Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Donne Lgbt+ e differenza di genere

Donne Lgbt+ e differenza di genere

Donne Lgbt+ e differenza di genere

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Alessandra Rossi

Donne Lgbt+ e differenza di genere

Una lunga serie di numeri: le condizioni di detenzione delle donne nel sistema penitenziario italiano destano, ad oggi, un’attenzione di superficie, troppo spesso limitata alla conta delle persone recluse e alla loro allocazione nei vari Istituti. Al 31 gennaio 2023 erano 2.392, un quarto nelle 4 strutture esclusivamente femminili (le due Case Circondariali di Roma Rebibbia e Pozzuoli, quelle di Reclusione di Venezia e Trani), 15 con figli al seguito negli ICAM, il resto in reparti ricavati in carceri maschili: una minoranza, si conclude. Il 4,3%, di nuovo un numero1).

Il sistema penale investe la maggior parte delle risorse sul controllo della devianza maschile e sul mantenimento dell’ordine, relegando il sistema detentivo femminile a una spesa residuale

Come stanno le donne in carcere oggi?

Come stanno le donne in carcere oggi? O meglio, in che modo l’articolo 1 dell’Ordinamento penitenziario – novellato nel 2018 con l’introduzione del principio di non discriminazione verso la differenza di genere (comma 1) e dell’individualizzazione del trattamento in relazione al genere (comma 2) – trova applicazione nella struttura e nella prassi dell’Istituzione penitenziaria2)?
Il carcere è, per definizione, sistema limitativo: luogo fisico e simbolico che ha bisogno di regole per dare omogeneità e ordine alla vita. Esso è in sé inadeguato a prendere in conto le differenze.
Ne consegue che il principio di individuazione del femminile nell’istituzione carceraria è ancora imprescindibilmente basato su due presupposti: la condizione biologica, essere “donne assegnate alla nascita”, a cui viene parametrata l’architettura della reclusione, a cominciare come sempre dall’organizzazione separata degli spazi fisici; il ruolo di genere, a cui si ispira la logica dell’iniziativa trattamentale, che quindi tradisce il criterio di individualizzazione e l’espressione della soggettività delle donne.
Facciamo chiarezza: per comprendere fino in fondo cosa vuol dire evocare il paradigma della differenza di genere all’interno di un testo normativo e ordinamentale occorre intendersi su quale costrutto teorico-scientifico poggia questo concetto. L’identità sessuale di ogni individuo si compone di 4 fattori: sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale. A sua volta il genere è un fattore composito, culturalmente situato e articolato in due elementi, “espressione” e “ruolo”3): l’espressione del sé in relazione al genere, attraverso l’aspetto fisico, l’abbigliamento, i gusti e gli interessi costituisce “il corredo essenziale dell’identità”. I ruoli di genere sono altro: definiscono l’aspettativa che il nostro contesto sociale proietta sul binomio maschile/femminile, l’implicita struttura per cui a un maschile attivo, virile e dominante si pone in alternativa e compendio un femminile passivo, accudente e desiderabile.
La stereotipizzazione del ruolo sociale assegnato alla femmina investe dunque i corpi, le vite delle donne e li costringe ad aderire a una norma estetica, comportamentale, produttiva, sessuale: eteronormatività ed eterosessualità. Se questo è vero nella vita libera, dove comunque il principio di autodeterminazione rimane agibile a tutela dell’individuo, nello spossessamento del sé posto alla base di un’istituzione totale quale è il carcere, tale tutela può essere facilmente compromessa se non adeguatamente presidiata4).
L’eco della “natura femminile” e quindi di una “femminilità prevista” percorre ancora i corridoi degli Istituti di pena. Nelle condizioni odierne della detenzione femminile sono varie infatti le contraddizioni strutturali ai principi della differenza di genere e dell’individualizzazione del trattamento:

