Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Lo Sportello di Antigone a Pozzuoli: cattive madri

Lo Sportello di Antigone a Pozzuoli: cattive madri

Lo Sportello di Antigone a Pozzuoli: cattive madri

1024 576 Primo rapporto sulle donne detenute in Italia

Francesca Bonassi

Lo Sportello di Antigone a Pozzuoli: cattive madri

 Le donne, madri e detenute, infatti, commettendo un reato, non hanno violato solamente le norme penali, ma hanno anche trasgredito le norme di genere

“Non avete sbagliato solo nei confronti della società, avete sbagliato soprattutto nei confronti dei vostri figli perché siete state di cattivo esempio”.
È una frase che graffia le orecchie e fa irrigidire i corpi.
È una frase alla quale le madri detenute sono probabilmente abituate.
Le donne, madri e detenute, infatti, commettendo un reato, non hanno violato solamente le norme penali, ma hanno anche trasgredito le norme di genere, che impongono loro, in quanto donne, di ricoprire un determinato ruolo all’interno della società, caratterizzato da cura ed obbedienza, e si sono macchiate, infine, della colpa di essere delle cattive madri.

In questo periodo di avvicinamento all’8 marzo ed allo Sciopero globale femminista e transfemminista, una serie di domande e riflessioni sorte a partire dall’attività di sportello presso la Casa Circondariale di Pozzuoli ribollono ancora più forti1).
Ciò anche alla luce dell’attuale contesto politico italiano, connotato da securitarismo e giustizialismo, elementi spesso mascherati da lotta alla violenza contro le donne.
La violenza di genere, nell’ambito penale e penitenziario, si manifesta tendenzialmente lungo tre assi: nei confronti delle donne vittime di violenza domestica e di genere; nei confronti delle donne imputate; in relazione alle donne detenute.
Nel primo caso, il fenomeno al quale troppo spesso si assiste all’interno dei Commissariati e delle Stazioni dei Carabinieri, da parte dei servizi sociali, negli Uffici delle Procure e nelle aule dei tribunali nel corso dei procedimenti penali, civili e minorili è quello della cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ovverosia della violenza, basata su stereotipi e pregiudizi, esercitata da parte delle istituzioni nei confronti delle donne – già vittime di violenza domestica, fisica, psicologica, economica – tramite forme di delegittimazione e disconoscimento, addirittura di accusa di travisamento dei fatti nonché di manipolazione dei figli.
Ciò avviene per la mancata preparazione degli operatori alla lettura del fenomeno della violenza di genere e l’assenza e/o il mancato utilizzo di strumenti opportuni, nonché a causa della riduzione, in generale, delle problematiche sociali – nel cui alveo certamente rientra la violenza maschile contro le donne – a mere questioni interpersonali e di sicurezza. In relazione alle donne imputate, invece, se, da un lato, gli stereotipi di genere determinano una maggiore difficoltà, in un primo momento, a riconoscere la possibilità di delinquere da parte delle donne – dato il ruolo sociale di soggetto obbediente e mansueto a loro attribuito -, dall’altro, nel momento in cui il reato è accertato, la violenza contro queste ultime si manifesta tramite una duplice condanna – penale e sociale – a causa non solo della violazione di una o più norme penali, ma anche della trasgressione delle norme di genere. Da soggetti ubbidienti si trasformano in soggetti pericolosi.
La detenzione, infine, come più volte denunciato, si basa, da un lato, su un modello prettamente maschile, oltre che binario ed essenzialista e, dall’altro, su attività trattamentali socialmente legate alla sfera femminile, oltre che su una serie di pratiche determinate dal sesso e dal genere della persona detenuta.
Certamente non è possibile immaginare il carcere come un laboratorio di pratiche transfemministe essendo, per sua struttura, incompatibile con queste – e non essendo nemmeno, per chiudere il cerchio, la soluzione alla violenza maschile contro le donne e di genere.
Detto ciò, permane l’importanza di ragionare sul sessismo insito al sistema penitenziario e sulle conseguenze pratiche che questo determina nella vita quotidiana delle donne detenute, nonché sull’apporto che le lotte anti-sessiste e transfemministe possono fornire a quelle anti-carcerarie.
Già l’espressione detenzione “femminile” – connaturata dalla necessità di specificare il sesso delle persone recluse – rende manifesta la discriminazione di un sistema che con la semplice parola “detenzione” intende automaticamente quella maschile.
Come evidenzia Angela Davis nel saggio “Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale”, «affrontare le questioni che sono specifiche delle prigioni femminili è di vitale importanza, ma è altrettanto importante cambiare il nostro modo di concepire il sistema carcerario nel suo insieme. Di certo, le pratiche nelle prigioni femminili sono condizionate dal sesso, ma lo sono anche quelle delle prigioni maschili. Presumere che gli istituti maschili siano la norma e quelli femminili siano marginali significa, in un certo senso, partecipare proprio a quella normalizzazione del carcere che un approccio abolizionista cerca di mettere in discussione».2)
Ferma restando, dunque, la necessità di un ripensamento radicale dell’istituzione carceraria e l’impossibilità di una piena risoluzione delle problematiche a questa legate senza il superamento della stessa, è opportuno indagare sulle differenti tipologie di violenza esercitate dalla reclusione, tra le quali la violenza di genere, che determina pratiche differenziate negli istituti e nelle sezioni maschili e femminili.
Una pratica riservata alle detenute donne madri comporta la riduzione della maternità a strumento di disciplinamento.
Ciò è emerso chiaramente anche da dichiarazioni rese durante l’attività di sportello ed in occasione di incontri organizzati presso la struttura.

