Nel sistema penitenziario italiano contemporaneo sembra persistere una concezione stereotipica dell’identità femminile. Le opportunità lavorative e di formazione offerte alle detenute spesso, anche se con alcune eccezioni, tuttora ricadono nell’ambito dei mestieri tradizionalmente attribuiti al genere femminile, non a caso storicamente chiamati mestieri muliebri o donneschi. Ricerche empiriche recenti (S. Ronconi e G. Zuffa, 2020; 2014) hanno inoltre messo in luce la centralità assunta dal ruolo materno nei discorsi delle detenute e delle operatrici penitenziarie, quasi come se il percorso rieducativo per le donne detenute dovesse coincidere con l’assunzione – o la riassunzione – del ruolo di madre. Questa centralità della maternità si riscontra peraltro nello stesso ordinamento penitenziario, anche successivamente alla riforma del 2018. Infatti, nonostante la legge delega n. 103/2017 avesse previsto l’adozione di «norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute»1), allargando la tutela giuridica della differenza di genere in carcere al di là della maternità, in sede di riforma tale previsione è rimasta perlopiù sulla carta, salvo qualche eccezione2). Ciuffoletti (2014, pp. 56-57) ha analizzato i tre pilastri sopra i quali si è strutturato il modello normativo della detenzione femminile: l’uguaglianza formale nel trattamento di detenuti e detenute, la separazione tra uomini e donne negli istituti penitenziari e, per l’appunto, la protezione della “donna madre detenuta”, che si è espressa soprattutto nella previsione di misure alternative destinate alle detenute madri all’interno dell’ordinamento penitenziario, oltre a qualche norma che si occupa della donna madre all’interno degli istituti penitenziari.
Sembra quindi che l’ordinamento, le pratiche e i discorsi messi in atto nelle strutture detentive, nonostante la previsione formale dell’uguaglianza davanti alla legge, continuino a promuovere nei confronti delle donne un’identità di genere fissa (cfr. C. Smart, 1992, p. 34), appiattita sul ruolo materno e sulle attività tradizionalmente associate al femminile.
Tale identità fissa sembra venire da lontano. Le sue origini possono essere messe in luce tramite una breve – e certamente non esaustiva – genealogia dell’internamento femminile.
La devianza femminile che veniva sottoposta ad internamento nell’ambito di questi istituti era prevalentemente legata alla sfera sessuale (…) Si internavano le donne che deviavano dal modello di femminilità, casto e puro, previsto dalla società
Dalle istituzioni della prima età moderna al carcere femminile
Sin dalla prima età moderna le donne sono state internate in istituzioni ideate appositamente per loro.
Conservatori, rifugi, ritiri, asili sono sorti nel contesto italiano a partire dal XVI secolo, anticipando alcune funzioni assunte dal carcere disciplinare con la sua affermazione a cavallo tra Settecento e Ottocento. La storia della detenzione femminile porta, in questo senso, a sfidare la collocazione temporale della “nascita della prigione” (M. Bosworth, 2000). Infatti, i rifugi per donne pericolanti e pericolate hanno anticipato diverse istituzioni che si sono affermate in Italia soprattutto a partire dall’Ottocento. Queste istituzioni avevano sostanzialmente due scopi: “mantenere intatta la virtù delle donne” (A. Groppi, 1994, p. 6) e rieducare le donne che avessero già perduto la propria virtù. Analogamente a quanto avveniva in altri Paesi europei (cfr. M. Bosworth, 2000), la devianza femminile che veniva sottoposta ad internamento nell’ambito di questi istituti era prevalentemente legata alla sfera sessuale. Essa consisteva infatti nell’avere vissuto esperienze di tipo sessuale al di fuori del vincolo matrimoniale – su tutte la prostituzione – oppure nell’essere ritenute in pericolo di cadere nell’esercizio di queste attività. Era quindi un internamento strettamente correlato al genere femminile: si internavano le donne che deviavano dal modello di femminilità, casto e puro, previsto dalla società. Inoltre, esso colpiva principalmente le donne in stato di povertà, che facevano parte delle classi marginali della società.
Lo scopo esplicitamente riabilitativo delle istituzioni che si sono affermate in questo periodo è assimilabile alla funzione assunta dalla pena detentiva con l’affermazione del carcere moderno (S. Cohen, 1992, p. 142). Bisogna considerare anche che rifugi e conservatori della virtù femminile erano istituzioni totali per sole donne, tratto che avrebbe poi caratterizzato nel XIX secolo anche il carcere femminile, principalmente concepito, all’esito dei dibattiti tra i riformatori penitenziari ottocenteschi, come separato da quello maschile.