  • la marginalizzazione: le donne sono poche, meno pericolose e dunque invisibili. Il sistema penale investe la maggior parte delle risorse sul controllo della devianza maschile e sul mantenimento dell’ordine, relegando il sistema detentivo femminile a una spesa residuale. In altre parole le donne hanno spazi più piccoli, minore possibilità di risposta ai bisogni specifici, meno strutture e quindi meno possibilità di scontare la pena vicino al territorio in cui si hanno reti familiari e sociali.
  • la pretesa di vulnerabilità: essere considerate psicologicamente o fisicamente vulnerabili espone al rischio di una patologizzazione paternalistica. Questo è vero in particolare se la “permeabilità al vulnus” delle donne viene definita giuridicamente dalle caratteristiche biologiche femminili e, solo per conseguenza, dalle dinamiche relazionali e di contesto: una visione essenzialista, che trascende la realtà dell’individuo e costringe a creare la categoria “Donna”, naturalmente bisognosa di protezione e, va da sé, di maggiore remissione all’autorità5).
  • la minorazione: le donne sono viste come soggetti a metà tra l’adulto e il minore. Ogni volta che, nella gestione della prassi quotidiana, i loro conflitti sono sminuiti e le dinamiche relazionali vengono considerate meschine, il loro io viene infantilizzato (“sono come delle bambine”). La dimensione adulta viene riconosciuta ed è recuperabile solo nella funzione di madre: appare significativo che il rilascio di dati statistici da parte dell’Amministrazione penitenziaria sulla detenzione femminile sia limitato al tracciamento delle detenute madri, con figli al seguito6).

Delineato questo quadro strutturale, affermare la propria identità al di fuori della norma di genere in carcere è un atto sovversivo, che determina conseguenze diverse di tipo giuridico e sociale.

Esprimere un “femminile” non in linea con il sesso biologico in un’Istituzione che individua il principio di sicurezza nella separazione tra uomo e donna e quello di forza nella gerarchia tra i generi (il maschile sopra, il femminile sotto), porta con sé lo svantaggio di aver dismesso la dimensione della mascolinità come strumento di potere

Chi sono le donne recluse nel sistema carcerario?

La popolazione penitenziaria ad oggi annovera al suo interno donne cisgender, per le quali sesso e identità di genere femminile coincidono, ma anche persone assegnate femmine alla nascita, la cui identità ed espressione di genere si sposta orientandosi al maschile (transmasch). Allo stesso modo sono ristrette in carcere persone assegnate maschi alla nascita, che hanno identità di genere e caratteristiche culturalmente riconducibili al femminile (transfemm)7). Agire nell’obiettivo di tutelare questa differenza di genere significa mettersi nelle condizioni di comprendere in che modo stereotipi e pregiudizi sul femminile impattano sulla dimensione della convivenza ristretta, ma anche sull’architettura delle norme detentive.
Esprimere un “femminile” non in linea con il sesso biologico in un’Istituzione che individua il principio di sicurezza nella separazione tra uomo e donna e quello di forza nella gerarchia tra i generi (il maschile sopra, il femminile sotto), porta con sé lo svantaggio di aver dismesso la dimensione della mascolinità come strumento di potere. Le donne transgender appaiono femminili e dunque attirano su di sé forme di offesa e denigrazione legate all’oggettificazione e sessualizzazione dei loro corpi: corpi minori perché non “naturali”. Nonostante questo, nella logica detentiva, la condizione biologica cristallizza il loro essere maschi e ne giustifica la separazione “non promiscua” dalle donne. La marginalizzazione inizia dunque con una condanna nella condanna: l’essere ristrette in Istituti maschili e in ambienti separati, gli appositi reparti transex, che rinnegano strutturalmente la differenza di genere privando queste detenute del diritto all’identità individuale e dell’accesso a pari opportunità riabilitative e trattamentali8).
Lo stesso principio non vale per le persone transmasch, la cui natura biologica femminile rovescia il paradigma della pericolosità: non costituendosi come soggetti da attenzionare in termini di sicurezza, con loro è possibile evitare l’assegnazione a una categoria transex specifica, così come il collocamento in sezioni “separate protette”9). Rilevata l’assenza di una “vulnerabilità di contesto” però, essi subiscono una sotto-rappresentazione e, di nuovo, un’invisibilizzazione dei bisogni. In questo caso inoltre la categoria mantiene margini maggiormente sfumati, dal momento che l’incongruenza di genere di chi è biologicamente donna viene spesso depotenziata e schiacciata sull’immagine stereotipica della lesbica mascolina. Ciò è storicamente vero nella nostra cultura, in cui l’appropriazione di un’espressione di genere maschile viene delegittimata da una visione paternalistica per cui la donna che gioca a fare l’uomo non intacca il sistema di potere basato sulla virilità.

