Io arrivo in carcere alla fine del giugno 2022 [..] Un caldo torrido, non mi forniscono quasi nulla se non un pezzo di sapone e un accappatoio.
Sono uscita dal carcere alla fine del 2022 e vi racconto brevemente quella che per me, e penso molte altre, è stata una delle esperienze più dure della vita.
Premetto che, avendo fatto l’avvocato penalista per oltre trent’anni, finire dalla parte opposta della barricata mi ha fatto comprendere non solo le carenze di un sistema carcerario che non funziona, ma anche quelle che derivano dall’isolamento in cui i detenuti si vengono a trovare, non tanto con i familiari, sempre presenti, quanto con le istituzioni e coloro incaricati di assisterli.
Io arrivo in carcere alla fine del giugno 2022 per dei definitivi di parecchi anni addietro (e anche su questo ci sarebbe da dire, visto che in quasi tutti i casi si parla di condanne vecchie, con la resa dei conti che arriva quando quasi tutte si sono con fatica ricostruite una vita!). Vengo messa da sola in cella di osservazione per le misure anti-Covid. Un caldo torrido, non mi forniscono quasi nulla se non un pezzo di sapone e un accappatoio. Solo la signora della spesina si preoccupa di darmi una bottiglia di acqua visto che mi arrangiavo con quella del rubinetto.
Riesco ad uscire a camminare all’aria solo una volta in sei giorni e finisco in un cortile di cemento senza zone d’ombra e senza acqua disponibile. Ovvio che decido di non uscire più perché sarei morta per il caldo. Mi chiedono se voglio farmi una doccia e mi dicono di aspettare perché mi avrebbero accompagnato nelle docce per gli isolati. Cambiano i turni degli assistenti ed io alla fine in sei giorni riesco a farmi solo una doccia calda, salvo poi passare per una che non si lavava!!
Alla fine, fatto il tampone, entro in sezione. Le celle sono piccolissime e vecchie nella struttura, tubazioni corrose dal tempo e mal funzionanti. L’acqua del bidet o della turca di una cella fuoriusciva in quella adiacente perché le tubature erano collegate e sempre intasate, con conseguenti allagamenti ecc. Le celle erano abitate da due detenute, tranne una più grande dove ce ne stavano quattro. Diciamo che lo spazio per due era minimo, non ci si poteva muovere e gli armadietti erano minuscoli. Ben presto il flusso dei detenuti è stato tale che hanno ricominciato a fare celle da tre, in violazione delle note sentenze della Corte Europea che aveva stabilito il numero massimo di persone in base alla metratura della cella.
In cella non c’è l’acqua calda e, se in estate ci siamo arrangiare, con i primi freddi è stata una tragedia. In più a settembre si è rotto un pezzo della vecchissima caldaia e, non trovando il ricambio, visto che l’acqua delle docce era fredda, il direttore ha deciso di stabilire turni per le docce fra femminile e maschile. In pratica alcuni giorni la doccia si poteva fare solo al mattino e altri solo al pomeriggio!! Peccato che chi andava all’aria a camminare tante volte non poteva lavarsi e doveva farlo in cella con l’acqua ghiacciata.
Fino a settembre i blindi non venivano chiusi, ma in seguito venivano chiusi a chiave alle 23.30 e non c’era modo di evitarlo anche se molte stavano male sentendosi ancora più prive di aria e di luce. Venivano riaperti solo alle 7.30 del mattino. Gli orari di apertura e chiusura delle celle non erano mai regolari. L’apertura doveva avvenire alle 8.00 ma non capitava mai prima delle 9.00, mentre la chiusura avveniva sempre alle 20.00, con ciò privandoci di almeno un’ora di apertura.
L’area esterna della sezione era un cemento senza verde, però aveva una fontana, assente invece nell’area degli isolati. C’erano quattro palloni disponibili, ma tutti squarciati e sgonfi. Più volte abbiamo richiesto di averne di nuovi ma l’area educativa non ha mai provveduto. Stessa cosa per la rete di pallavolo mai messa.
