Se la stessa Costituzione, al terzo comma dell’art. 27, si preoccupa di declinare il termine “pena” al plurale, un ruolo fondamentale dovrebbe essere svolto dagli Uffici di esecuzione penale esterna (UEPE) che, in collaborazione con l’autorità giudiziaria, permettono agli autori di reati – uomini e donne – di avvalersi di percorsi alternativi alla detenzione classica.
Al 15 gennaio 2023 il panorama extracarcerario è popolato da un totale di 122.257 persone, di cui l’11,6% (pari a 14.146) è costituito da donne, a fronte dell’88,4% della controparte maschile (vale a dire 108.111 uomini). Una tale sottorappresentazione non deve però trarre in inganno, risultando infatti necessario, ai fini di un’analisi rigorosa, raffrontare quest’ultimo dato con i più recenti numeri riguardanti la detenzione, secondo i quali solo il 4,3% della popolazione carceraria al 31 gennaio 2023 è composto da donne. Da questa comparazione è possibile delineare un quadro più realistico della situazione femminile, un quadro in cui la percentuale delle donne in carico al sistema di esecuzione penale esterna è notevolmente superiore alla percentuale delle donne sottoposte al regime intramurario. Evidente, quindi, la maggiore propensione a favorire le donne nell’intraprendere un percorso al di fuori degli istituti penitenziari, sintomo quest’ultimo, non solo di una prevalente fiducia nella potenzialità risocializzante delle donne che accedono alle misure non carcerarie, ma anche di una realtà criminale che tendenzialmente vede le donne commettere reati per cui sono previste pene più brevi.
Lo sviluppo diacronico delle misure alternative da un lato, e della popolazione carceraria dall’altro, ha viaggiato nel tempo secondo ritmi analoghi, quasi su binari paralleli
Interessante notare, a tal proposito, la consistente e costante crescita del ricorso all’area penale esterna osservabile nel corso del tempo, in particolare negli ultimi 15 anni. Un incremento che, riguardando sia uomini che donne, potrebbe sembrare il frutto di una progressiva erosione del modello carcerocentrico in generale. In realtà, a ben guardare, lo sviluppo diacronico delle misure alternative da un lato, e della popolazione carceraria dall’altro, ha viaggiato nel tempo secondo ritmi analoghi, quasi su binari paralleli. Se si ripercorre la storia della detenzione e delle alternative alla detenzione, infatti, appare lampante l’evoluzione estremamente similare delle oscillazioni registrate su entrambi i fronti. In seguito all’indulto del 2006, che ha determinato una drastica caduta delle presenze in carcere e dei destinatari di misure alternative (le presenze femminili in carcere vengono quasi dimezzate, passando da 2.804 a 1.670), i numeri ricominciano a crescere inesorabilmente fino alla dichiarazione di emergenza penitenziaria nel 2010. Si registra, non a caso, una prima discrepanza tra carcere e misure alternative ed una netta espansione di quest’ultime proprio tra il 2009 e il 2011, in concomitanza con il deposito di quei ricorsi che, lamentando una condizione di sovraffollamento, avrebbero poi portato alla nota sentenza Torreggiani del 2013, svelando così un chiaro intento deflattivo volto esclusivamente a fronteggiare lo stato di emergenza.
La mancanza, oltretutto, di un reale piano assistenziale e di sostegno nella fuoriuscita dal mondo carcerario è resa ancora più manifesta dall’iniziale spropositato utilizzo, da parte del Governo italiano, della detenzione domiciliare, misura in cui non si fa che riprodurre il paradigma segregante tipico del modello penitenziario, e dove a prevalere sull’obiettivo riabilitante è l’esigenza securitaria di controllo attraverso il mero e sterile isolamento.
Negli anni allora, paradossalmente, le persone in misura alternativa sono aumentate senza però che ciò comportasse un simmetrico e proporzionato calo della popolazione carceraria, con il risultato che la giustizia penale e la sua stretta autoritaria non hanno cambiato rotta, ma hanno semplicemente allargato il proprio campo di azione e sorveglianza. Lo dimostrano anche le fluttuazioni minime ed omogenee che si sono verificate nel più recente periodo tra le donne detenute e le donne in misura alternativa: ad un lieve incremento del numero di donne in misura alternativa (da 2.566 nel 2018 si è giunti a 3.331 nell’inizio del 2023), non è corrisposto, se si esclude la parentesi pandemica, un equivalente decremento della percentuale di donne in detenzione, quest’ultima sempre intorno al 4%.
Tornando alla situazione femminile attuale, però, occorre precisare che delle 14.146 donne in carico agli UEPE, 8.534 sono destinatarie di misure molto variegate tra di loro, mentre le restanti 5.612 sono soggette ad un’attività di consulenza, ad un’attività di indagine finalizzata alla eventuale applicazione della misura e ad un’attività di trattamento per l’assistenza post-penitenziaria e familiare.
