“Papà portami a casa, fammi uscire di qua, non ce la faccio più. Aiutami… mi fanno morire qui dentro”
“Papà portami a casa, fammi uscire di qua, non ce la faccio più. Aiutami… mi fanno morire qui dentro” queste sono le parole di Antonio Raddi, pronunciate in un colloquio con i genitori nei primi giorni di dicembre del 2019.
Poche parole disperate che riassumono la storia di una vita spezzata a 28 anni, di un ragazzo detenuto presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino.
Si tratta dell’ennesimo racconto di una persona che è deceduta mentre era nelle mani dello Stato. La morte di Antonio, a differenza di molte altre è stata lenta, anzi lentissima ed è stata segnalata a più riprese alle autorità competenti. Purtroppo però il ragazzo era tossicodipendente e in un sistema detentivo troppo influenzato da rigidità e trascuratezza, questa condizione è stata la sua condanna.
Ci sono alcuni numeri che fanno impressione in questa storia. Innanzitutto il dato relativo al calo ponderale del suo peso e il numero di segnalazioni che sono state fatte alle autorità negli ultimi 6 mesi della sua vita.
Antonio veniva dalla periferia di Mirafiori Sud di Torino, ed era nato il 1 dicembre 1992; gli anni neri della droga del suo quartiere erano alle spalle e la tristemente nota via Artom era solo un ricordo. La zona è stata riqualificata, grazie ai risultati delle nuove politiche sociali e all’impegno dei cittadini; tuttavia, come spesso accade, si è pensato che il riscatto di un quartiere possa comportare anche la cancellazione delle sue criticità. Invece il problema della droga è ancora allarmante e Antonio come molti altri ragazzi ne è stato affascinato e poi ne è diventato dipendente. La sensazione di affrancamento dalla piaga della droga avvertita dalla cittadinanza è spesso legata a un dato visivo: il soggetto tossicodipendente è meno frequente nelle strade rispetto a un tempo, ma questo risultato è frutto anche dell’alto numero di persone tossicodipendenti ospitate nelle comunità residenziali e, spesso, in carcere.
E’ frequente che la tossicodipendenza porti a delinquere e questo è stato il percorso anche di Antonio, che ancora giovanissimo si è trovato ristretto nella casa circondariale di Ivrea. In quel luogo, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre del 2016, è stato testimone dei pestaggi per cui sono state avviate le indagini della Procura della Repubblica di Ivrea, poi avocate dalla Procura Generale di Torino, a causa dell’approssimazione nell’accertamento dei fatti. Infatti era collocato proprio nel braccio del carcere dove si sono verificati quegli atti di violenza inaudita da parte di alcuni agenti della polizia penitenziaria.
Tale evento, perpetrato da soggetti rappresentanti l’istituzione pubblica, ha avuto un impatto determinante nella psicologia di Antonio che per gli anni a venire ha rivissuto l’incubo di quella sera e il terrore di essere nuovamente ristretto a Ivrea.
Dopo un breve periodo detentivo, ha ottenuto l’affidamento in prova terapeutico ai servizi sociali presso una delle comunità Papa Giovanni XXIII.
In questa struttura riesce ad avviare un vero recupero e sembra riuscire a curare i primi accenni di un disagio piscologico, tra cui un principio di anoressia, che aveva somatizzato nei precedenti anni travagliati della sua vita.
In quello che appare un periodo positivo, ha inizio la tragedia di Antonio.
La sua fragilità torna a prendere il sopravvento e, a pochi mesi dalla fine della sua pena, decide di allontanarsi dalla comunità e tornare a casa dei genitori, violando in questo modo le prescrizioni imposte per la concessione della misura alternativa.
I genitori sono disperati. Sono ben consapevoli delle conseguenze penali del gesto avventato del figlio, ma comunque il padre decide di compiere un atto di fiducia nelle istituzioni e chiama le Forze dell’Ordine per denunciare Antonio. In quel momento c’è la consapevolezza di non essere in grado di gestire le criticità del figlio, ma soprattutto c’è la fiducia nello Stato. E’ un gesto d’amore di chi crede nel sistema giuridico italiano ed è convinto che sia la scelta migliore per la salute del figlio.