La commistione tra reato e peccato e le teorie sull’inferiorità biologica delle donne hanno connotato le ideologie sulla questione criminale femminile, contribuendo a promuovere nel XIX secolo un modello penitenziario improntato a tratti moralizzanti e punitivi allo stesso tempo
Le prigioni per le donne
Quando nel corso dell’Ottocento anche nel contesto italiano si è affermato il carcere disciplinare, gli istituti che per secoli erano stati adottati per internare le donne non sono venuti meno: la commistione tra reato e peccato e le teorie sull’inferiorità biologica delle donne hanno connotato le ideologie sulla questione criminale femminile, contribuendo a promuovere nel XIX secolo un modello penitenziario improntato a tratti moralizzanti e punitivi allo stesso tempo (S. Trombetta, 2004, pp. 13-14).
Ciò si nota nelle esperienze preunitarie di carcerazione femminile, tra le quali spicca l’istituto delle Forzate di Torino, diretto dalla Marchesa Falletti di Barolo e gestito con un modello detentivo fondato sulla preghiera, sull’istruzione e sul lavoro inteso “come un veicolo di educazione al sacrificio” (ivi, pp. 72 e ss.). La dimensione insieme punitiva e moralizzante del carcere femminile si può individuare anche nella regolamentazione penitenziaria successiva all’Unità d’Italia, oltre che nelle pratiche concrete messe in atto negli istituti. L’esiguità numerica delle donne all’interno delle strutture detentive era già un tratto che connotava il sistema penitenziario: nel 1871 le donne costituivano il 5% della popolazione detenuta totale (M. Gibson, 2022, p. 82) e, in generale, nel corso dell’Ottocento la loro presenza negli istituti penitenziari non ha mai raggiunto 9% (S. Trombetta, 2004, p. 13). Anche il numero di istituti dedicato alle donne in quel periodo era minimo: le carceri giudiziarie spesso erano miste, mentre vi erano solo 6 case di pena3) dedicate alle donne a fronte delle 72 presenti in totale sul territorio italiano nel 1881 (M. Gibson, 2007, p. 193).
Il dibattito ottocentesco sulla riforma penitenziaria si è concentrato, per quanto riguarda la detenzione femminile, su due punti essenziali: la già accennata separazione tra uomini e donne e l’affidamento delle carceri femminili agli ordini religiosi, quindi alle suore, che hanno gestito gli istituti penitenziari per le donne fino alla riforma del 1975 e, in alcuni casi, anche successivamente (S. Trombetta, 2004, pp. 25 e ss.).
Una netta separazione tra uomini e donne continua ancora oggi a caratterizzare il carcere, pregiudicando in molti casi i programmi trattamentali delle detenute. A queste ultime vengono infatti proposte meno attività rispetto agli uomini, soprattutto per quanto riguarda le donne detenute in istituti penitenziari maschili. Per intervenire su questo aspetto, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha previsto che il numero delle donne ospitate in apposite sezioni degli istituti maschili debba essere “tale da non compromettere le attività trattamentali” (art. 14 l. n. 354/1975). Tuttavia, come evidenziato anche dal presente rapporto di Antigone, il principio non è ancora del tutto applicato, permanendo ancora nel sistema penitenziario attuale sezioni femminili con numeri esigui. Per questo motivo, è stato auspicato che si prevedano tra uomini e donne attività diurne in comune, in modo da implementare la tutela dei diritti delle detenute (S. Marietti, 2019, p. 28).
Per quanto concerne la gestione religiosa degli istituti femminili, essa aveva già caratterizzato il periodo preunitario4) ed è stata riproposta anche nella normativa penitenziaria successiva all’Unità d’Italia. Nel Regolamento per le case di pena del 1862 solo quattro articoli erano dedicati alle “Incombenze delle Suore addette alle case di pena destinate alle donne condannate”, incaricate di occuparsi dell’istruzione, della sorveglianza, dell’assistenza e della disciplina delle detenute5). Soltanto tre articoli erano dedicati alle guardiane, donne laiche impiegate negli istituti in numeri esigui, “poste sotto la diretta dipendenza delle suore” (art. 200 Regolamento 1862). I guardiani uomini dovevano invece limitarsi a sorvegliare l’esterno delle case di pena per le donne6).
