità, canali privilegiati e strumenti di facilitazione per un potenziale reinserimento post-carcerario’12).
L’analisi che verrà qui condotta è frutto di riflessioni ancora in corso e, pertanto, nessuna conclusione definitiva su questo punto è possibile, limitandoci a presentare alcuni elementi potenziali che emergono nell’orizzonte dell’esperienza dei Pup.
“Numeri bassi non possono significare bassa attenzione”
Detenzione femminile: qualche numero
I dati disponibili sulla detenzione femminile, confermano, da più di un decennio, una presenza delle donne in carcere decisamente inferiore rispetto a quella maschile, non solo in Italia ma anche in Europa.
Secondo i dati del World Prison Brief Online pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia, nel 2009 la percentuale media delle donne nelle carceri europee si attestava attorno al 5%. La Spagna e il Portogallo registravano la maggiore presenza di detenute (10% circa), mentre l’Albania, con l’1,6%, aveva il numero più basso di presenze13). Questi dati sono stati avvalorati anche negli anni più recenti dall’ultimo rapporto ‘SPACE’(Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe) che attesta al 4,7% la presenza femminile nelle carceri europee14). La percentuale media delle detenute negli istituti penitenziari d’Europa, dai dati riferiti agli anni 2020-2022 da Word Prison Brief, risulta essere pari a 5,4%, confermando che la quota di donne ristrette, rispetto all’intera popolazione carceraria, si è mantenuta al livello già rilevato nel 2009.
Guardando alla realtà italiana, gli istituti penitenziari femminili sono solamente quattro: Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia, Venezia-Giudecca; poi vi sono 52 sezioni femminili negli istituti maschili, per un totale di 2352 donne detenute su una popolazione totale di 56225 presente al 31 ottobre 202215).
Come messo in luce nel XIII Rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni della detenzione femminile ‘numeri bassi non possono significare bassa attenzione’16) e il discorso diverrebbe ancora più problematico includendo tutte le questioni legate alla presenza di transessuali in carcere17).
Il fatto che le donne rappresentino una quota residuale sul totale della popolazione detenuta costituisce un problema organizzativo per le amministrazioni penitenziarie per quanto concerne il raggruppamento delle donne che, spesso, subiscono l’allontanamento dai luoghi di residenza della famiglia ed eventualmente dai figli, accentuando così la specificità di alcuni problemi durante l’esecuzione della pena, con ricadute anche sui figli. Un allontanamento della madre, può causare infatti, soprattutto nei figli minorenni la nascita di un profondo senso di ansia, spesso aggravato dalla mancata conoscenza della verità o di una franca spiegazione riguardo l’allontanamento della madre, cosa che alimenta in questi bambini le peggiori fantasie, insicurezze e paure. Sapere che la madre ‘è in vacanza’, ‘all’ospedale’, ‘è partita per un lungo viaggio di lavoro’ senza aver dato loro un saluto e senza ricevere spiegazioni, produce nei bambini un sentimento di rifiuto e di abbandono che danneggia il senso di autostima che a sua volta può provocare, a lungo termine, turbamenti nello sviluppo della personalità.
La detenzione della madre può produrre situazioni di stress che portano a svariate risposte disadattive dei figli, dal disturbo fisico associato a disagio nello sviluppo, a manifestazioni di irrequietezza o aggressività sul piano comportamentale, disadattamento scolastico, senza escludere comportamenti antisociali, devianti e antigiuridici. Essere detenuta non significa necessariamente essere un cattivo genitore, una pessima madre; pertanto, i vissuti di inadeguatezza per le donne incarcerate potrebbero essere colmati con l’impegno in attività di studio dato che esistono innumerevoli testimonianze su come l’istruzione universitaria abbia fornito strumenti per sperimentare forme di ‘evasione’ e di libertà per molti detenuti, pur rimanendo in carcere, grazie a percorsi positivi descritti in numerose biografie di studenti detenuti universitari ristretti18) che testimoniano come la conoscenza, la cultura e l’istruzione abbiano, in tanti casi, aperto gli orizzonti su altri mondi possibili rispetto a quelli carcerari e criminali.
L’esperienza dei Pup rappresenta una realtà in aumento in molte Università italiane con nuove adesioni di Atenei e una crescita di studenti, approssimativamente giunti a 1400, da una provvisoria ricognizione di dati relativa all’A.A. 2022-2023.
Il primo corso di studi ufficiale nacque a Padova grazie alla collaborazione di alcuni docenti con l’istituto penitenziario19). Fu l’inizio di una serie di esperienze proficue che ha portato oggi a stipulare circa quaranta Protocolli di intesa fra Università e Prap o Istituti penitenziari, consentendo ai detenuti studenti, in alcuni casi, di disporre di celle singole, libri, strumenti didattici, computer oltre a spazi adibiti allo studio, biblioteche, locali comuni. I protocolli d’intesa hanno previsto forme di finanziamento o di contributi che, sia pure parzialmente, esonerano dal pagamento delle tasse universitarie, costituendo così un incentivo.