Una volta tornato nelle mani dello Stato, Antonio subisce subito la rigidità di un sistema che non è capace di interpretare le vicende della vita nella sua concretezza. La sanzione per la sua condotta è una condanna per evasione, con contestuale fallimento dell’affidamento in prova. Ciò significa una nuova sottoposizione al regime carcerario anche per quella parte di tempo che aveva già scontato fuori.
Entra nuovamente in carcere il 28 aprile 2019, questa volta a Torino. Nonostante l’impatto psicologico tipico del rientro in istituto, amplificato dai terribili ricordi dell’esperienza eporediese, Antonio prova a ripartire e pensare a quando la condanna sarà ormai estinta, ben consapevole che non potrà più accedere a misure alternative alla detenzione a causa dell’allontanamento dalla comunità. Il tempo in carcere è provvisorio e tutte le persone detenute hanno la consapevolezza che prima o poi usciranno, un concetto che chi guarda dall’esterno troppo spesso dimentica.
Viene ristretto presso la sezione undicesima del padiglione C, dedicata alle persone tossicodipendenti, dove viene sottoposto a un trattamento con metadone a mantenimento. A dimostrazione della sua volontà di cambiamento decide di fare domanda per le case popolari e, in questo frangente, entra in contatto con l’Ufficio della Garante delle persone private della libertà di Torino, competente ad assistere le persone detenute nella presentazione della domanda. A questi operatori appare sorridente e speranzoso rispetto al futuro, nonostante le poche possibilità di ottenere l’alloggio che gli vengono prospettate.
Nel periodo successivo, Antonio inizia ad avvertire un forte disagio circa la permanenza in sezione, subisce una misura restrittiva abnorme che consiste nella chiusura del blindo per 15 giorni a causa di un sospetto caso di scabbia o di tubercolosi, con il quale era entrato in contatto. L’isolamento viene perpetrato senza averlo fornito di un cuscino, senza avere il necessario per lavarsi e cambiarsi, e in assenza dell’unico conforto che si ha in questi casi: il televisore.
Nel comportamento di Antonio si incominciano a intravedere i segni di un calo di lucidità psicologica, che appare evidente a causa del dimagrimento che ne consegue. Tornano alla luce gli incubi della detenzione ad Ivrea, e sviluppa una nuova ossessione di essere nuovamente assegnato in quel carcere e di dover patire le conseguenze di quello che aveva visto.
Nel comportamento di Antonio si incominciano a intravedere i segni di un calo di lucidità psicologica, che appare evidente a causa del dimagrimento che ne consegue. Tornano alla luce gli incubi della detenzione ad Ivrea, e sviluppa una nuova ossessione di essere nuovamente assegnato in quel carcere e di dover patire le conseguenze di quello che aveva visto.
Il giovane è sempre più sofferente e già a luglio inizia a manifestare i sintomi di una costante inappetenza che gli causa svenimenti.
Avvia tramite un servizio esterno la procedura per la richiesta di invalidità civile, a conseguenza della quale viene visitato da parte dei medici della struttura penitenziaria, senza che la sua condizione di salute desti allarme rispetto alla compatibilità con il carcere.
Il 7 agosto 2019 viene inviata da parte dell’Ufficio della Garante la prima segnalazione alla Direzione Sanitaria dell’Istituto Penitenziario di Torino per chiedere un riscontro rispetto alla salute di Antonio; tuttavia la risposta da’ atto che non si ravvisa alcuna criticità rispetto allo stato di salute del ragazzo.
I genitori iniziano a incontrare con più frequenza il figlio nei colloqui in carcere e iniziano a scrivere alle autorità poste a tutela della sua salute psico-fisica: il direttore e il magistrato di sorveglianza. Antonio sta tornando in una voragine di disagio psichico che lo sta mangiando settimana dopo settimana. Nel padre di Antonio incomincia a instillarsi il dubbio che aver denunciato suo figlio non sia stata una scelta per il suo bene.