La segregazione per sesso posta alla base dell’organizzazione penitenziaria mira infatti a rimuovere il potere sovversivo del legame sessuale, assumendo l’eterosessualità come la norma

Identità di genere, identità sessuale

Il fatto che la condivisione degli spazi detentivi tra persone queer, uomini trans e donne biologiche non solleciti soluzioni allocative volte a ridurre il rischio di promiscuità consente di mettere a fuoco il punto problematico della questione: la gestione della sessualità e dell’affettività in carcere. La segregazione per sesso posta alla base dell’organizzazione penitenziaria mira infatti a rimuovere il potere sovversivo del legame sessuale, assumendo l’eterosessualità come la norma. In barba alle logiche di mantenimento della sicurezza però le persone queer, con la loro non conformità di genere e orientamento sessuale, esistono ed entrano in carcere. Ed è qui che il binomio diritto/genere viene messo alla prova, richiamando la necessità di evitare soluzioni discriminatorie, come la creazione dei reparti omosex a cui gli omosessuali maschi possono essere assegnati con pretesa di tutelare una vulnerabilità “di categoria” e senza considerare il portato individuale della loro esperienza10). Di questa vigile tutela non necessitano però le donne, per cui il rischio che si creino situazioni promiscue nei reparti come all’interno delle celle non viene temuto né eliminato. Il perché ce lo spiega una dispensa prodotta dall’Istituto Superiore di Studi Penitenziari nel 2013, dove la riflessione sul tema dell’omosessualità femminile è del tutto spostata sul fronte naturalistico11):

“Nelle sezioni femminili, le conseguenze derivanti dalla privazione delle relazioni presentano caratteristiche diverse [dalle sezioni maschili]. In effetti le donne, per loro natura e per condizionamenti culturali, non hanno la stessa ansia o tensione degli uomini per la privazione del sesso, essendo per lo più orientate verso manifestazioni di affetto, a vedere il sesso in funzione dell’amore e non viceversa.”

Le porte chiuse dei reparti femminili, dunque, non sono problematiche: anche perché la frequenza dei legami lesbici dietro le sbarre è stata a lungo interpretata come capacità delle donne di compensare l’assenza dell’uomo veicolando i propri bisogni dentro un nuovo ordine. Ancora una questione di ruolo femminile subalterno, posta alla base della teoria della deprivazione sessuale. Una teoria delegittimata non da istanze femministe, ma dalla realtà stessa delle donne, nel momento in cui rinnegano un sistema che le mette in competizione tra loro, per affermarsi in un percorso di liberazione: libertà di amare se stesse e le altre.
A tale riguardo, il punto di vista delle operatrici di sportello che raccolgono l’esperienza delle ristrette è ben riassunto dalle parole di Alicia Alonso, volontaria del Difensore civico dei detenuti di Antigone e componente dello sportello di Antigone e Garante regionale presso il carcere femminile di Rebibbia “Stefanini”:

“La tossicità del ruolo maschile rischia di essere potenziata da un’architettura dell’esecuzione penale che rende il femminile invisibile: capita ad esempio nelle relazioni quotidiane che alcune detenute parlino di sé al maschile perché lo associano a un esercizio di potere. Ognuna porta con sé i propri pregiudizi e può riprodurre visioni stereotipiche del genere o della sessualità. Il fatto però che all’interno del reparto convivano donne eterosessuali, bisessuali, lesbiche, soggettività queer riproduce in sé una forma di trasgressione del sistema che è resistenza.” [Fonte: mia intervista sul campo]