I numeri molto contenuti delle presenze femminili in carcere rendono evidentemente più complicata a livello organizzativo la gestione di percorsi di studio delle donne
I numeri molto contenuti delle presenze femminili in carcere rendono evidentemente più complicata a livello organizzativo la gestione di percorsi di studio delle donne, anche a causa della carenza di spazi da destinare a gruppi esigui di detenute precludendo però, a quante siano interessate, l’accesso non solo a percorsi di formazione universitaria, ma anche di sperare se non in altre vite almeno in altre vie possibili. Il diritto alla conoscenza, all’istruzione e alla cultura rappresenta un viatico fondamentale per aprire spazi di democrazia in carcere. Soprattutto perché l’università ‘dentro’, grazie a un minor grado di autoritarismo e paternalismo rispetto all’ambiente carcerario (quest’ultimo molto simile a quello accademico ‘fuori’), stabilisce interazioni sociali specifiche e trasformative con gli studenti condannati, grazie al modo in cui gli accademici interagiscono nell’ambito della didattica penitenziaria. Questi spazi rappresentano la base per sperimentare il metodo dell’auto-etnografia tipico della ‘Convict Criminology’20), che ha già consentito di sistematizzare e divulgare molta conoscenza sul carcere e sui detenuti. Si tratta di un approccio teorico che ha contribuito a sfidare l’immaginario e i luoghi comuni sulla prigione e a gettare le basi della moderna sociologia dell’istituzione penitenziaria’21), un approccio ancora poco diffuso nel contesto italiano se non per i contributi di Vianello, Kalica e Santorso22).
Convict Criminology: uno strumento metodologico della ricerca sociale che si basa sull’ascolto delle persone ristrette non a scopo ‘terapeutico’, bensì partendo dalla convinzione che la loro esperienza rappresenti un contributo alla conoscenza scientifica del funzionamento e delle criticità della vita carceraria
Convict Criminology: partire dall’ascolto
Per immaginare proposte di intervento dirette a facilitare la rimozione di qualcuno degli ostacoli che compromettono la parità di diritti tra detenute e detenuti, potremmo concentrarci sulle caratteristiche della Convict Criminology, uno strumento metodologico della ricerca sociale che si basa sull’ascolto delle persone ristrette non a scopo ‘terapeutico’, bensì partendo dalla convinzione che la loro esperienza rappresenti un contributo alla conoscenza scientifica del funzionamento e delle criticità della vita carceraria.
La Convict Criminology è uno strumento di ricerca etnografica in ambito carcerario nato negli Stati Uniti sul finire degli anni Sessanta. Si tratta di un approccio relativamente nuovo nell’ambito della criminologia e della giustizia criminale che punta al superamento di alcuni limiti che, tradizionalmente, riguardano la ricerca etnografica in carcere. Tra questi, vi è l’interpretazione che del crimine potrebbe dare il ricercatore esterno all’ambiente carcerario e che, per ovvi motivi, difficilmente viene ammesso a fare osservazione partecipante classicamente intesa, viste le note difficoltà a entrare nei penitenziari per condurre una ricerca. Altri limiti riguardano l’assenza della figura professionale del sociologo, che non è prevista dall’ordinamento penitenziario (a differenza di quelle di educatori, assistenti sociali e psicologi). Vi sono inoltre chiare resistenze verso i metodi della ricerca sociale, soprattutto di quella ‘qualitativa narrativa’ e infine i tagli alla ricerca in generale, che compromettono in maniera decisiva i finanziamenti in quei settori di studio marginali, quali quelli riguardanti la popolazione detenuta femminile23).
Storicamente, possiamo rintracciare le origini della Convict Criminology, da un punto di vista della produzione scientifica, a partire dai contributi di John Irwin24). Si tratta di volumi che contengono i risultati di osservazioni partecipanti di individui ristretti, basate su interviste in profondità. Obiettivo delle indagini è quello di ricostruire i percorsi di costruzione identitaria di alcune tipologie di criminali (ladri, tossicodipendenti) comparandole con i vissuti di altri individui, quelli ‘per bene’ senza alcuna carriera criminale, esplorati dal punto di vista del criminale stesso, un resoconto raramente preso in considerazione. Fin dalla sua prima pubblicazione, ‘The Felon’ è diventato rapidamente un classico della sociologia della devianza e della criminologia. In John Irwin possiamo così individuare uno dei padri fondatori della Convict Criminology, oltre a rivestire un ruolo emblematico in quanto autore, essendo egli stesso un ex detenuto25). La Convict Criminology costituisce anche un superamento di alcuni retaggi che provengono dalle analisi classiche sul crimine come patologia sociale26).