Il dimagrimento continua e Antonio incomincia a indossare indumenti per sembrare più grosso, avendo paura che qualcuno sospettasse una sua sieropositività. Lui non ha mai fatto sciopero della fame, questo risulta sia dai registri interni alla struttura, sia dal fatto che non è mai stato pesato quotidianamente come prevede il protocollo in questi casi. Se il suo calo ponderale si fosse consumato all’esterno della struttura si sarebbe definito sintomo di anoressia, invece all’interno la sua inappetenza era giudicata un comportamento strumentale tipico di soggetti tossicodipendenti.
A inizio ottobre, l’Ufficio della Garante segnala il ragazzo per la necessità di un supporto psicologico esterno, ma ancora una volta la risposta è negativa: Antonio è già seguito e non bisogna rischiare di sovrapporre interventi psicologici. Ad oggi nel “Lorusso e Cutugno” il numero settimanale complessivo di ore di presenza degli psicologi è di 371 per circa 1400 persone ristrette, un’equazione semplice che fa comprendere quanto questo supporto interno non sia sufficiente per una persona fragile.
Per tutti questi mesi i genitori, partecipando ai colloqui di gruppo organizzati dal SerD coi genitori di ragazzi tossicodipendenti, avevano sempre sentito dire che le pretese di Antonio fossero solo strumentali a ottenere dei benefici. Ciononostante, nel mese di novembre, anche la referente del SerD interno si accorge che la situazione del ragazzo è drammatica e inizia a inoltrare alcune segnalazione alle autorità per denunciare la situazione.
Ormai il ragazzo si muove solo in sedia a rotelle, il sorriso è scomparso, il suo stato psicologico è tragico: lui stesso sostiene di nutrirsi solo a caffè e sigarette e di dover chiedere aiuto al compagno di cella per accenderle, non avendo più le forze nemmeno per far questo gesto quotidiano.
L’Ufficio della Garante compie una nuova segnalazione il 20 novembre. La Direzione sanitaria dell’istituto, nonostante continui a sostenere che il suo comportamento sia solo strumentale, programma un ricovero presso l’ospedale Molinette, nel reparto dedicato alle persone detenute, conosciuto come il Repartino.
Apparentemente il motivo della non immediatezza del ricovero è legato all’assenza di posto, ma, come si scoprirà in seguito, in quei giorni ci sono letti liberi.
Apparentemente il motivo della non immediatezza del ricovero è legato all’assenza di posto, ma, come si scoprirà in seguito, in quei giorni ci sono letti liberi.
Anche gli altri detenuti presso la sezione di Antonio iniziano una protesta che durerà per giorni e che ha l’obiettivo di farlo ricoverare.
Ancora una volta la Garante muove le sue preoccupazioni in un colloquio in presenza con il direttore che però dimostra di non essere sufficientemente informato sulla situazione.
Il SerD il 3 dicembre sollecita nuovamente un intervento, Antonio ha appena compiuto 28 anni.
Il giorno successivo la Garante effettua un nuovo incontro personale con il ragazzo, che ormai ha difficoltà anche ad esprimersi. Implora che qualcuno intervenga, accusa continui svenimenti, la faccia talmente scavata che si vedono tutte le ossa del cranio, non riesce più a ingoiare nulla, ha le labbra completamente aride e violacee, dice che la sua difficoltà a parlare è dovuta alla massiccia assunzione di Valium.
Lo stesso giorno la sua funzionaria giuridico-pedagogica afferma che il detenuto ha le stesse sembianze delle foto di Stefano Cucchi, e che anche lei ha sollecitato numerose volte un intervento alle autorità competenti. Segue un nuovo incontro al direttore e un’altra richiesta a effettuare una nuova valutazione clinica in vista di un urgente ricovero. In questa occasione, tra i destinatari vengono inseriti anche la responsabile dei detenuti e trattamento del Prap, l’Ufficio del Garante Nazionale per i diritti delle persone private della libertà e il magistrato di Sorveglianza.
Alcuni giorni più tardi si viene a sapere che vi è stato effettivamente un ricovero, ma durato poche ore con l’immediata dimissione del paziente. In quell’occasione viste le condizioni di arrivo in ospedale e la sua storia clinica si sospetta un’overdose di eroina consumata all’interno del carcere e viene effettuata una puntura di Narcan, con l’obiettivo di neutralizzare gli effetti degli oppioidi. Le analisi successive dimostreranno che non vi era traccia di alcuna droga ad eccezione del metadone che assumeva regolarmente. Infatti nell’ultimo periodo il SerD aveva raddoppiato il dosaggio di metadone rispetto al suo ingresso in istituto nella primavera dello stesso anno.
