Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Chiuse. Il carcere femminile di 40 anni fa

Chiuse. Il carcere femminile di 40 anni fa

Chiuse. Il carcere femminile di 40 anni fa

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Chiuse. Il carcere femminile di 40 anni fa

Si può immaginare la vita all’interno di un carcere?
No. Si può solamente e disgraziatamente viverla, ed è talmente difficile la sopravvivenza che ci ho messo 40 anni a trasformare il mio diario di allora in un manoscritto, in una testimonianza.

Le sezioni di questa maledetta galera femminile romana sono abominevoli casermoni a più piani, di una desolazione unica e di un colore sul ‘giallogrigiosporco’. Credo che li abbiano tinteggiati appositamente così!
Per ogni piano ci sono circa quindici celle munite di cesso, porta blindata e spioncino. In ogni cella, circa venti metri quadrati, possono dormirci dalle tre alle quattro persone a seconda del sovraffollamento.
C’è anche una sezione a celle singole denominata ‘cellulare’.
– cit. “Chiuse”, Rapsodia Edizioni, pag. 19 –

Il mio nome è Acqua.
Ho scelto questo pseudonimo preferendo l’anonimato. Non riesco proprio a metterci nome e cognome. Inoltre, non credo sia importante.
Voglio solo gridare l’importanza di essere considerata persone, di restare degni di dignità, di cure mediche, di sostegno, di accompagnamento, di relazioni. E questo deve valere per tutti, innocenti o colpevoli. Ecco perché la storia giudiziaria nello specifico, in quest’ottica, non ha importanza.
Non avevo mai tempo, non era mai il momento di tirare fuori tutto: disegni, lettere, foto, vissuto, ferite. La pandemia mi ha aiutato.

Sono passati 40 anni, ma in carcere non è cambiato nulla anzi forse è peggiorato perché, per esempio, il numero degli stranieri e le loro difficoltà (linguistiche e di sostentamento) è cresciuto in maniera esponenziale.
A pochi interessa questo mondo di malviventi, di sofferenti e di smarriti.
Volontariato escluso, chi o quale ente lavora per il reinserimento di coloro che hanno scontato la pena?

Parliamo con lui per ben tre ore, sfogandoci di tutto quello che sta accadendo in quel periodo.
Esce dalla camera in cui siamo state convocate per sentire la versione della direttrice. Ha un viso disponibile, ma quando torna, sul suo volto, c’è solo arroganza. Forse gli sono stati semplicemente mostrati i nostri mandati di cattura o capi d’accusa. Feccia.
Pago, nei giorni a seguire, per mano delle mie stesse compagne, la ‘fiducia’ che ho nel potere della mediazione. Vengo anch’io accusata di infamità (fare la spia).
Perché non sono mai stata trasferita?
Perché parlo così spesso con la vice-direttrice?
Mi becco un cazzotto in piena faccia, ma resto in piedi. Non ho paura, ma queste non sono le ‘mie armi’ e non mi ci so rapportare. Mi fa troppo male che si sospetti di me. Sono troppo in buona fede? Non mi rendo conto che lottiamo contro situazioni molto più grandi di noi. Obiettivi come RIEDUCAZIONE o REINSERIMENTO non interessano a nessuno.
Ma senza credere in qualcosa, in questo recinto di disperazione, come potrei farcela?
– cit. “Chiuse”, Rapsodia Edizioni, pag. 63 –

C’è una distanza enorme tra DENTRO e FUORI. Eppure, ci deve essere una strada che permetta di diminuire le distanze e le paure.
Attraverso Antigone, ho letto il crescente numero di suicidi in carcere ed è per me un dolore grande sapere che non c’è cura dei più fragili. Non c’era ieri e non c’è oggi. Se la morte è l’unica soluzione, ma come ci si può ridurre?!

Qualsiasi protesta, legata spesso all’assistenza medico-sanitaria, ha come ricatto la chiusura della sala musica piuttosto che la sospensione del corso di mimo, o la chiusura del piccolo campetto di calcio. In un secondo devi decidere se continuare a protestare/lottare per una compagna che ne ha bisogno, e fare barriera con lei, o mantenere aperte le uniche attività che ci tengono vive voltandoti dall’altra parte.
Addirittura! Certo!
Abbiamo i corsi di mimo insieme a qualche suicidio, un po’ di scabbia, cibo schifoso, luce fissa 24 ore su 24 e l’isolamento come cura per la ‘rota’ delle ragazze tossicomani. Amen.
– cit. “Chiuse”, Rapsodia Edizioni, pag. 22 –

Poche sono le carceri dirette da ‘direttori illuminati’ che credono nel reinserimento, offrendo possibilità di riscatto e di redenzione attraverso la promozione di competenze lavorative e attraverso l’arte e le compagnie teatrali.
Ho voluto pubblicare il mio diario affinché si possa osservare da vicino questo mondo, immaginandolo e visualizzandolo.

Non ci posso credere! S’è tagliata la gola!
Un urlo agghiacciante ci ha fatto correre nella sua cella. Aveva ben studiato tutto. Esattamente nell’ora che da qualche tempo, quasi tutte, dedichiamo alla ginnastica, si è ritirata silenziosamente nella cella senza essere notata e si è semi sgozzata. C’è una pozza di sangue da film dell’orrore, solo che è vera. Lei, sempre timida e silenziosa. Le hanno messo settanta punti. Mi sento rimbambita, sto male, vi odio tutti!
No, non si può mica andare avanti così. Amalia è caduta (?) dalla tromba delle scale. D’urgenza in ospedale. Fortunatamente s’è sfracellata solo un piede. Mi è arrivato un telegramma del cuore, mi ci voleva proprio per scaldarmi un po’.
In infermeria una ragazza ha tentato d’impiccarsi e Patti ha avuto una terribile crisi di nervi.
Spaccherei tutto.
– cit. “Chiuse”, Rapsodia Edizioni, pag. 94 –

Riporto il messaggio di un amico giudice di sorveglianza dopo la lettura del libro: “Conosco benissimo i particolari di quanto descritto (in alcuni reparti maschili la situazione è perfino peggiore rispetto ai reparti femminili!). La osservo dalla prospettiva di chi non ha in bocca il ‘sapore’ della galera e, quindi, ha una visione diversa e di certo meno personale. Per questo il libro mi ha dato una prospettiva ‘altra’ e di sicuro interesse…”.
Questo vorrei che fosse, una prospettiva ‘altra’.