‘La criminologia dei condannati’ vuole superare non solo le letture classiche sul crimine ma anche la tendenza politica a sopire la paura proponendo politiche criminali giustizialiste che talvolta hanno come capro espiatorio alcune minoranze27). Non si tratta dunque unicamente di una metodologia di ricerca ma anche di una forma di attivismo che si pone l’obiettivo di far emergere aspetti sommersi e devianti che maturano proprio in carcere, nei luoghi dove ci si attende una trasformazione in positivo degli individui, in un luogo, però, dove persino l’aria che si respira è immobile, ‘ferma’ e, contestualmente, arricchire le conoscenze sul mondo dietro le sbarre. Si tratta di un approccio che guarda ‘dentro’ e ‘fuori’ avendo finalità sociali e politiche ben precise intorno a uno sguardo che punta all’abbattimento di alcune barriere culturali delle dinamiche ‘dentro/fuori’ che, talvolta sono opprimenti quanto, se non di più, delle barriere fisiche.
L’obiettivo della Convict Criminology è quello di portare alla luce l’esperienza di detenuti e operatori penitenziari per ripensare gli immaginari convenzionali che emergono dai media, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica. In tal senso riteniamo si tratti di un approccio ‘compensativo’, atto a produrre e diffondere nuove conoscenze per riequilibrare le opinioni sul carcere e su chi lo vive, spesso fondate su immaginari di paura, distanza e insicurezza. Non si tratta di un senso di rivalsa o di un bisogno di riconoscimento, ma dell’espressione di una consapevolezza: un unico ordine di pensieri, spesso puramente ideologico e incontrastato, mina le basi della democrazia postulando interventi politici fondati sulla disinformazione e su letture falsate di una realtà così complessa come il carcere e la pena. Un approccio metodologico di ricerca, dunque, ma anche una proposta per un nuovo attivismo politico con la duplice funzione di aiutare i singoli e la collettività dal momento che l’immagine proiettata da quest’ultima pesa notevolmente sui percorsi di risocializzazione e reintegrazione sociale delle persone detenute, complicando ulteriormente la già difficile vita dei ristretti. Se anche si volesse considerare il crimine una patologia sociale, si potrebbe comunque accogliere la Convict Criminology come una proposta ‘trasformativa’ dei contesti e delle persone, considerando che supportare interventi più efficaci per il cambiamento autentico dei detenuti potrebbe favorire un nuovo patto circa la norma sociale, ricucendo quelle identità al tessuto sociale e favorendone al contempo la disaffezione ad aderire a scelte criminali. Approcci innovativi come la Convict Criminology, seppur non esenti da limiti e criticità, accrescono la conoscenza sulla scomoda realtà carceraria in un’ottica di ricerca-azione che mira a migliorare la vita delle persone detenute a partire dai loro bisogni espressi.
Se è vero che chi si trova a scontare una pena sta probabilmente pagando con la privazione della libertà a causa di reati commessi in danno di vittime dirette e della collettività, è anche vero che la società deve farsi carico di quelle vite dietro le sbarre per gli stessi principi di giustizia che animano la società civile. La ricerca sociale in carcere non ha dunque una funzione eminentemente scientifica, essa è volta soprattutto a supportare le istituzioni nelle scelte da adottare. Dai dati disponibili si evidenzia che le Università coinvolte nel processo di formazione universitaria per studenti e studentesse private della libertà sono impegnate attualmente in attività di prima, seconda e terza missione28).
In particolare, attraverso le attività di ‘Terza Missione’29) le Università italiane hanno avviato, in vari settori, numerose esperienze per avvicinare il mondo accademico, percepito spesso come distante ed autoreferenziale, ai territori. La Terza Missione riguarda dunque anche i Poli Universitari Penitenziari impegnati in iniziative di apertura alla società civile dell’istituzione carceraria e segnatamente di disponibilità delle istituzioni accademiche nei confronti della popolazione detenuta non iscritta a percorsi di studio.
I Pup possono implementare una serie di attività volte ad accrescere nelle detenute un livello di conoscenza finalizzato a perseguire con convinzione nuove mete e scopi
Non solo incentivare lo studio universitario tra le detenute è un investimento volto a offrire loro pari opportunità: per promuoverne l’autostima e la fiducia, scongiurando la deriva della rassegnazione, dei sensi di colpa e sovente della sofferenza fisica e mentale, i Pup possono implementare una serie di attività volte ad accrescere nelle detenute un livello di conoscenza finalizzato a perseguire con convinzione nuove mete e scopi. Occorre dunque puntare a una ‘criminologia realista’ volta soprattutto a migliorare le condizioni delle detenute partendo dai loro problemi, piuttosto che dalle determinazioni trattamentali, disciplinari e legislative. Se, come afferma Irwin, il carcere può essere talvolta necessario, altrettanto necessario è umanizzarlo favorendo il migliore reintegro delle detenute nella società’30).
E ritorna qui utile ancora Durkheim con la sua visione ‘organicista’, tesa a guardare la società come un organismo dove ogni parte concorre al funzionamento di quel tutto di cui anche le carceri sono parte: se queste non funzionano bene, si inceppa l’organismo.
Il numero di studenti e studentesse privati della libertà personale iscritti ai corsi di studio universitari è aumentato nel corso del tempo. Per quanto riguarda la composizione per genere, si registra negli ultimi quattro anni accademici un incremento positivo del numero di studentesse
Detenzione femminile: percorsi di studio e di ricerca nell’ambito dei Poli universitari aderenti alla Cnupp. Quali prospettive?