Il 10 dicembre, Antonio Raddi viene nuovamente ricoverato d’urgenza all’ospedale Maria Vittoria perché ha perso i sensi. Lì, però, rimane per poche ore. Nessun medico ha avuto la serietà professionale, nè lo scrupolo morale, di considerarlo un caso grave da tenere sotto controllo. Quello stesso giorno, Antonio è stato condotto al repartino di psichiatria dove, secondo le dichiarazioni sbrigative delle autorità penitenziarie, non è voluto rimanere, rifiutando il ricovero. In nessuna di quelle dichiarazioni, però, è stata esposta la motivazione alla base di quella scelta: la salute mentale. Un tema ancora considerato tabù, trascurato e facile preda di un vortice distruttivo di disinteresse e violazione sistemica dei diritti fondamentali della persona.
Il giorno successivo spiega al padre che non ha accettato l’ospedalizzazione perchè era in uno stato di forte ansia e depressione. L’idea di rimanere chiuso in una camera con le telecamere sul letto, senza riuscire a ingerire nulla, se non del caffè, non era di certo uno scenario rasserenante. Quando si ha il coltello dalla parte del manico, però, è facile rigirare i fatti per mostrarne solo una pericolosa parzialità e fornire giustificazioni per celare la violenza di un sistema oppressivo come quello carcerario italiano, all’interno del quale la salute fisica e psicologica dell’individuo non trovano la doverosa tutela.
Nei giorni successivi si verifica anche una visita di un componente del collegio del Garante Nazionale per le persone recluse, che dopo un breve colloquio constata ancora una volta le condizioni di salute non più accettabili e a sua volta fa pressione sul Direttore per un nuovo ricovero.
Il 13 dicembre Antonio ha l’ennesima crisi, vomita sangue nel bagno della sua cella, perde il controllo delle sue funzioni fisiologiche e sviene. Solo in serata viene portato all’ospedale più vicino al carcere in condizioni pessime. Entra in un coma farmacologico irreversibile. Per i medici sin dall’inizio non ci sono più speranze per la sua sopravvivenza, in quanto gli organi vitali sono quasi tutti compromessi e una semplice infezione ha fatto breccia nel suo debole sistema immunitario compromettendolo in maniera definitiva.
I genitori sono disperati, il padre si sente responsabile di quanto è successo e continua a ripetersi che avrebbe potuto evitare questa tragedia. Rimangono al suo capezzale, vedendo il figlio spegnersi con gli agenti della Polizia Penitenziaria a piantonare il letto di un uomo morente.
I genitori sono disperati, il padre si sente responsabile di quanto è successo e continua a ripetersi che avrebbe potuto evitare questa tragedia. Rimangono al suo capezzale, vedendo il figlio spegnersi con gli agenti della Polizia Penitenziaria a piantonare il letto di un uomo morente.
Nel pomeriggio giunge anche il deferimento della pena da parte del magistrato di Sorveglianza, che finalmente assume la consapevolezza della gravità della situazione. Antonio è un uomo libero attaccato a una macchina che lo mantiene in vita, privo di coscienza, in una situazione di salute gravissima e ben differente da quella con cui era entrato in istituto.
Quello che prima era stato considerato un pretesto e poi trattato con sufficienza, si tramuta nella causa della sua morte che si verificherà alcune settimane dopo, il 30 dicembre 2019.
L’Ufficio della Garante annovera oltre 12 segnalazioni effettuate all’autorità competente, senza contare quelle inviate da altre istituzioni e dalla famiglia, e, nell’adempimento del proprio dovere di ufficio la Garante, assieme all’avvocato di Antonio trasmette la propria documentazione alla Procura della Repubblica di Torino.
Le richieste sono sempre rimaste inascoltate perchè Raddi ha sempre scontato lo stereotipo comune del tossicodipendente che ricerca pretesti per ottenere benefici previsti dall’ordinamento, stereotipo espresso chiaramente nei rari casi in cui le richieste hanno ottenuto risposta.
