La Casa di lavoro di Alba appare come una classica istituzione di scarico volta a contenere quell’umanità in eccesso ritenuta inaffidabile in ogni contesto, anche in carcere. Soggetti di cui tutti i servizi pubblici, ma anche (spesso) le famiglie di appartenenza, hanno cessato di occuparsi, e per la quale un cubo di cemento appare come uno dei tanti luoghi di un continuo processo di istituzionalizzazione privo di ogni finalità terapeutico/risocializzativa.
La premessa è che chi scrive ha avuto sempre molti dubbi sulla legittimità del sistema delle misure di sicurezza personali all’interno di una cornice dove lo Stato di diritto voglia fondarsi su principi garantisti, strettamente legati ad una concezione del diritto penale del fatto. Ancor di più, la dimensione della Casa di lavoro ci è sempre apparsa come anacronistica, figlia di un’idea del lavoro di matrice autoritaria/disciplinare, ben poco compatibile con le migliori pratiche di reinserimento sociale fondate sulla dimensione lavorativa.
La visita alla Casa di lavoro di Alba, effettuata il 4 aprile 2022, cancella tuttavia dall’orizzonte ogni riflessione teorica sui fini e legittimità delle misure di sicurezza per offrire un quadro caratterizzato da uno spietato non-senso. Nel concreto, la Casa di lavoro di Alba è un cubo di cemento, circondato da un muro divisorio che lo isola dal resto della struttura, all’interno del quale è collocata un’umanità composta da individui con problematiche di svariato tipo, spesso legate a forme di evidente disagio psichico e/o dipendenze, con la comune caratteristica di una carriera deviante tendenzialmente consolidata, da cui è scaturita in sede processuale la dichiarazione di pericolosità sociale e quindi l’applicazione della misura di sicurezza dopo l’espiazione della pena.
Il fatto è che in quel luogo, al momento della visita, non abbiamo riscontrato la benché minima forma di lavoro. Gli internati erano rinchiusi all’interno di due piani detentivi in un contesto atomizzante dove le persone occupano i corridoi delle sezioni esprimendo le più svariate forme di disagio, che ovviamente la permanenza in quel luogo non può che acuire.
La Casa di lavoro, si diceva, è separata dal resto della struttura – una Casa circondariale oramai da lungo tempo pressoché inutilizzata a causa di un’epidemia di legionella – grazie ad un muro divisorio, in quanto in passato la sezione era riservata a detenuti collaboratori di giustizia, separati dal resto della popolazione detenuta. Lo spazio tra la struttura e il muro è davvero minimo, incompatibile con ogni attività lavorativa esterna. Ma anche all’interno gli spazi sono pressoché inesistenti, ad eccezione di alcune aule scolastiche presenti al secondo piano e chiuse al momento della visita. Ecco che allora l’amministrazione penitenziaria si è ingegnata nel collocare due strutture fra l’ingresso della Casa di lavoro e il muro che la separa dal resto dell’istituto. Si tratta di fatto di container dove tra qualche mese dovrebbero essere realizzate delle attività, seppur sia facilmente immaginabile come la temperatura estiva renderà pressoché impossibile svolgere qualsiasi attività all’interno di quei piccoli locali.
Il territorio offrirebbe poi delle opportunità lavorative, grazie soprattutto alla presenza di terreni agricoli esterni. Peccato però che l’inaffidabilità delle persone internate renda impossibile ogni attività che implichi l’utilizzo di pale, mazze o oggetti appuntiti, ben sintetizzata dall’espressione di una delle figure professionali intervistate durante la visita la quale, di fronte ad una nostra richiesta, ci ha detto: “Ma lei la darebbe una mazza a questi?”.
Ed effettivamente è vero. La Casa di lavoro di Alba appare come una classica istituzione di scarico volta a contenere quell’umanità in eccesso ritenuta inaffidabile in ogni contesto, anche in carcere. Soggetti di cui tutti i servizi pubblici, ma anche (spesso) le famiglie di appartenenza, hanno cessato di occuparsi, e per la quale un cubo di cemento appare come uno dei tanti luoghi di un continuo processo di istituzionalizzazione privo di ogni finalità terapeutico/risocializzativa. A testimonianza di tale “abbandono” da parte della comunità esterna, si pensi che l’istituto non dispone di un servizio di guardia medica h. 24 e che quindi tutti gli eventi critici che si verificano dopo le 20 debbono necessariamente richiedere l’invio in ospedale o la gestione interna sino al mattino quando arriverà un medico. Inoltre, in questa struttura, pur in presenza di un evidente problema legato ad un disagio psichico diffuso, lo psichiatra è presente una sola volta a settimana, a turnazione fra gli psichiatri dipendenti dal servizio sanitario locale.
Un luogo, quindi, che non può che contribuire a peggiorare le problematiche di cui i soggetti ivi internati sono portatori, che siano collegate alle dipendenze, al disagio psichico, o alla carriera criminale. Questo, si badi bene, a prescindere dalla buona volontà degli operatori della struttura. Durante la nostra visita abbiamo incontrato ufficiali e agenti di polizia penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici, una direttrice, un medico e una psicologa che evidentemente stanno cercando di fare del proprio meglio per limitare il danno e, crediamo, dare un senso alla loro professione.
Al contrario, il problema è strutturale. È diabolico aver pensato ad un luogo come quel cubo di cemento per istituire una Casa di lavoro ed è altrettanto diabolico mantenerla in piedi, a prescindere da ogni sforzo organizzativo dei singoli operatori. La visita ad un luogo come la Casa di lavoro di Alba non può non interrogare sul senso di una giustizia che rinchiude soggetti fortemente problematici, all’interno di una cornice che ricorda le esperienze manicomiali, senza una reale prospettiva e senza un futuro.
Coloro che in questi mesi si stanno giustamente prodigando per una riforma del sistema della giustizia penale, dovrebbero probabilmente visitare la Casa di lavoro di Alba, crediamo anche per comprendere pienamente il senso profondo di un intervento che non potrà che essere radicale.