Dai dati disponibili si evidenzia che le Università coinvolte nel processo di formazione universitaria per studenti e studentesse privati della libertà sono aumentate dall’A.A. 2020-21 all’A.A. 2021-22 di tre unità attestandosi a 34 Atenei31). Pertanto, poiché il numero di Università Statali è di 64, l’indice di adesione ai corsi universitari all’interno delle carceri risulta essere pari al 53% dell’intero sistema.
Inoltre, dai dati si evidenzia che il numero di studenti e studentesse privati della libertà personale, iscritti ai corsi di studio universitari, è aumentato nel corso del tempo. Infatti, un indicatore della dinamica di incremento annuale è dato dalla media geometrica dei numeri indici a base mobile di seguito riportati in parentesi: dal 2018-19 al 2019-20 (1.16) si ha un incremento del 16%; dal 2019-20 al 2020-21 (1.12) si ha un incremento del 12% e dal 2020-21 al 2021-22 (1.21), si ha un incremento del 21%. Pertanto, il tasso medio di incremento nel periodo calcolato risulta essere del 16,1%.
Anche per quanto riguarda la composizione per genere, si registra negli ultimi quattro anni accademici un incremento positivo del numero di studentesse e studenti iscritti ai corsi di laurea. Utilizzando un approccio prudente il metodo precedente, possiamo valutare il tasso medio di incremento nel periodo considerato: per le donne risulta essere del 17,13%, mentre per gli uomini il tasso medio di incremento risulta pari al 16%. Anche se di poco, la dinamica media di iscrizione delle donne rispetto agli uomini risulta essere maggiore dell’1,13%.
Quindi, dai dati rilevati dalla Cnupp a partire dalla sua nascita (aprile 2018), si può evidenziare che, per come indicato nelle elaborazioni prima esposte, si è avuto un incremento medio nel corso del tempo del numero di detenuti e detenute che si iscrivono ai corsi di studio universitari. Inoltre, gli indicatori precedenti mostrano che il tasso medio di incremento delle iscrizioni ai corsi universitari risulta, anche se di poco, maggiore per le donne. Ancora, si può ipotizzare che il dato di maggiore tendenza media tra le donne detenute a iscriversi rispetto ai detenuti è certamente minore del dato che avremmo potuto aspettarci se in tutti gli istituti di detenzione le donne avessero avuto le stesse opportunità degli uomini, con specifico riferimento all’attivazione di spazi e servizi adeguati per lo svolgimento dello studio universitario in carcere. Infatti, gli investimenti da parte dell’amministrazione penitenziaria e accademica sono certamente favoriti e giustificati da una presenza consistente e importante di universitari o universitarie tra la popolazione di ogni singolo Istituto.
Possiamo dunque ipotizzare che, se tali limitazioni venissero meno, ci potremmo aspettare, da un punto di vista statistico, un maggiore numero di donne potenzialmente interessate a intraprendere percorsi universitari e, di conseguenza, il dato prima indicato relativo al tasso medio di incremento, potrebbe verosimilmente essere maggiore di quanto oggi sia possibile osservare. Inoltre, nonostante le donne siano in generale condannate a pene detentive di durata inferiore rispetto a quelle inflitte agli uomini e quindi potenzialmente meno propense a intraprendere progetti a lungo termine, quale può essere lo studio di tipo universitario, si osserva dai dati del monitoraggio una tendenza relativa, rispetto allo studio, maggiore che negli uomini. Tuttavia, il dato di propensione delle donne a iscriversi nel corso del tempo risulterà meno stabile e molto più variabile in quanto molte di esse, una volta espiata la pena, non continueranno il percorso universitario intrapreso. A supporto di tale affermazione, si può osservare che, dai dati disponibili su Rebibbia femminile, che confluiranno nel prossimo monitoraggio 2022-2023, delle 12 donne iscritte nel carcere romano, soltanto 5 continueranno gli studi universitari in quanto le altre hanno già rinunciato per intervenuta fine pena o esecuzione penale esterna. Quindi anche questo dato avvalora la tesi secondo cui tendenzialmente si iscrivono con maggiore propensione ai corsi di studio universitari i detenuti che devono scontare una pena molto lunga. Infine, dai dati del monitoraggio 2021-2022, si può affermare che il 40 % delle detenute iscritte a corsi universitari è ristretto presso due carceri femminili (12 detenute a Rebibbia e 6 a Pozzuoli). Tutte le altre, pari a 27,32) non essendo detenute presso gli altri due carceri femminili (Venezia-Giudecca e Trani), sono attualmente ospiti presso 52 sezioni femminili. Quindi, mediamente nelle carceri esclusivamente femminili, che ricordiamo sono solamente quattro, sono iscritte 4.5 detenute, e in quelle non esclusivamente femminili sono iscritte 0.54 detenute33). L’osservazione sul dato precedente avvalora l’ipotesi che la tendenza a iscriversi con maggiore propensione si osserva per le donne ristrette in istituti esclusivamente femminili, nei quali funziona probabilmente l’effetto traino tra chi già studia all’Università e chi potenzialmente, in possesso di un diploma, potrebbe accedervi. Altresì si può ipotizzare che la maggiore tendenza a conseguire una laurea da parte delle donne ristrette presso istituti esclusivamente femminili possa essere influenzata anche dal titolo detentivo di lunga durata che di norma viene espiato presso tali istituti.