All’inizio ho parlato con un educatore, il quale mi ha consigliato di andarmene a Bollate e mi ha detto che lui se ne sarebbe andato. E così è stato, eravamo ad agosto!! Più visto nessuno. La psicologa l’ho vista un po’ di più, ma a un certo punto è sparita anche lei. Abbiamo tutte iniziato a preoccuparci, perché avevamo istanze varie e sapevamo che dal carcere non partivano osservazioni o sintesi, per cui tutte restavano chiuse lì dentro. Abbiamo interpellato il direttore, il cappellano, i volontari, ma tutti si dichiaravano impotenti visto che al concorso per sei educatori se ne erano presentati due, ovviamente indirizzati al maschile dove i detenuti erano la maggioranza.
Alla fine, e siamo novembre, dopo continue nostre lamentele è comparsa dal nulla un’educatrice che a tutte ha fatto presente la sua impossibilità ad aiutarci visto che non ci conosceva. A me ha detto che si sarebbe fatta aiutare da una psicologa, che in effetti ho visto una volta e a cui ho chiesto che fine avesse fatto la precedente con cui avevo già parlato. Niente, la psicologa non la vedo più, ma comprendo che le persone con cui noi parlavamo all’inizio non avevano lasciato relazioni scritte degli incontri. Chi arrivava da altre carceri aveva relazioni dettagliate da trasmettere in sorveglianza, noi non avevamo nulla. Io ad esempio sono uscita con due righe con scritto che avevo compreso i miei errori e volevo rieducarmi (onestamente non so neanche come sia potuto bastare per mandarmi in affidamento).
Gli educatori stanno al maschile, e al femminile non ci vuole venire nessuno. Questa è l’idea che ci siamo fatte. Ed è ovvio che sia così, visto l’immenso lavoro che ci sarebbe da fare dopo mesi, se non anni, di nulla!
Gli educatori stanno al maschile, e al femminile non ci vuole venire nessuno. Questa è l’idea che ci siamo fatte. Ed è ovvio che sia così, visto l’immenso lavoro che ci sarebbe da fare dopo mesi, se non anni, di nulla!
I corsi all’interno del carcere erano e sono quasi inesistenti. Soprattutto non sono corsi professionali che mirano a un reinserimento lavorativo. Unico degno di nota è stato quello di informatica, che però potevano seguire in pochi visti gli spazi ristretti e i pochi terminali disponibili.
Per noi detenute c’era poi il grosso problema delle tinte e dei prodotti di cosmesi, che in spesa non erano acquistabili. In pratica era il cappellano che cercava di comprare il possibile e prima della messa consegnava le tinte e altro. Non si capisce il perché di questa privazione e perché non fosse possibile l’acquisto in spesa. Teniamo anche conto che per avere una tinta ci volevano anche più di due mesi e sicuramente anche quella era una privazione che aumentava il disagio già grande. Anche su questo, migliaia di richieste al direttore sempre rimaste inevase.
Anche la durata delle telefonate, comprese quelle skype o whatsapp, era ridotta rispetto ad altre carceri, e non si comprende il motivo.
Da ultimo, bisogna tenere presente che tante detenute avevano gravi problemi psichici ma erano in sezione insieme alle altre. Ogni settimana i tentativi più o meno seri di suicidio erano all’ordine del giorno. La tendenza dell’area medica era di dare a tutte terapia di calmanti e antidepressivi, così inducendo le detenute a dormire tutto il giorno e ovviando ai problemi gestionali presenti. Sicuramente persone che avevano bisogno di cure, terapie o interventi urgenti erano del tutto abbandonate e anche la collaborazione con l’ospedale non era funzionale. Una detenuta erano due anni che attendeva l’operazione per un tumore benigno al collo. Altre con esami importanti da fare non venivano chiamate.
Gli agenti di polizia sono invece una nota lieta nel nulla, nel senso che cercano di fare il possibile in una situazione inumana e di totale degrado.
Questa è la mia esperienza surreale in un carcere del nord Italia dove manca tutto, soprattutto il rispetto per la dignità di ogni essere umano e di noi donne in particolare.