Più volte nel corso dell’attività di sportello è capitato di sentire raccontare storie di detenzione dovute alla commissione di reati per “arrivare a fine mese”, “per sfamare i miei bambini, e lo rifarei ancora se necessario”

“Fatelo per i vostri figli, avete già commesso un errore una volta nei loro confronti, non potete sbagliare di nuovo”.
L’iniezione del senso di colpa nelle persone detenute è dinamica propria dell’istituzione penitenziaria, termine che deriva appunto da penitenza.
Quando ad essere destinatarie di tale messaggio – dai toni più redentivi che risocializzanti – sono le detenute madri, la figura dei figli è spesso la carta giocata per tentare di far percepire la gravità dell’errore commesso e far riflettere sulla propria condotta.
Da un lato, il ricorso al senso di colpa è funzionale all’istituzione penale e carceraria per trattare quali questioni prettamente individuali problematiche che si pongono in realtà a livello strutturale, come ad esempio la povertà, le tossicodipendenze, i problemi legati alla salute mentale.
Più volte nel corso dell’attività di sportello è capitato di sentire raccontare storie di detenzione dovute alla commissione di reati per “arrivare a fine mese”, “campare”, “dare da mangiare ai miei figli”, “per sfamare i miei bambini, e lo rifarei ancora se necessario”.
Questi sono gli esempi di cattive madri con le quali abbiamo avuto perlopiù a che fare.
Dall’altro lato, l’utilizzo della figura dei figli alimenta la visione – diffusa anche nel mondo al di fuori delle mura penitenziarie – della maternità come esperienza totalizzante: se hai dei figli, non sei nient’altro che madre; se sei madre e sei detenuta, devi necessariamente soffrire per avere sbagliato nei confronti dei tuoi figli; se sei madre, la maternità è il ricatto al quale sottoporti per rieducarti.
La maternità diviene l’ulteriore strumento per sorvegliare e punire, per indurre al pentimento e fare redimere, limitandosi ad essere un dovere al quale adempiere – senza, tra l’altro, la messa a disposizione degli strumenti necessari a tal fine – e non anche un diritto da esercitare.
“Ma se posso sentire i miei figli solamente una volta alla settimana per dieci minuti, come faccio a fare la mamma? Durante la settimana, poi, i miei figli vanno a scuola e non possono venire a fare il colloquio”.
“Io vorrei tornare dai miei figli, ma il magistrato di sorveglianza non decide sulla mia istanza di affidamento al lavoro. Come faccio a fare la mamma se il giudice non decide?”
“Mo’ levano pure il reddito di cittadinanza, come pensano possa fare la gente in mezzo alla strada? Io con quello davo da mangiare ai miei figli, e comunque non era sufficiente”.
Il cortocircuito che viene a crearsi è evidente: le madri che delinquono sono ritenute delle cattive madri a prescindere dalle ragioni che le hanno indotte a commettere il reato; però, proprio facendo leva sull’esperienza della maternità, possono impegnarsi ad essere delle persone migliori – indipendentemente dal contesto familiare e sociale dal quale provengono e dalle condizioni economiche nelle quali versano. Le madri recluse devono, dunque, dimostrare di essere diventate, oltre che delle brave detenute, delle brave madri, adempiendo ai doveri dettati dalla maternità, nonostante la mancanza di strumenti disponibili, dati, ad esempio, il limitato numero di telefonate e colloqui possibili e le difficoltà dettate dalla detenzione al reperimento di un lavoro durante o dopo l’esecuzione della pena.
Ciò che risulta necessario è fuoriuscire dalla logica della maternità quale strumento di ricatto, abbattendo – dentro e fuori le mura carcerarie – la concezione di questa quale esperienza totalizzante e costrizione (e, allo stesso tempo, privilegio), per renderla una scelta libera ed un diritto effettivo e praticabile per tutt* coloro che la desiderano.
Occorre rompere la gabbia della maternità.
Sul piano più pratico ed immediato, tali obiettivi comportano una serie di provvedimenti di cui, a partire dalle detenute madri ma tramite l’ampliamento della platea, l’intera popolazione detenuta beneficerebbe: più chiamate e colloqui al fine di garantire un maggiore contatto con il mondo esterno; spazi di incontro con parenti e cari adeguati all’interno delle strutture penitenziarie come, ad esempio, le stanze dell’affettività – diritto rispetto al quale è stata di recente sollevata questione di legittimità costituzionale da parte di un magistrato di sorveglianza di Spoleto; un maggiore ricorso alle tecnologie comunicative, che non devono porsi quale strumento sostitutivo degli incontri in presenza, ma come possibilità di mantenimento dei legami ove non possibile altrimenti; applicazione più diffusa delle misure alternative.
Rispetto a queste ultime, il problema che spesso si pone riguarda la mancanza di una rete sociale, di possibilità lavorative e di una casa da parte della persona detenuta.
Tali problematiche, se preesistenti alla condizione detentiva, rischiano da questa di essere amplificate; se non, rischiano da questa di essere generate.
Il carcere, infatti, riproduce, amplifica e non risolve una serie di problematiche sociali, rendendo inevitabile, quando si parla di ripensamento radicale dell’istituzione, affrontare tematiche quali il lavoro, il reddito, la casa, la salute mentale e la violenza di genere.