Se è vero che ‘a nessuno può essere impedito il diritto allo studio’ (art. 2, Prot. CEDU) anche in considerazione del fatto che lo ‘studio’ è un elemento del trattamento (art. 15 OP), e pertanto rientra tra gli scopi da perseguire dall’Amministrazione penitenziaria, sono ancora numerose le detenute cui occorra favorire la partecipazione finanche alle scuole dell’obbligo. Un approccio che consideri le detenute come ‘bisognose’ di offerte adeguate nel rispetto delle ‘differenze’ migliorerebbe la questione denunciata, altrimenti si continuerebbe a perseguire obiettivi incardinati su disparità trattamentali strette tra tutele ‘paternalistiche’ del carcere, e tutele ‘compassionevoli’ delle Università. I referenti dei Poli universitari penitenziari sono impegnati a far sì che non si consideri lo studio come una libertà condizionata da situazioni strutturali e tantomeno garantita come premio, subordinata a logiche comportamentali o di struttura penitenziaria adeguata a rispondere a tale bisogno, data la nota situazione critica nelle carceri italiane e il livello di democrazia in tali istituzioni. La diffusa cultura penitenziaria interpreta spesso l’accesso all’istruzione formale come una sorta di ricompensa; tuttavia, il possesso o meno di titoli riconosciuti di istruzione superiore che una detenuta ha avuto la fortuna o la possibilità di conseguire o intraprendere in carcere, è condizionata anche dalla tipologia dell’offerta di corsi d’istruzione superiore nell’istituto in cui è detenuta, tarati solamente sulla domanda di istruzione maschile e spesso anche sul numero minimo di studenti per poter formare le classi. Nel rapporto tra scuola e istituti di detenzione nel nostro Paese, occorre prestare particolare attenzione proprio in vista dei particolari problemi in capo all’organizzazione del sistema penitenziario italiano, limiti e criticità che ostacolano una positiva attuazione del ‘diritto allo studio’ per tutti e per tutte, così come sancito dall’art. 33 della Costituzione italiana.
Attraverso l’apporto della Convict Criminology34), abbastanza recente nelle scienze sociali italiane, sono stati esaminati i fattori strutturali e culturali che facilitano oppure impediscono l’istruzione in carcere e, in particolare, i percorsi scolastici delle detenute nonché le ricerche rivolte alla popolazione femminile delle carceri.
Nel mese di aprile 2021, gli Atenei aderenti alla Cnupp hanno compilato on line un questionario finalizzato all’analisi delle attività di ricerca realizzate in carcere o sul carcere. Su un totale di 58 progetti realizzati nell’ultimo triennio, si evidenzia che 54 ricerche sono state condotte singolarmente dalle Università, mentre 4 in collaborazione con altri Atenei. Tra queste, solo tre sono orientate alla conoscenza della condizione delle detenute con particolare riferimento alle seguenti aree tematiche: salute mentale, maternità, figli minori ed esecuzione penale, detenzione di donne recluse per reati sessuali.
Il tema della salute mentale è stato trattato attraverso metodologie di ricerca etnografica (osservazione, interviste, analisi di diari), dal Dipartimento di Filosofa, Sociologia, Pedagogia e Psicologia (FISPPA) dell’Università di Padova, con l’obiettivo di rilevare e analizzare le criticità relative alla salute psichica delle detenute. Sempre lo stesso Dipartimento dell’Università di Padova ha svolto le attività di ricerca sullo stato di detenzione ed esecuzione della pena di detenute con figli minori avvalendosi di strumenti metodologici quali l’osservazione, la raccolta di interviste rivolte a donne ristrette e operatori dell’UEPE, nonché lo studio di fascicoli. La terza ricerca, relativa alle detenute condannate per reati sessuali, è stata condotta dal Dipartimento di Scienza della Formazione, Psicologia e Comunicazione dell’Università degli studi di Bari attraverso una ricerca casistica su donne detenute per reati a sfondo sessuale in Italia e finalizzata alla definizione di un profilo criminologico delle donne ‘sex offenders’.
Il fatto che le detenute siano una minoranza costituisce un limite oggettivo non solo per i percorsi di istruzione ma anche per la realizzazione di ricerche sulla detenzione femminile35), basti pensare ai condizionamenti che indagini di tipo etnografico potrebbero subire, soprattutto quelle orientate a conoscere specifici bisogni36).