La messa alla prova si configura come la risposta più frequente alla delinquenza femminile, superando il numero di misure alternative applicate e segnando così un’ulteriore differenza rispetto alla criminalità maschile
Il lavoro di indagine maggiormente svolto è quello avente ad oggetto la messa alla prova per una sua richiesta in fase istruttoria, rappresentando il 75% delle indagini e consulenze complessive, laddove il 12,1% riguarda le indagini per le misure alternative. Percentuali che approssimativamente riflettono la preponderante applicazione in concreto non tanto e non solo delle misure alternative (il 39%), quanto e soprattutto della messa alla prova (il 45% sul totale). Quest’ultima, effettivamente, si configura come la risposta più frequente alla delinquenza femminile, superando il numero di misure alternative applicate e segnando così un’ulteriore differenza rispetto alla criminalità maschile, dove si assiste ad un rapporto inverso e ad uno scarto maggiore tra le misure alternative assegnate (il 40,4%) e la messa alla prova concessa (il 31,2%). Introdotta nel 2014 anche nel settore degli adulti, la sospensione del procedimento finalizzata all’esecuzione di un programma di messa alla prova è una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, ed attualmente la preminente reazione della giustizia italiana alla commissione di un reato da parte di una donna, la quale, in caso di esito positivo del periodo di prova, vedrebbe il reato stesso estinguersi. Dal 2018 ad oggi le cifre relative alle donne interessate da tale misura sono cresciute, anche se solo leggermente, subendo una lieve e quasi impercettibile flessione unicamente nell’ultimo anno (se al 31 dicembre 2021 le donne in messa alla prova erano 3.962, attualmente si attestano a 3.815).
Se si esaminano le specifiche tipologie di misure alternative adottate al 15 gennaio 2023, a spiccare su tutte è l’affidamento in prova al servizio sociale, concesso a ben 2.113 donne, delle quali il 74,2% proviene dalla libertà, il 19,7% da una detenzione già iniziata in carcere e il 6% dalla detenzione domiciliare o dagli arresti domiciliari.
Sulle 1.185 donne in detenzione domiciliare, invece, regna una suddivisione più equilibrata tra coloro che sono state condannate dalla libertà (il 40%) e coloro che sono state condannate dalla detenzione (il 46%), a cui si aggiungono le donne in attesa della decisione ex art. 656 c.p.p. (il residuale 14,2%). Per effetto poi della legge 40/2001, che oltre all’assistenza all’esterno dei figli minori ha introdotto la c.d. detenzione domiciliare speciale, a godere del beneficio sono adesso anche le donne incinte o madri di bambini di età inferiore a dieci anni. Ma la vera spinta all’utilizzo di tale misura si deve alla legge 199/2010, che ne ha ampliato i criteri di concessione, determinando un graduale allargamento della categoria di destinatari ed un andamento crescente proprio nel periodo immediatamente successivo all’emanazione del provvedimento. Si tratta, comunque, di una misura non priva di luci e ombre, basti pensare agli ostacoli che una donna, reclusa in casa e senza altri stimoli od opportunità di reinserimento, può incontrare nel suo percorso di ricostruzione del legame con il tessuto sociale e lavorativo.
Operando poi un confronto tra la quantità di donne in detenzione domiciliare e la quantità di donne sottoposte all’affidamento in prova, non si può non notare un rapporto mediamente bilanciato, rilevabile soprattutto negli ultimi 5 anni. Tant’è vero che l’affidamento in prova supera di poco le cifre relative alla detenzione domiciliare, rapporto che invece soggiace ad uno scarto più ampio nella sfera maschile, dove gli uomini in affidamento svettano in maniera nitida, dimostrandosi quasi sempre in numero decisamente superiore rispetto al numero degli uomini in detenzione domiciliare. Una statistica che si potrebbe spiegare con il più facile accesso di madri e donne incinte a quest’ultima misura, ma anche con un substrato culturale che tende a relegare la donna nel solo ruolo domestico, smorzandone ogni afflato lavorativo e professionalizzante, che invece avrebbe la possibilità di sviluppare in condizioni di maggiore libertà e attraverso lo svolgimento di attività risocializzanti.
Le donne straniere presenti in carcere sono 732 su 2.392, vale a dire il 30,6% della popolazione femminile detenuta, mentre le donne straniere sottoposte a misure extracarcerarie sono solo il 18,8% (pari a 2.657)
Solo 33 sono le donne in semilibertà, la quasi totalità (31) condannata dallo stato detentivo. Non stupisce il numero particolarmente esiguo che contraddistingue tale misura alternativa, il cui limitato impiego si è infatti mantenuto sempre pressoché stabile ed invariato nel corso degli anni, anche nei confronti degli uomini.