Si tratta di questioni e di lotte che necessariamente devono essere portate avanti unitamente, dentro e fuori il carcere.
Nonostante le mura penitenziarie siano fatte per isolare e nascondere, il carcere rimane, infatti, un’istituzione porosa, che influenza il mondo esterno – tramite il timore della reclusione, la produzione di recidiva, povertà, malattie fisiche e psichiche – e che da questo è condizionata.
Ragion per cui il carcere più che la soluzione alle questioni sociali di queste in realtà fa parte.

Ulteriore problematica relativa al rapporto tra maternità e detenzione riguarda l’ingresso di bambini nelle carceri o negli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri) al seguito delle proprie madri.
Rompere la gabbia della maternità non significa, infatti, recludere in gabbia minori innocenti nel momento in cui la reclusione delle madri, più che legata ad effettive esigenze cautelari o detentive, riguarda la mancata applicazione di misure alternative ove concedibili, a causa delle condizioni nelle quali riversano le detenute, spesso prive di una casa, di una rete familiare o di adeguati mezzi di sostentamento, e il pregiudizio che grava, in generale, sulle persone con una storia di detenzione alle spalle.
Inoltre, la consistente diminuzione di minori in carcere figli di detenute determinata dai provvedimenti adottati a causa dell’imperversare del Covid rende evidente come spesso, più che di necessità di mantenere applicato il regime detentivo, si tratti di mancanza di volontà giuridica e politica di immaginare ed agire diversamente.
La presenza di bambini in carcere è il tema della proposta di legge presentata dall’ex deputato Paolo Siani ed altri intitolata “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 21 aprile 2011, n. 62, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”.
Tale proposta, approvata dalla Camera il 30 maggio e trasmessa al Senato, attraverso una serie di interventi relativi all’applicazione delle misure cautelari ed all’esecuzione della pena, promuove il modello delle case-famiglia, al fine di limitare ulteriormente l’ingresso di bambini in carcere.