Se è vero che la metodologia della ricerca sociale ci insegna che le ricerche etnografiche non fondano la loro validità scientifica sulla rappresentatività statistica ma sui singoli casi, indagando su grandi numeri di popolazione è certamente possibile proteggere l’anonimato delle persone lasciando così piena libertà di raccontarsi; nel caso delle detenute ci sarebbero difficoltà oggettive a renderle non identificabili, condizionando così la narrazione di sé e degli eventi (un problema importante riguarda soprattutto indagini sulle condizioni di vita e i disagi vissuti in carcere). Le tortuose procedure per ottenere una valutazione delle richieste di autorizzazione a condurre una ricerca su piccoli campioni non sono compatibili con la produzione scientifica che ha tempi solitamente stretti rispetto ai tempi necessari per ottenere le autorizzazioni, ostacolando così lo sviluppo di conoscenza che non viene messa tempestivamente a favore della qualità e del miglioramento dei servizi offerti alle detenute non riuscendo a dare un contributo al miglioramento delle condizioni detentive delle donne su vari aspetti.
La Convict Criminology nasce negli Stati Uniti con l’obiettivo di inserire nella ricerca scientifica le voci di persone con esperienza diretta di detenzione. Concepita inizialmente come una sfida intellettuale ed epistemologica agli studi tradizionali sul carcere e la pena37), la Convict Criminology ha acquisito un certo grado di visibilità grazie al suo approccio originale ma anche alla capacità dei suoi sostenitori di sviluppare un discorso alternativo sulla pena nell’ambito della criminologia tradizionale.
Sappiamo da numerose ricerche e testimonianze dirette di detenuti che l’amministrazione penitenziaria soddisfa in via ordinaria un dovere minimale di istruzione richiesto per legge, garantendo lo studio a livello di scuola primaria e secondaria di primo grado finalizzato al conseguimento delle licenze elementare e media o di attestazione linguistica. La richiesta di iscrizione all’università potrebbe essere ritenuta, a monte, marginale per le donne; ciò andrebbe a detrimento delle aspettative di formazione ai livelli più alti e a detrimento dei diritti soggettivi delle detenute: come se tali diritti fossero già a monte sviliti o addirittura scartati in quanto intesi come percorsi privilegiati in relazione ai problemi strutturali delle amministrazioni penitenziarie e di quelle accademiche in carcere. Tali problemi riguardano l’esiguità delle risorse messe a disposizione sia per il carcere che per l’università, sia inoltre, per la sorveglianza, per le attività di controllo nonché per l’assistenza da parte dell’Area educativa (chiamata a collaborare con la segreteria del Pup), tanto più se si tratta di un investimento rivolto a un esiguo numero di destinatarie. Eppure, attraverso attività didattiche, di ricerca, socio-educative e culturali nelle carceri, i Pup hanno favorito una crescente consapevolezza dei diritti/doveri costituzionali e generato energie che hanno contribuito a costruire luoghi di condivisione e ascolto tra carceri e società in un’ottica di inclusione per tutti e per tutte.
Bibliografia
Arrigo B., ‘Convict Criminology and the mentally ill offender: Prisoners of confinement’ in Ross J., Richards S. (a cura di), Convict Criminology, Wadsworth, Belmont, 2003.
Cabras C., Saladino V., Mosca O., I progetti di ricerca ‘in’ e ‘sul’ carcere nelle università aderenti alla CNUPP, UniCAPress, Cagliari, 2022.
Carannante F., Gagliardi M. L., Sulla linea. La mia vita dietro le sbarre, Ferrari editore, Rossano, 2017.
Conte C., Cento giorni. Cercando un dialogo con il mondo, (a cura di F. De Carolis), Libri Liberi, Firenze, 2019.
Cerrato J., Cifre E., ‘Gender inequality in household Chores and Work-family conflict’, in ‘Front Psycol.’ n. 9/2018. CERRATO J. and CIFRE E. (2018) Gender Inequality in Household Chores and Work-Family Conflict, Front. Psychol. 9:1330.
Ciuffoletti S., Franchi S., ‘Donne e Carcere’, in Corleone F. (a cura di), Carcere e giustizia. Ripartire dalla Costituzione, Fondazione Michelucci Press, Fiesole, 2019.
Cooperativa sociale ‘Verso casa’, Donne e carcere, FrancoAngeli, Milano, 2006.
Corleone F. (a cura di), Carcere e giustizia. Ripartire dalla Costituzione, Fondazione Michelucci Press, Fiesole, 2019.
Curatolo S., Ergastolo ostativo. Percorsi e strategie di sopravvivenza, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2022.
D. Lgs. del 2/10/2018, n. 123, art. 1.
D’Amico M., Una parità ambigua. Costituzione e diritti delle donne, Cortina Raffaello, Milano, 2020.
DEGENHART Degenhart T. e Vianello F., ‘Convinct criminology: provocazioni da oltreoceano. La ricerca etnografica in carcere’, pp. 9-23 in Studi sulla questione criminale, vol. V n.1, 2010.
Durkheim É., Le suicide. Étude de Sociologie, Felix Alcan, Paris, 1897.