La Procura di Torino apre un procedimento penale con un’ipotesi di omicidio colposo e viene disposta una prima consulenza tecnica, che giunge però a conclusioni affrettate. In maniera sbrigativa, si indica come l’evento morte si sia verificato a causa di un’infezione che ha agito su un organismo compromesso, senza che si possano rimproverare degli inadempimenti da parte dei responsabili sanitari. Nulla viene detto in merito ai motivi che hanno portato il corpo di Antonio a essere tanto debole.
Nei mesi successivi il Pubblico Ministero chiede un nuovo incidente probatorio, ma il Giudice non autorizza a procedere e respinge l’istanza.
La Procura effettua una nuova consulenza che finalmente giunge a delle conclusioni significative. Tra i quesiti posti dal PM si chiedeva se la risposta trattamentale al calo progressivo e ponderale del peso del soggetto sia stata adeguata alle buone pratiche rispetto a un soggetto affetto da anoressia. E’ la prima volta che si usa questo termine in un documento ufficiale e finalmente si afferma che il deperimento organico è stato causato da questo calo di peso, con maggior rischio infettivo.
Secondo tale analisi tecnica il calo era già allarmante nel mese di agosto, ma non per la stessa struttura restrittiva che aveva obbligo giuridico di salvaguardare la vita di Antonio, che ha disposto per la prima volta un ricovero a dicembre inoltrato.
Dopo una prima caparbia volontà di comprendere la verità sul fatto, il Pubblico Ministero ha deciso di richiedere l’archiviazione, in quanto, si legge nella richiesta, che l’elemento determinante per la morte è stato il rifiuto di ospedalizzazione da parte di Antonio. La verità però è che lui non ha mai rifiutato le proposte trattamentali, anzi ha sempre chiesto un intervento sanitario a causa della sua difficoltà a stare in piedi. All’ingresso in ospedale è stato trattato come un normale detenuto che in una cella dove deve essere trattenuto, ma non c’è stata alcuna valutazione del suo stato psicologico determinante nella scelta di rifiutare il ricovero.
Il 30 dicembre del 2019, è stato certificato l’ennesimo fallimento dell’istituzione carceraria e di quello che dovrebbe essere uno dei compiti primari, tutelare la salute delle persone ristrette.
E ancora come mai il 10 dicembre nessun medico del pronto soccorso è stato in grado di comprendere che le condizioni di vita del Raddi erano compromesse a causa della mancanza di funzionalità di numerosi organi, né dell’estrema debilitazione del suo sistema vitale verificatasi in un arco di numerosi mesi?
Come mai nessuno ha ritenuto allarmante il fatto che sia entrato in carcere a Torino verso maggio che pesava circa 90 kg, per quasi 1,90 m di altezza, ed è venuto a mancare che pesava meno di 50 kg e si muoveva solo più in sedia a rotelle.
La morte di Antonio lega indissolubilmente la vicenda personale alla vicenda politica e sociale e svela il fallimento dello Stato nel tutelare chi è sotto la sua responsabilità.
La morte di Antonio lega indissolubilmente la vicenda personale alla vicenda politica e sociale e svela il fallimento dello Stato nel tutelare chi è sotto la sua responsabilità.
Il suo dolore, invece, è stato ignorato da chi avrebbe dovuto prendersene cura. Quel corpo, indebolito dalla trascuratezza estrema a cui era stato abbandonato, è stato vittima del pregiudizio di chi ha visto nella sua perdita di peso una “strategia di fuga” e non una richiesta d’aiuto.
La famiglia tramite i propri legali ha fatto opposizione all’archiviazione e ad oggi si attende la fissazione dell’udienza di discussione in merito alla richiesta.
La giustizia non può fallire. Lo Stato lo deve alla famiglia di Antonio e a quel padre che ha deciso di fidarsi dello Stato per tutelare la salute del figlio, e ora, davanti al suo fallimento, chiede allo stesso Stato di fare luce e giustizia.
Non si può accettare che la vicenda di Antonio accada, non si può accettare che si ripeta.