Post-scriptum
«Volevo solo, entrando qua, tastare il polso del nostro Paese, sapere a che punto stanno le cose. Il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale: continuare a ignorarlo può portarci a ripetere il comportamento del buon cittadino tedesco che ebbe l’avventura di esistere nel non lontano regime nazista»
G. Sapienza, L’università di Rebibbia

Il carcere costituisce un problema non solo per la popolazione reclusa, ma anche per quella libera: è la soluzione apparente – ed al tempo stesso costosa – di svariate problematiche sociali; comporta una rescissione pressoché radicale dei rapporti umani; consiste nella minaccia costante della peggiore delle alternative di vita possibile.
Sempre nel saggio sopra citato, A. Davis definisce l’istituzione penitenziaria come presente-assente nella nostra società, sostenendo che «in generale, si tende a dare il carcere per scontato. È difficile immaginare la vita senza di esso. Al tempo stesso, c’è riluttanza ad affrontare la realtà che nasconde, si ha timore di pensare a ciò che accade al suo interno. Di conseguenza, il carcere è presente nella nostra vita e allo stesso tempo ne è assente. Riflettere su questa presenza-assenza significa iniziare a riconoscere il ruolo svolto dall’ideologia nel plasmare le nostre interazioni con l’ambiente sociale che ci circonda. Diamo per scontate le prigioni, ma spesso abbiamo paura di affrontare le realtà che producono. Dopotutto, nessuno vuole finire in galera».3)
Rendere visibile ciò che si tende ad invisibilizzare – in questo stridente contrasto con strutture detentive a volte addirittura mastodontiche – è certamente un passo da compiere per affrontare la questione.
I luoghi di detenzione – dalle carceri ai CPR, dalle REMS alla detenzione “chimica” determinata da abuso di psicofarmaci – non costituiscono solamente uno spazio fisico, ma anche uno spazio mentale e sociale necessariamente da abbattere.
Nel saggio Decarcerating disability, Liat Ben-Moshe scrive «[…] incarceration is not just a space or locale but a logic of state coercion and segregation of difference. […] it is a racist, colonial, gendered logic at its core».4)
Il carcere è un’istituzione sociale, prodotto e spettro della società: in quanto tale, ai fini del suo superamento, più che ad alternative ad esso è necessario pensare e praticare società alternative.
E se il carcere permette di comprendere lo stato delle cose, in Italia le cose stanno che nel 2022 si sono suicidate 84 persone detenute (quasi due suicidi alla settimana); che al 31 gennaio 2023 ad essere detenute erano 56.127 persone, a fronte di una capienza regolamentare pari a 51.403 posti, e che 17 erano i bambini in carcere al seguito delle loro madri.
L’8 marzo è la giornata dello Sciopero globale femminista e transfemminista: lottare contro la violenza del genere e dei generi significa inevitabilmente lottare contro la violenza del carcere.

References

References
1 Quando abbiamo deciso di contribuire al rapporto annuale di Antigone, quali volontari dello sportello dei diritti delle persone detenute attivo presso il carcere femminile di Pozzuoli ci siamo confrontati a lungo su quale questione affrontare. Il tema della maternità si è imposto a partire dai racconti delle esperienze raccolte da ciascuno di noi, sebbene le problematiche emerse durante il dibattito fossero tante, dal sopravvitto alla condizione delle celle, dal regime trattamentale delle sex offenders alle difficoltà (e alla casualità) per le persone detenute di ottenere l’affidamento al lavoro. Quello della maternità ci è apparso sin da subito un tema “scomodo”, e non tanto perché rischiava di ribadire l’equazione tra donna e madre, come se fosse l’unico o il principale argomento di cui discutere nel momento in cui ci si occupa della detenzione femminile, ma perché eravamo consapevoli della complessità della questione, e del rischio di non essere in grado di dominarla. Così, abbiamo deciso di raccontare la nostra esperienza, in tempi e modi diversi, nel carcere femminile di Pozzuoli, cercando di restituire almeno in parte quello che abbiamo compreso e che ci è stato raccontato in questi anni. Quelli che seguono sono due brevi contributi di due dei volontari del gruppo, numeroso, che da circa 4 anni anima lo sportello.
2 A. Davis, Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, minimux fax, Roma, 2009, pp. 69-70.
3 ivi, pp. 22.
4 L. Ben-Moshe, Decarcerating disability. Deinstitutionalization and Prison Abolition, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2020, pp. 15.