Fabini G., Donne e carcere: quale genere di detenzione? In Torna il carcere, XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, Associazione Antigone, Roma, 2017.
Irwin J. K., The felon, Prentice-Hall, New York, 1970; Irwin, J. K., Prisons in turmoil, Little Brown, Boston, 1980.
Kalika E., Santorso S., Farsi la galera. Spazi e culture del Penitenziario, Ombre corte, Verona, 2018.
Marcelo F. A., Cocco E., Molnar L., Thiago M.M., Prison Population, in ‘Rapporto SPACE I-2021’, Council of Europe, 2021.
Mc Cleary R., Dangerous men: The sociology of parole, Harrow and Heston, New York, 1978.
Mencarini L. e Tanturri M.L., ‘Time use, family role-set and childbearing among Italian working women’ in Genus, vol. LX, n.1, pp. 111-137, 2004.
Monitoraggio CNUPP, Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari, A.A. 2021/22.
Newbold, G. The big Huey, Collins, Auckland, 1982.
Pacini Volpe P., Il valore della cultura in carcere. L’esperienza francese del Polo universitario di Paris Diderot in The Lab’s Quarterly, XXI, 3, (luglio-settembre) Journal of Social Science, 2019.
Richards J. I. E., Behind bars: Surviving prison. Alpha/Penguin Group, New York, 2002.
Ross J., Richards S., ‘Introduction: What is the new school of Convict Criminology’ in Ross J., Richards S., Newbold G., Lenza M., Grigsby R. (a cura di), Convict Criminology, Wadsworth, Belmont, 2003.
Ross J., Richards S., Newbold G., Lenza M., Grigsby R., ‘Convict Criminology’, in Critical Criminology, n. 12, luglio 2011.
Saraceno C., Naldini M., Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2020.
Signorelli A. (a cura di), Lavoro e politiche di genere. Strategie e strumenti per una nuova divisione del lavoro sociale, FrancoAngeli, Milano, 2007.
www.giustizia.it, ‘Istruzione universitaria nelle strutture penitenziarie – Tema per Stati Generali dell’Esecuzione Penale’ – Tavolo 9 (luglio 2015), Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Ufficio Studi, Ricerche, Legislazione e Rapporti Internazionali.
Vianello F., ‘Developing Convict Criminology: Notes from Italy’ in Rossi J. I., Vianello F. (a cura di), Convict Criminology for the Future, Routledge, Londra, 2020.
www.giustizia.it, ‘La detenzione femminile’ – Supplemento ai nn.1/2 in Pena & Territorio, 2009.
www.it.euronews.com, ‘Valanga di suicidi nelle carceri’, 2 novembre 2022
References
↑1 | D’Amico M., Una parità ambigua. Costituzione e diritti delle donne, Cortina Raffaello, Milano, 2020; Cerrato J. and Cifre E., ‘Gender Inequality’ in Household Chores and Work-Family Conflict, Front. Psychol. 9:1330, 2018.; Signorelli A. (a cura di), Lavoro e politiche di genere. Strategie e strumenti per una nuova divisione del lavoro sociale, FrancoAngeli, Milano, 2007. |
---|---|
↑2 | Mencarini L. e Tanturri M.L., ‘Time use, family role-set and childbearing among Italian working women’ in Genus, vol. LX, n.1, pp. 111-137, 2004; Saraceno C., Naldini M., Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2020. |
↑3 | www.giustizia.it, ‘La detenzione femminile’ – Supplemento ai nn.1/2 in Pena & Territorio, 2009. |
↑4, ↑10, ↑27 | Ibidem. |
↑5 | Mencarini L. e Tanturri M.L., op. cit.; Saraceno C., Naldini M., op. cit. |
↑6 | D. Lgs. del 2/10/2018, n. 123, art. 1. |
↑7 | Monitoraggio Cnupp, Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari, A.A. 2021/22. |
↑8 | https://it.euronews.com, ‘Valanga di suicidi nelle carceri’, 2 novembre 2022; Ciuffoletti S., Franchi S., ‘Donne e Carcere’, in Corleone F. (a cura di), Carcere e giustizia. Ripartire dalla Costituzione, Fondazione Michelucci Press, Fiesole, 2019. |
↑9 | https://it.euronews.com, ‘Valanga di suicidi nelle carceri’, 2 novembre 2022. Cfr. https://www.antigone.it/news/antigone-news/3447-74-persone-si-sono-uccise-nel-2022-mai-cosi-tante-da-quando-si-registra-questo-dato |
↑11 | Durkheim É., Le suicide. Étude de Sociologie, Felix Alcan, Paris, 1897. |
↑12 | Pacini Volpe P., ‘Il valore della cultura in carcere. L’esperienza francese del Polo universitario di Paris Diderot’ in The Lab’s Quarterly, XXI, 3, (luglio-settembre) Journal of Social Science 2019, p. 55. |
↑13 | ‘La detenzione femminile’, Supplemento ai nn.1/2 di Pena & Territorio, op. cit. |
↑14 | Marcelo F. A., Cocco E., Molnar L., Thiago M.M., ‘Prison Population’, in Rapporto SPACE I-2021, Council of Europe, 2021; https://www.prisonstudies.org/map/europe. |
