Michele Miravalle
1)I dati e le informazioni qui riportate fanno parte di una ricerca più ampia curata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e dalla Regione Campania. La ricerca ha utilizzato le informazioni caricate dagli operatori sul sistema SMOP- Sistema informativo per il Monitoraggio del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il gruppo di ricerca è formato da: Perla Arianna Allegri, Michele Miravalle, Karma Natali, Marco Pelissero, Daniela Ronco, Laura Scomparin e Giovanni Torrente.
Salute mentale e Rems: a che punto siamo. Difendere la riforma, guardando oltre
L’attenzione deve conseguentemente rivolgersi non già alla produzione bensì all’esecuzione delle norme e alla loro implementazione. Si tratta di una fase che ha come protagonisti sia l’attività interpretativa dei giudici e sia le pratiche degli operatori.
Con le ispezioni della Commissione parlamentare d’inchiesta per l’Efficacia e l’Efficienza del Servizio Sanitario nazionale del 2012, il percorso di “superamento” degli Ospedali psichiatrici giudiziari ha subito un’accelerazione che ha portato – non senza tentennamenti – all’uscita delle ultime due persone internate dall’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto nei primi giorni di maggio del 2017, chiudendo così una storia secolare.
Sono infatti trascorsi più 140 anni da quando ad Aversa, nella casa penale per invalidi ospitata nel convento cinquecentesco di San Francesco da Paola, nasceva la prima “sezione per maniaci”, che poteva ospitare fino a diciannove persone. Vi erano rinchiusi i “delinquenti impazziti, che rappresentano scene di terrore e che portano scompiglio”, così li descrive Filippo Saporito, psichiatra e storico direttore del manicomio di Aversa. Erano pazzi e criminali allo stesso tempo, troppo pazzi per stare in un carcere, troppo criminali per un manicomio civile. Erano (e sono?) la rappresentazione dello stigma (anzi del doppio stigma, quello del deviante e quello del malato di mente) che spaventava (e spaventa?) la società perbene.
In termini generali dunque, ci troviamo oggi in una fase di “stabilità” normativa.
Salvo alcune lacune e punti oscuri che non mancheremo di sottolineare nelle prossime righe, all’orizzonte non si vedono infatti stravolgimenti del quadro legislativo: il tema della cura/controllo dei pazienti psichiatrici autori di reato non sembra tra le priorità dell’agenda legislativa, essendo stata raggiunta una sorta di “pacificazione” tra istanze contrapposte, che ha nella l. 81/2014 la sua sintesi più significativa.
L’attenzione deve conseguentemente rivolgersi non già alla produzione bensì all’esecuzione delle norme e alla loro implementazione. Si tratta di una fase che ha come protagonisti sia l’attività interpretativa dei giudici e sia le pratiche degli operatori.
Questo sì, è terreno di conflitto e scontro tra visioni inconciliabili. Riconducibili, ancora una volta, a quelle di cura e riabilitazione socio-sanitaria da un lato e quelle di neutralizzazione e difesa sociale dall’altro. Uno scontro che si dipana anche sul piano semantico, con gli operatori della salute mentale che utilizzano il vocabolario proprio della scienza medica e gli operatori del diritto che devono riferirsi a categorie giuridiche ancora attuali quali la pericolosità sociale e la non imputabilità per vizio di mente.
Proprio in queste opposte visioni, si organizza la quotidianità professionale degli operatori: spesso conflittuale, a volte reciprocamente indifferente, raramente cooperativa. Ma su questo avremo modo di soffermarci ancora.
Come spesso accade, la “chiusura” definitiva degli Opg e l’entrata in vigore della l. 81/2014 – oggi caposaldo dell’intero impianto normativo – ha reso sfuocate le attenzioni della politica, dei media e dell’opinione pubblica. Proprio tale attenzione aveva avuto un ruolo fondamentale – anzi, decisivo – nel processo di riforma. Forse, senza la forza di quelle immagini shock girate dalla già citata Commissione d’inchiesta parlamentare, commentate dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano come «estremo orrore che umilia l’Italia rispetto al resto d’Europa, (…) indegno di un Paese che voglia definirsi civile», mandate in onda in prima serata sulla tv pubblica il 20 marzo 2011, il processo riformatore non avrebbe avuto lo stesso esito e la medesima scansione temporale.