Ancora più contenuto, tuttavia, è il ricorso alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi: nessuna donna si trova in semidetenzione e solo 16 sono in libertà controllata. Segnale eloquente di un malfunzionamento sistemico della normativa che ne disciplina l’applicazione. Anche in questo caso, infatti, i numeri bassi si registrano altresì sul versante maschile (un solo uomo in semidetenzione e 94 in libertà controllata).
Le donne sottoposte alla misura di sicurezza della libertà vigilata si attestano a 295.
Il 12,6% dell’area penale esterna femminile è costituito inoltre dal lavoro di pubblica utilità, astrattamente previsto sia in caso di inosservanza della legge sugli stupefacenti sia in caso di infrazione del codice della strada. La prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività riguarda, però, solo in minima parte le donne colpevoli di non aver rispettato la normativa sulle sostanze stupefacenti o psicotrope, rappresentando il 6,9% delle beneficiarie di tale misura. Il restante e maggioritario 93,1% concerne invece le donne responsabili di reati in violazione delle regole sul comportamento stradale.
Un altro elemento da non sottovalutare, ma anzi alquanto significativo, è l’area geografica di provenienza delle donne complessivamente in carico agli UEPE. Attraverso un agile confronto con le donne straniere presenti in carcere (732 su 2.392, vale a dire il 30,6% della non così ampia popolazione femminile detenuta), è difatti possibile notare una marcata sproporzione rispetto alle donne straniere sottoposte a misure extracarcerarie: al cospetto di un’area penale esterna composta da ben 14.146 donne, solo il 18,8% (pari a 2.657) è costituito da donne non italiane.
Considerata tale irrisoria percentuale, allora, non sarebbe poi così azzardato desumere una malcelata diffidenza che induce a guardare con circospezione, e di conseguenza a sfavorire, le autrici di reato di origine straniera, spesso etichettate aprioristicamente come socialmente pericolose. Non è altro che il riflesso di una società discriminatoria e di un sistema politico e socio-economico di estrema rigidità nei confronti delle donne appartenenti alle fasce più deboli e svantaggiate, un contesto che, invece di includere appianando le differenze, mira a stigmatizzare e respingere i soggetti già marginalizzati. Sebbene, pertanto, secondo le statistiche, le donne straniere commettano reati meno gravi e siano quindi destinatarie di pene più miti, di fatto risultano avere meno occasioni di fruire delle opportunità di reintegrazione sociale, a volte anche per l’oggettiva impossibilità di godere di un riferimento abitativo stabile. L’esclusione delle donne straniere dal circuito extracarcerario, allora, sembra essere strettamente collegata non tanto ad una valutazione individualizzata e scevra da pregiudizi, quanto alla loro concreta condizione di isolamento e assenza di una rete sociale, assenza che lo Stato non sembra in grado di colmare.
Delle poche donne straniere in esecuzione penale esterna, inoltre, più della metà (esattamente il 54,6%) giunge dal continente europeo, mentre le provenienze dall’Africa (soprattutto quella Settentrionale e Occidentale) e dall’America (in particolar modo la zona Centro-meridionale) tendono a equivalersi, rappresentando rispettivamente il 17,2% e il 20,1% e perciò superando di gran lunga l’Asia (il 7,8%) e l’Oceania, con solamente 3 donne prese in carico. Anche qui si avverte l’ennesima divergenza rispetto alla situazione maschile, dove i principali Paesi di provenienza degli uomini in area penale esterna si suddividono piuttosto equamente tra il continente europeo (il 41,8%) e quello africano (il 38%).
Meritevole di considerazione, oltre la nazionalità, è infine anche l’età delle interessate. Se le ragazze dai 18 ai 20 anni figurano come la minoranza, raggiungendo un modesto 0,7%, in cima all’estremo opposto si colloca invece la fascia compresa tra i 30 e i 49 anni, e più precisamente a spiccare su tutte è quella tra i 45 e i 49 anni (il 13,2%), indice probabilmente di una maggiore presenza, in misura alternativa, di madri con figli piccoli.
L’allontanamento dalla famiglia, infatti, è solo una delle conseguenze negative in cui può incorrere una persona, in particolare una donna su cui solitamente grava il lavoro di cura e genitoriale, in caso di detenzione in carcere. Ricorrere quindi alla mera reclusione carceraria di fronte a reati generalmente di lieve entità, come quelli in linea di massima commessi da donne, non solo significa non rispettare il principio di proporzionalità della pena, ma può risultare persino dannoso per la donna stessa che, oltre a vedersi spezzati i legami familiari, rischia di subire la riprovazione sociale e di perdere un lavoro che difficilmente riuscirà a recuperare una volta fuori di prigione. Allo stesso tempo, tuttavia, l’esecuzione penale esterna, se da un lato si iscrive nella più opportuna ottica di contrasto della recidiva, di riabilitazione e risocializzazione, dall’altro lato potrebbe rimanere lettera morta se non accompagnata da una contestuale decongestione della struttura penitenziaria e da un sistema di strumenti e risorse che ne permettano un più facile accesso ed il buon funzionamento.