Nel 2020 sono stati applicati 118 nuovi decreti di disposizione del “carcere duro” a cui si aggiungono 20 riapplicazione di persone che sono tornate in quel regime, un calo consistente rispetto al 2019, quando i nuovi decreti erano stati 161. Tale calo viene però compensato dalle proroghe, che sono state 610 (erano state 552 nel 2019).
Al novembre 2021, le persone al 41 bis sono 749 (13 donne). Per avere dati di maggior dettaglio occorre analizzare i dati della Relazione annuale del Ministero sull’amministrazione della Giustizia, aggiornati al novembre 2020, quando le persone al 41bis erano 748 (731 uomini e 13 donne, a cui si aggiungono 4 internati, tutti uomini), distribuite in 12 istituti penitenziari della Penisola, con una sola sezione femminile e una casa di lavoro per persone in misura di sicurezza.
Si tratta di numeri in linea con quelli dell’anno precedente (2019), quando si contavano 747 persone (735 uomini e 12 donne).
Il regime penitenziario speciale del carcere duro è oggi diventato uno strumento ineludibile (ed indiscutibile) della “guerra alla mafia”. La difficoltà maggiore è quella di districarsi tra funzioni manifeste e latenti di questo regime detentivo. La sua introduzione è avvenuta con d.l n. 306/1992, a cavallo delle stragi mafiose del 1992, diventando presto uno degli strumenti normativi più utilizzati per il contrasto alla criminalità organizzata. Rimasto una misura “emergenziale”, solo con la l. 279/2002 è diventato cardine del sistema a tempo indeterminato (e nel 2009, con la l. 94/2009 è stato adeguato ad alcuni rischi di incostituzionalità, data l’incoerenza con il principio rieducativo della pena).
Il “carcere duro” consiste in un catalogo di limitazioni volte a ridurre la frequenza dei contatti con l’esterno degli esponenti di vertice delle organizzazioni criminali, per evitare che, dal carcere, continuino a comandare. Si tratta dunque di uno strumento preventivo (ed infatti è applicato indistintamente a persone condannate o in attesa di giudizio), che mira a “isolare” la persona dal resto dell’organizzazione criminale, ma vista la rigidità del suo contenuto è evidente che assuma anche un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà. Un regime detentivo che si definisce “duro” , non può non evocare l’idea di un sistema intransigente che mira a “far crollare” (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia, principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata” (cfr. sent. Corte Cost., n. 273/2001). Proprio l’effettiva “collaborazione” fa venir meno l’applicazione di questo regime.
L’assegnazione dei detenuti 41-bis all’interno dei reparti avviene tenendo in considerazione l’area geografica di operatività dell’organizzazione di appartenenza, le esigenze sanitarie nonché eventuali divieti d’incontro o incompatibilità segnalati dall’Autorità giudiziaria.
I detenuti al 41 bis sono obbligatoriamente in cella singola, senza eccezioni. Sono due al giorno le ore di socialità in gruppi composti da massimo quattro persone. La legge stabilisce che i detenuti al 41-bis possano effettuare un colloquio al mese dietro a vetro divisorio (tranne che per i minori di 12 anni) della durata di un’ora (sei i colloqui mensili per i detenuti “comuni”, senza barriere divisorie) e videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria (e, su ordine dell’Autorità giudiziarie, anche eventualmente “ascoltato” dallo stesso agente). Nel caso in cui i detenuti non effettuino il colloquio visivo mensile, possono essere autorizzati, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a svolgere un colloquio telefonico con i familiari, che devono recarsi presso l’istituto penitenziario più vicino al luogo di residenza al fine di consentire l’esatta identificazione degli interlocutori. La partecipazione alle udienze è esclusivamente “da remoto” in videoconferenza.
Chi decide chi deve stare al 41 bis? La decisione avviene con decreto motivato del ministero della Giustizia – anche su impulso del Ministero dell’Interno – di norma su proposta del pubblico ministero incaricato delle indagini e sentita la Direzione nazionale Antimafia e le forze di polizia.
Devono sussistere due presupposti: l’uno “oggettivo”, cioè la commissione di uno dei delitti “di mafia” previsto dall’art. 4 bis c. 1 ord. pen., l’altro “soggettivo”, occorre infatti dimostrare la presenza di “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva”. L’applicazione del regime dura 4 anni e può essere prorogata se ne sussistono ancora i presupposti (in particolare quello “soggettivo” della la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva di appartenenza).