↑15 | La fonte di questi dati è il Ministero della Giustizia. |
↑16 | Fabini, G., Donne e carcere: quale genere di detenzione? In Torna il carcere, XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, Associazione Antigone, Roma, 2017. |
↑17 | Ciuffoletti S., Franchi S., ‘Donne e Carcere’, in Corleone F. (a cura di), Carcere e giustizia. Ripartire dalla Costituzione, Fondazione Michelucci Press, Fiesole, 2019. |
↑18 | Carannante F., Gagliardi M. L., Sulla linea. La mia vita dietro le sbarre, Ferrari editore, Rossano, 2017; Conte C., Cento giorni. Cercando un dialogo con il mondo, (a cura di F. De Carolis), Libri Liberi, Firenze, 2019; Curatolo S., Ergastolo ostativo. Percorsi e strategie di sopravvivenza, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2022. |
↑19 | www.giustizia.it, ‘Istruzione universitaria nelle strutture penitenziarie – Tema per Stati Generali dell’Esecuzione Penale’ – Tavolo 9 (luglio 2015), Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Ufficio Studi, Ricerche, Legislazione e Rapporti Internazionali. |
↑20 | McCleary R., Dangerous men: The sociology of parole, Harrow and Heston, New York, 1978; Newbold, G. The big Huey, Collins, Auckland, 1982; Richards J. I. E., Behind bars: Surviving prison, Alpha/Penguin Group, New York, 2002. |
↑21 | Ibidem. |
↑22 | Vianello F., ‘Developing Convict Criminology: Notes from Italy’ in Ross J. I., Vianello F. (a cura di), Convict Criminology for the Future, Routledge, Londra, 2020; Degenhart T. e Vianello F., ‘Convinct criminology: provocazioni da oltreoceano. La ricerca etnografica in carcere’, pp. 9-23 in Studi sulla questione criminale, vol. V n.1, 2010; Kalika E., Santorso S., Farsi la galera. Spazi e culture del Penitenziario, Ombre corte, Verona, 2018. |
↑23 | Degenhart T. e Vianello F., op. cit., p. 311. |
↑24 | Cfr. Irwin J. K., The felon, Prentice-Hall, New York, 1970; Irwin J. K., Prisons in turmoil, Little Brown, Boston, 1980. |
↑25 | Ross J., Richards S., Newbold G., Lenza M., Grigsb R., ‘Convict Criminology’, in Critical Criminology, n. 12, luglio 2011. |
↑26 | Ibidem. |
↑28 | La prima e la seconda missione dell’Università riguardano rispettivamente, la didattica e la ricerca. Anche il DAP ha, tra le sue finalità istituzionali, oltre alla diffusione dell’istruzione e della formazione quali ‘diritti permanenti e irrinunciabili’ delle persone private della libertà, anche attraverso la costituzione di Poli Universitari Penitenziari, la promozione di iniziative e attività di ricerca che utilmente possono coinvolgere le Università. |
↑29 | La Terza missione, l’Anvur la definisce come l’insieme di attività organizzate istituzionalmente dall’Ateneo o dalle sue strutture, senza scopo di lucro, con valore educativo, culturale e di sviluppo della società, rivolte a un pubblico non accademico. |
↑30 | Degenhart T. e Vianello F., op. cit., p. 1017. |
↑31 | Monitoraggio CNUPP, Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari, A.A. 2021/22. |
↑32 | Relazione Presidente Cnupp Franco Prina su primi dati del Monitoraggio Cnupp 2022-2023, Assemblea nazionale, Napoli, 1-3 dicembre 2022. |
↑33 | Gli istituti esclusivamente femminili sono 4, le sezioni femminili sono 52; rispettivamente, nella prima tipologia sono iscritte ai corsi universitari 18 detenute, nelle sezioni femminili sono iscritte 27 detenute. |
↑34 | Degenhart T. e Vianello F., op. cit., p. 1018. Si veda inoltre Arrigo B., ‘Convict Criminology and the mentally ill offender: Prisoners of confinement’ in Ross J., Richards S. (a cura di), Convict Criminology, Wadsworth, Belmont, 2003. |
↑35 | I dati in merito non sono tuttavia rilevanti viste anche le difficoltà di condurre studi e ricerche negli istituti penitenziari. A tal proposito si veda Cabras C., Saladino V., Mosca O., I progetti di ricerca ‘in’ e ‘sul’ carcere nelle Università aderenti alla CNUPP, UniCAPress, Cagliari, 2022. |
↑36 | Si veda Cooperativa sociale ‘Verso casa’, Donne e carcere, FrancoAngeli, Milano, 2006. |
↑37 | Ross J., Richards S., ‘Introduction: What is the new school of Convict Criminology’ in Ross J., Richards S., Newbold G., Lenza M., Grigsby R. (a cura di), Convict Criminology, Wadsworth, Belmont, 2003. |