Vi erano poi alcune norme che si occupavano delle detenute nelle carceri del Regno, aventi ad oggetto questioni come: la perquisizione all’ingresso in istituto, che doveva essere effettuata dalle guardiane; il vitto, che doveva essere inferiore a quello maschile; il taglio dei capelli, che non avrebbe dovuto essere praticato nei confronti delle detenute tranne che nel caso di necessità di carattere igienico-sanitario7).
Il Regolamento si occupava, nella parte dedicata all’infermeria e al servizio sanitario, delle donne in stato di gravidanza, che potevano essere trattate dal medico come inferme senza dover necessariamente essere ricoverate in infermeria (cfr. art. 332 Regolamento 1862)8). Questa previsione lascia intravedere una concezione che associa la maternità negli istituti penitenziari alle questioni di carattere sanitario, idea che ha continuato a permeare l’ordinamento penitenziario fino a tempi recenti. Infatti, nella legge n. 354 del 1975 la norma sulla possibilità per le madri di tenere con sé i figli fino al compimento dei tre anni di età era stata originariamente collocata all’art. 11, dedicato all’assistenza sanitaria in carcere. Con la riforma del 2018, la norma è stata spostata all’interno dell’art. 14 dell’ordinamento penitenziario, dedicato alle diverse categorie di detenuti, cercando di limitare, almeno a livello simbolico-normativo, la medicalizzazione della maternità in carcere9) (cfr. S. Marietti, 2019, p. 28). D’altro canto, la possibilità di tenere presso di sé i figli in carcere non era prevista dal Regolamento del 1862, che al contrario disponeva, dopo la nascita, l’affidamento del bambino alla famiglia o a “uno stabilimento di carità” (art. 434 Regolamento 1862), specificando che la madre avrebbe potuto “presentarsi per ritirare il suo nato dallo stabilimento di carità in cui fosse stato ricoverato” (art. 435 Regolamento 1862) al momento del rilascio.
La possibilità per le madri di tenere con sé i propri figli in carcere è stata prevista all’interno del successivo Regolamento del 1891, che attribuiva all’Autorità dirigente il compito di autorizzare la permanenza dei bambini in carcere fino a quando lo avesse ritenuto “necessario”. I bambini non potevano rimanere all’interno delle strutture detentive dopo avere raggiunto i due anni di età, momento in cui avrebbero dovuto essere affidati ai parenti della madre detenuta o ad un istituto di ricovero (cfr. art. 237 Regolamento 1891). La norma è stata riproposta nella sostanza anche nel Regolamento del 193110), che ha disciplinato il sistema penitenziario italiano fino alla riforma del 1975.
Più in generale, il Regolamento del 1891 ha continuato a prevedere la possibilità di affidare gli istituti penitenziari femminili agli ordini religiosi con il supporto delle guardiane11). Il Regolamento ha quindi continuato a riprodurre, per quanto riguarda la questione femminile, l’impianto di quello precedente: le suore hanno continuato a gestire, sulla base di convenzioni stipulate con lo Stato, gli istituti penitenziari femminili, formalmente sotto la direzione delle Autorità statali, ma mantenendo intatta una certa autonomia gestionale nella pratica penitenziaria.
Anche nel Regolamento del 1931 le norme dedicate alla detenzione femminile erano limitate e riproducevano nella sostanza le previsioni dei regolamenti precedenti. Con riferimento a questo Regolamento si segnala una norma in tema di istruzione, che prevedeva che alle donne detenute dovessero essere “impartite anche nozioni di igiene e di economia domestica”. Questa disposizione formalizzava nei confronti delle detenute un’istruzione improntata ancora una volta a questioni tradizionalmente considerate femminili. Per ovviare alla scarsità delle offerte formative che connota ancora oggi il carcere femminile, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha introdotto all’art. 19 della legge n. 354 del 1975 la previsione secondo cui dovrebbe essere “assicurata parità di accesso delle donne detenute e internate alla formazione culturale e professionale”, “tramite la programmazione di iniziative specifiche”. In questo senso, è stato auspicato che le iniziative specifiche a cui fa riferimento la norma non si traducano ancora una volta esclusivamente in occasioni di apprendimento di mestieri tradizionalmente associati al genere femminile (S. Marietti, 2019, p. 28).