Capita così che lo spazio della segregazione possa essere laboratorio di differenza: ma è proprio dove questa differenza si rende possibile che emergono le conseguenze del pregiudizio trattamentale verso il femminile.
In primo luogo le relazioni quotidiane tre le detenute rischiano di essere osservate attraverso il filtro omologante della minorazione, per cui dinamiche di prevaricazione, anche violenta, dell’una sull’altra vengono ricondotte a una conflittualità innocua, reciproca e per questo tollerabile. La frequenza con cui nei dati DAP gli eventi critici in Istituti e reparti femminili sono derubricati a piccole zuffe per motivi banali ci parla di una difficoltà a riconoscere la matrice degli atteggiamenti violenti intragenere nella riproposizione di dinamiche di potere machiste e patriarcali. I report delle visite dell’associazione Antigone nei 4 Istituti femminili relativi al 2022 sulle aggressioni al personale e ad altre detenute segnalano valori in linea con quelli della media nazionale di tutti gli Istituti di pena12).
Anche in tema di espressione della sessualità, il fatto che sia ammessa non comporta da parte dell’Amministrazione penitenziaria una presa in carico più rigorosa verso i bisogni di salute psichica e fisica delle donne. Lo rivela il dato raccolto nel 2021 dalla Rete dOnne SimspE sull’incidenza delle malattie sessualmente trasmissibili HIV e HCV, 14 volte superiore nella popolazione carceraria femminile rispetto a quella generale13). Inoltre il diritto alla salute in ambito femminile viene abitualmente schiacchiato sulla tutela della funzione materna: uno sbilanciamento dei servizi sanitari che non garantisce pari accesso a prestazioni in altri ambiti della medicina di genere. Raramente ad esempio si prevede la presenza in Istituto di un endocrinologo, figura essenziale per le persone trans che intendono sottoporsi a terapia ormonale sostitutiva14). A tal riguardo è significativa la testimonianza di Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale:

“Ho ben presente la situazione recente di un ragazzo che ha deciso di intraprendere un percorso di transizione mentre era detenuto a Rebibbia “Stefanini”. Dal femminile non era mai stata applicata una prassi di accesso al protocollo sanitario apposito, ed è stata necessaria una concertazione del Garante comunale per istituire i contatti con il SAIFIP, centro del San Camillo-Forlanini di Roma per il riadeguamento del genere, e garantire l’accompagnamento all’esterno per tutte le visite necessarie, come previsto dall’art. 11 dell’Op.” [Fonte: mia intervista sul campo]

Il richiamo all’esercizio del materno rimane a tutt’oggi uno dei punti cruciali dell’orientamento riabilitativo proposto alle donne: essere cattive madri è la conseguenza colpevole della condotta criminosa. Non a caso, inoltre, maternità o gravidanza sono le condizioni di genere più tutelate su un piano di diritto, in termini di accesso a misure alternative alla detenzione o di possibilità di espiare la pena presso Istituti a custodia attenuata. Il fatto che non tutte le donne siano madri, o non desiderino esserlo, rischia così di passare in secondo piano, promuovendo l’esistenza di un femminile biologico aureo, il quale si iscrive nella corporeità dell’esperienza procreativa. Di nuovo un criterio di omologazione/esclusione che condiziona l’orizzonte trattamentale e vanifica il riconoscimento di un paradigma rieducativo che parta dalle istanze di autodeterminazione delle donne.
Per sovvertire le politiche penitenziarie segregative ed essenzialiste che riabilitano la centralità del femminile solo nella sua funzione biologica di corpo-matrice, occorre dunque appropriarsi di un femminile ampio e rivendicativo. Un cambio di passo culturale, in grado di informare il binomio genere/diritto, ponendo alla base della norma antidiscriminatoria la tutela della dignità individuale e non un astratto principio di pari opportunità. Occorre un sistema di pensiero duale sì, ma che trascenda la trappola del binarismo sessuale o della gerarchia tra i generi: accantonare l’unicum del maschile che ingloba o subordina e mettere a sistema il valore nella differenza. Nell’essere altro, altra, altrə è racchiusa la possibilità di ricostruirsi fuori dalla condanna alla marginalità e alla devianza. La vicinanza con i familiari nel principio di allocazione, la preferenza per le pene alternative, il superamento della tradizionale separatezza degli spazi15), la risocializzazione con attività di educazione scolastica, empowerment, professionalizzazione potranno poi essere le prassi che consentono al carcere stesso di essere società. Luogo in cui portare la propria differenza, integrando il prima, il durante e il dopo la pena.