Contro decreto ministeriale di applicazione o di proroga si può proporre reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Roma, anche se questo “accentramento” delle decisione al solo giudice romano, è stato oggetto di critica anche da più parti, compresi gli degli Stati generali dell’Esecuzione penale.
Nel 2020 sono stati applicati 118 nuovi decreti di disposizione del “carcere duro” a cui si aggiungono 20 riapplicazione di persone che sono tornate in quel regime, un calo consistente rispetto al 2019, quando i nuovi decreti erano stati 161. Tale calo viene però compensato dalle proroghe, che sono state 610 (erano state 552 nel 2019).
Le persone al 41bis, in ragione della gravità dei reati commessi scontano pene lunghe, 298 sono condannati all’ergastolo, di cui 209 con sentenza definitiva, su un totale di persone con ergastolo di poco meno di 1.800 persone. Nel 2019 gli ergastolani al 41bis erano 284.
Anche all’interno delle sezioni speciali di “carcere duro” esistono ulteriori distinzioni per livello di pericolosità, le figure di spicco delle mafie vengono collocati infatti in 14 c.d “aree riservate” collocate in 7 istituti, non previste dalla normativa, ma frutto di prassi organizzative consolidate, dove l’isolamento è accentuato.
Al novembre 2021 le persone detenute nei circuiti di Alta Sicurezza erano 9.212, il gruppo largamente più cospicuo è l’Alta sicurezza 3 che comprende oltre 9 mila detenuti (8.796 uomini e 218 donne), suddivisi in 55 istituti penitenziari dislocati sull’intera penisola. Sono 82 (di cui 8 donne) nel circuito di Alta Sicurezza 2, 43 (2 donne) accusate o condannate per terrorismo internazionale di matrice islamica (erano 84 nel 2020) e 25 persone (6 donne) per terrorismo interno o nazionale.
Alta sicurezza
Se nel caso del 41 bis si può parlare, correttamente, di “boss”, intesi come figure apicali di organizzazioni mafiose o terroristiche, poiché la collocazione in quel regime consegue a specifica valutazione della magistratura e delle forze di polizia sull’effettiva e attuale appartenenza all’organizzazione criminale.
Più problematica è la situazione delle persone in Alta sicurezza. L’Alta sicurezza non è infatti un “regime detentivo”, bensì un “circuito” regolato non dalla legge, ma da una serie di circolari dell’Amministrazione penitenziaria.
Per essere considerati detenuti ad “alta pericolosità” rileva il solo reato commesso per cui si è condannati o accusati. Se è uno dei reati previsti nel (sempre più lungo) elenco di cui all’art 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, allora si entra automaticamente in questo circuito. C’è in effetti una remota possibilità che la collocazione avvenga per decisione dell’Amministrazione penitenziaria, ma si tratta di casi residuali. I circuiti di Alta sicurezza, regolati dalla già citata circolare dell’Amministrazione penitenziaria del 2009, sono suddivisi in tre livelli (Alta sicurezza 1, 2 e 3).
L’AS1 è dedicato alle persone detenute detenute ed internate nei cui confronti sia stato dichiarato inefficace il decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis o.p. (i c.d. declassificati); l’AS2 è invece pensat per detenuti accusati i condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento diatti di violenza. L’AS3 è invece dedicato ai detenuti per delitti di cui agli art. 416 bis c.p (associazione di stampo mafiosi, ma senza ruoli apicali) o reati connessi all’organizzazione per lo spaccio di stupefacenti.
Al novembre 2021 le persone detenute nei circuiti di Alta Sicurezza erano 9.212, il gruppo largamente più cospicuo è l’Alta sicurezza 3 che comprende oltre 9 mila detenuti (8.796 uomini e 218 donne), suddivisi in 55 istituti penitenziari dislocati sull’intera penisola. Sono 82 (di cui 8 donne) nel circuito di Alta Sicurezza 2, 43 (2 donne) accusate o condannate per terrorismo internazionale di matrice islamica (erano 84 nel 2020) e 25 persone (6 donne) per terrorismo interno o nazionale. Sono rimaste soltanto due (Rossano e Sassari) le sezioni maschili destinate all’As2, mentre a Roma-Rebibbia vi è l’unica sezione femminile.