Fino a quando il carcere femminile è stato appannaggio degli ordini religiosi, le detenute sono state gestite tramite un “modello familiare” fondato sulla moralizzazione, che divideva le detenute in buone e cattive a seconda che si conformassero o meno ad un ideale di femminilità docile e mansueta
Sotto il profilo del diritto in azione, in generale è stato considerato che, fino a quando il carcere femminile è stato appannaggio degli ordini religiosi, le detenute sono state gestite tramite un “modello familiare” fondato sulla moralizzazione, che divideva le detenute in buone e cattive a seconda che si conformassero o meno ad un ideale di femminilità docile e mansueta (F. Faccioli, 1990, pp. 129 e ss.). Si trattava di un modello basato su un paternalismo camuffato da assistenza, basato sulla persuasione e sul condizionamento psicologico (ivi, p. 132). Tale condizionamento derivava anche dal ruolo materno che veniva esercitato dalle suore, che erano le agenti principali del controllo all’interno delle istituzioni totali femminili (ivi, p. 131). Tra l’altro, è stato considerato che le suore, essendo madri spirituali, “non coinvolte in un’esperienza reale di maternità”, erano in grado di incarnare “il significato simbolico prescrittivo” della maternità in modo particolarmente pregnante (A. Groppi, 1988, p. 145).
Considerazioni conclusive
Oggi il carcere femminile appare molto diverso da quello che è stato storicamente: non ci sono più le prigioni-convento, la parità di trattamento tra detenuti è stata espressamente prevista dalla normativa penitenziaria12). Inoltre, la riforma del 1975 ha inaugurato un modello detentivo orientato, sulla carta, al reinserimento sociale. Tuttavia, la detenzione femminile continua ad essere connotata da alcuni degli elementi che sono stati richiamati sopra e che hanno contraddistinto la storia dell’internamento delle donne: le poche norme dedicate al carcere femminile, i numeri esigui delle detenute, un trattamento penitenziario ancora orientato ad un modello di femminilità rigido e riduttivo. Sembra permanere infatti una mancata tutela delle soggettività femminili al plurale, nelle diverse dimensioni della vita in cui, come esseri umani, le donne si esprimono e continueranno ad esprimersi nonostante il carcere.
Bibliografia
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Cohen S., The Evolution of Women’s Asylums Since 1500. From Refuges for Ex-Prostitutes to Shelters for Battered Women, New York, Oxford University Press, 1992.
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Gibson M., Le prigioni italiane nell’età del Positivismo (1861-1914), Roma, Viella, 2022.
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Marietti, S., Il trattamento e la vita interna alle carceri, in Gonnella P., a cura di, La riforma dell’ordinamento penitenziario, Torino, Giappichelli, 2019, pp. 15-31.
Ronconi S., Zuffa G., Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, Roma, Ediesse, 2014.
Ronconi S., Zuffa G., La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti, Roma, Ediesse, 2020.
Smart C., The Woman of Legal Discourse, Social & Legal Studies, 1, 1, pp. 29-44, 1992.
Trombetta S., Punizione e carità. Carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento, Bologna, il Mulino, 2004.
References
↑1 | Art. 1, comma 83, lett. t) l. 103/2017. |
---|---|
↑2 | Sulla riforma in tema di detenzione femminile, cfr. S. Marietti (2019, pp. 27-29). |
↑3 | Le case di pena erano istituti in cui si scontava una pena detentiva superiore a due anni, mentre le carceri giudiziarie ospitavano detenuti in attesa di giudizio o con condanne fino a due anni (M. Gibson, 2007, p. 193). |
↑4 | Anche nel carcere delle Forzate di Torino, retto dalla Marchesa di Barolo, poco tempo dopo l’avvio dell’attività sono state impiegate le suore, facendo terminare la breve esperienza della gestione del carcere da parte di signore laiche (S. Trombetta, 2004, p. 79). |
↑5 | Cfr. 99-103 del Regolamento. In tutto, gli articoli dedicati alle suore nelle case di pena del Regno erano diciotto. |
↑6 | Art. 156 del Regolamento. |
↑7 | Cfr. gli artt. 230, 235, 318 del Regolamento. |
↑8 | Cfr. gli artt. 199-201 del Regolamento. |
↑9 | È tuttora previsto all’art. 11 dell’ordinamento penitenziario l’obbligo di attivare “servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere”. Si tratta di una norma che, seppur in funzione della tutela del diritto alla salute, concentra ancora una volta l’attenzione sulla maternità e non sulla tutela della salute del corpo femminile in generale (in relazione al quale è doveroso tutelare anche la maternità). |
↑10 | Cfr. l’art. 43 del Regolamento del 1931. |
↑11 | Nel Regolamento del 1891 cfr. gli articoli 16, 18, da 148 a 160, da 217 a 219. |
↑12 | Anche con riferimento esplicito al divieto di discriminazioni in base al sesso e all’identità di genere (cfr. art. 1 legge n. 354/1975). |