Esiste una specificità della detenzione femminile? Quali sono le differenze fra le necessità di uomini e donne detenuti? In occasione del primo rapporto sulla detenzione femminile abbiamo fatto qualche domanda alla professoressa Tamar Pitch1), esperta di detenzione femminile.
Professoressa Pitch, può raccontarci quali sono le problematiche principali della detenzione femminile? Quali sono i bisogni specifici delle donne a cui l’istituzione deve rispondere?
Partirei intanto dalla problematica principale rappresentata dalla questione delle strutture detentive. Accanto a quattro istituti femminili, vi sono 45 sezioni femminili nelle carceri maschili. Queste sezioni, spesso di poche persone, usufruiscono delle (poche) risorse disponibili ancora meno dei detenuti. Il carcere è stato pensato e costruito a misura maschile, se così si può dire, anche perché le detenute sono solo poco più del 4% della popolazione detenuta complessiva.
Finora, la (scarsa) attenzione delle istituzioni nei confronti della detenzione femminile si è diretta quasi unicamente sulla maternità in carcere, trascurando o ignorando le esigenze delle detenute in tema di salute fisica e psichica, diverse da quelle maschili
Finora, la (scarsa) attenzione delle istituzioni nei confronti della detenzione femminile si è diretta quasi unicamente sulla maternità in carcere, trascurando o ignorando le esigenze delle detenute in tema di salute fisica e psichica, diverse da quelle maschili. In tutte le ricerche disponibili, ad esempio, risulta evidente la maggiore richiesta, rispetto ai maschi, di igiene e cura della persona, nonché quel di più di attenzione necessaria alla fisiologia femminile. C’è da dire che, paradossalmente, è talvolta nelle carceri femminili che le detenute accedono per la prima volta alla possibilità di esami per la prevenzione di patologie al seno e agli organi riproduttivi. La mancanza di rapporti con eventuali figli/e e familiari sembra comportare, per le detenute, maggiore sofferenza rispetto ai detenuti. Spesso, le donne con figli/e sono state la principale risorsa per i figli stessi, e alla mancanza di rapporti si aggiunge l’ansia per il loro futuro e la paura di perdere la potestà genitoriale. La scarsa attenzione verso le detenute è testimoniata anche dall’inesistenza di un ufficio apposito presso il DAP: c’è bensì l’ufficio dedicato alla detenzione minorile, ma manca appunto quello dedicato alle detenute, nonostante la popolazione femminile detenuta sia molto maggiore di quella minorile.
Lei è stata protagonista di una pionieristica ricerca sulla detenzione femminile in Italia pubblicata nel 1992, quando ancora nessuno si era posto il problema della specificità della detenzione delle donne. Perché ha sentito il bisogno di intraprendere quegli studi e cosa è emerso da quel lavoro?
La ricerca del 1992 ci era stata commissionata dal Gruppo interparlamentare delle donne elette nelle liste del PCI e facilitata dal fatto che all’epoca il direttore generale per gli Istituti di prevenzione e pena era il molto compianto Nicolò Amato. A rileggerla adesso lo sconforto è grande, perché quello che dicevamo allora non è molto diverso da ciò che è emerso, per esempio, durante gli Stati generali dell’esecuzione penale, dai rapporti di Antigone, dalle ricerche di Grazia Zuffa e Susanna Ronconi.
A parte l’innovazione degli ICAM, il quadro d’insieme non pare molto cambiato (..). Già allora, scrivevamo che una seria decarcerizzazione avrebbe ben potuto cominciare dalle donne detenute
A parte l’innovazione degli ICAM, il quadro d’insieme non pare infatti molto cambiato. Si trattava di donne, già allora molte delle quali straniere, molte tossicodipendenti, con un basso livello di istruzione, disoccupate e con lavori saltuari, le quali denunciavano sofferenza per il venir meno dei legami affettivi, in particolare familiari e figli/e, ma anche per la sensazione di non essere rispettate dal personale penitenziario (l’infantilizzazione cui erano e sono sottoposte le detenute sia da parte degli e delle agenti di polizia penitenziaria sia da educatori, psicologi e simili). La povertà di risorse educative e ricreative, la mancanza di lavoro, le strutture fatiscenti c’erano allora e ci sono oggi. Recluse perlopiù per reati contro il patrimonio e violazioni della legge sulle sostanze illegali. Già allora, scrivevamo che una seria decarcerizzazione avrebbe ben potuto cominciare dalle donne detenute, poche, difficilmente classificabili come ‘pericolose’, condannate in genere a pene che non superavano i tre anni.
Cosa è stato discusso e proposto al Tavolo sulla detenzione femminile durante gli Stati generali dell’esecuzione penale? Alcune di quelle proposte hanno trovato attuazione?
- Nel Tavolo 3 degli Stati generali abbiamo discusso di tutti questi temi, oltre che di salute fisica e psichica e di affettività. Abbiamo proposto, tra l’altro:
- la costituzione presso il DAP di un ufficio detenute di pari grado e rilievo dell’ufficio detenuti;
- la previsione normativa della partecipazione delle detenute recluse in sezioni di carceri maschili alle attività educative, ricreative, sportive ecc. disponibili per i maschi;
- esplicita disposizione normativa di diritto di accompagnamento dei figli e delle figlie non solo in casi medici urgenti ma anche nelle visite mediche di routine;
- medicina di genere e convenzioni con consultori e case antiviolenza. Educazione sessuale e sanitaria specifica (come disposta dalle Regole ONU di Bangkok sulle donne detenute) e screening periodici di malattie ginecologiche;
- istituzione di commissioni di detenute per la cogestione delle attività educative, ricreative, ecc.;
- incremento di corsi professionali qualificanti e non solo stereotipicamente ‘femminili’;
- formazione professionale specifica del personale di vigilanza.
Abbiamo insistito sulla necessità e possibilità di una consistente decarcerizzazione, in primo luogo attraverso la depenalizzazione, poi con l’ampliamento della previsione di misure alternative
Abbiamo inoltre insistito sulla necessità e possibilità di una consistente decarcerizzazione, in primo luogo attraverso la depenalizzazione (per esempio, rispetto ai reati correlati all’uso e commercio di sostanze illegali), poi con l’ampliamento della previsione di misure alternative. Misure alternative, tuttavia, che come dimostra un recente saggio di Claudia Mantovan2) non solo vengono date più difficilmente alle donne rom e sinte, ma che quando vengono loro concesse si tratta delle più restrittive: la detenzione domiciliare. A conferma della persistenza di pregiudizi in capo alla magistratura.
References
↑1 | Tamar Pitch, direttrice della rivista “Studi sulla Questione Criminale”, già docente di Filosofia e Sociologia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, coordinatrice del Tavolo 3 degli Stati generali dell’esecuzione penale (2015-2016) su ‘Donne e carcere’. I suoi temi di ricerca principali sono la questione criminale, i diritti fondamentali, il genere del e nel diritto. |
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I critical romani studies come nuova frontiera dell’intersezionalità: madri rom e sinte in esecuzione penale esterna, in About Gender,11(22), 551-588. |