References

References
1 Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Sezione Statistica, 31 gennaio 2023.
2 L’art. 1 Op nel 2018 introduce il principio di non discriminazione con riferimento al genere, superando de facto l’esplicitazione del solo sesso rintracciabile in art. 13, Regole penitenziarie europee: https://search.coe.int/cm/Pages/result_details.aspx?ObjectId=09000016809ee581
3 Cfr. la definizione di genere in J. Butler, Atti performativi e costituzione di genere. Saggio di fenomenologia e teoria femminista, 2012, p. 77.
4 «La criminalità, e così il carcere, sono domini maschili, ma mai esaminati come tali», T. Pitch, La detenzione femminile: caratteristiche e problemi, in Donne in carcere, ricerca sulla detenzione femminile in Italia, E. Campanelli, F. Faccioli, V. Giordani, T. Pitch, 1992.
5 Cfr. M. O’Boyle, The notion of “vulnerable groups” in the case law of the European Group of Human rights, p. 2.
6 Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Sezione Statistica: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14.page?facetNode_1=0_2&selectedNode=0_2_1#
7 «La percezione visiva delle categorie sociali è modellata non solo dai tratti del viso, ma anche da processi cognitivi sociali di ordine superiore (ad esempio, stereotipi, atteggiamenti, obiettivi)», J. B. Freeman, K. L. Johnson, More Than Meets the Eye: Split-Second Social Perception, in Trends in Cognitive Science 20.
8 Cfr. le disposizioni della Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Prot. n. 500422 del 2-5-2001.
9 Il DAP registra solo dati relativi alle sezioni transex, limitando la logica del tracciamento a una dimensione categoriale escludente tutte le altre identificazioni di genere.
10 L’Ord. n. 2407/2018 del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto ha chiarito che nessuna assegnazione a sezione protetta può essere fatta con potere discrezionale dell’Amministrazione penitenziaria (ex art. 13 e 14 co 1 Op).
11 Cit. Le dimensioni dell’affettività, cap. Identità di genere: omosessualità e transessualità della detenzione, Istituto Superiore di Studi Penitenziari 2013: http://www.bibliotechedap.it/issp/xl/30.pdf
12 Aggressioni al personale: 0,10 a Rebibbia; 0,01 a Pozzuoli; 0,06 a Trani (media nazionale 0,03); aggressioni tra detenute nessuna a Pozzuoli; 0,12 a Rebibbia; 0,03 a Trani (media nazionale 0,07); Venezia: nessun dato dichiarato.
13 Cfr. E. Rastrelli, Sanità in carcere – L’inedito studio realizzato da “ROSE” rivela i maggiori rischi tra le detenute per l’Epatite C, 2021: https://www.sanitapenitenziaria.org/sanita-in-carcere/
14 Cfr. la nuova disciplina ex art. 11 Op che aggiunge al comma 8 (assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere) il comma 8bis: «In ogni istituto penitenziario o in ogni sezione per donne sono comunque assicurati servizi specialistici dedicati e prestati possibilmente da personale femminile».
15 Cfr. CPT/Inf (2018)5 – Raccomandazione del CPT sul trattamento delle donne detenute: https://bip.brpo.gov.pl/sites/default/files/CPT-Women%20in%20Prison.pdf