Proviamo a sistematizzare in dieci punti i “nodi cruciali”. Tracciamo un decalogo, pensato con spirito critico ma costruttivo, tenendo lo sguardo aperto all’orizzonte.
Al 30 novembre 2020 nelle 31 REMS vi erano 551 persone ricoverate. Si tratta del dato più basso della storia delle misure di sicurezza detentive dal Dopoguerra ad oggi
1. De-istituzionalizzazione o neo-istituzionalizzazione
Occorre anzitutto discutere se il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari può essere descritto come un (raro) processo di de-istituzionalizzazione nel campo dell’esecuzione penale oppure se, al contrario, siamo di fronte ad una “truffa delle etichette”, che ha sostituito gli Opg con istituzioni totali come le Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) diverse nel nome, ma del tutto assimilabili sul piano ontologico.
Se ci trovassimo di fronte ad un caso di de-istituzionalizzazione, sarebbe una vera novità nel panorama degli strumenti controllo sociale e penale della società contemporanea.
Il “bisogno” di istituzioni totali capaci di “contenere” o rispondere ai bisogni sociali è infatti crescente. Si pensi al tema del governo delle migrazioni e alla nascita delle “nuove” istituzioni totali che, utilizzando gli strumenti del diritto amministrativo, segregano i migranti irregolari in attesa di espulsione dal Paese. Oppure alla questione del governo dell’invecchiamento demografico, dove le residenze per anziani hanno progressivamente sostituito il ruolo della famiglia nell’accudimento degli anziani.
Insomma sono forse i folli-rei l’unica ‘categoria’ nei cui confronti si è fatta una scelta in controtendenza?
Solo apparentemente si tratta di una discussione teorica che poco interessa ai “pratici”, cioè ai diversi operatori della giustizia e della salute mentale che si trovano quotidianamente a operare con i pazienti psichiatrici autori di reato.
Dai punti fermi della l. 81/2014 sul piano dell’organizzazione delle Rems, già contenuti nel Decreto Ministeriale del Ministro della Salute 1° ottobre 2012 – a cui facciamo risalire l’inizio della dismissione degli Opg, si evince, da parte del decisore una volontà di attenuare gli aspetti custodiali delle misure di sicurezza e ti tracciare una discontinuità tra vecchi Opg e nuove Rems. Si prevede infatti:
- l’esclusiva gestione sanitaria delle Rems, affidate esclusivamente alla sanità pubblica regionale, senza alcun potere decisionale o organizzativo del Ministero della Giustizia;
- le ridotte dimensioni per evitare l’ “effetto-manicomio”: la capienza massima di ogni Rems non deve superiore ai 20 posti. Una dimensione assimilabile a quella delle comunità terapeutiche, ma superiore a quella dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) ospedalieri;
- la capillare diffusione sul territorio, per implementare il principio della “territorialità” della sanzione penale e favorire i contatti con il territorio esterno;
- l’assimilazione agli standard ospedalieri per quanto riguarda le attrezzature necessarie allo svolgimento delle attività sanitarie e quelle necessarie a garantire la sicurezza del paziente e della struttura, nonché le dotazioni minime di personale sanitario e infermieristico per il funzionamento della struttura;
- l’obbligo, per le Regioni, di adottare un piano di formazione del personale delle strutture sanitarie residenziali volto ad acquisire e a mantenere competenze cliniche, medico legali e giuridiche (con particolare attenzione ai rapporti con la Magistratura di sorveglianza), specifiche per la gestione dei soggetti affetti da disturbo mentale autori di reato.
- che la sola attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna non costituisce competenza del Servizio sanitario nazionale né dell’Amministrazione penitenziaria, bensì affidata alle Regioni e le Province autonome, attraverso specifici accordi con le Prefetture, che tengano conto dell’aspetto logistico delle strutture, al fine di garantire adeguati standard di sicurezza. Al tema sicurezza si ricollega anche l’assenza di personale di polizia penitenziaria all’interno della struttura, presente invece nei “vecchi” Opg.
Ognuna di queste previsioni rafforza l’idea che quello dell’istituzione delle Rems sia stato – almeno sulla carta – un percorso di de-istituzionalizzazione. Ciò non significa, che, sul piano micro della singola Rems, si possano riprodurre in taluni casi quelle dinamiche tipiche dell’istituzione totale, che portano ad una violenta compressione delle principali sfere di vita dell’uomo, lo spazio, il tempo, le relazioni.
Proprio tra i dati quantitativi presentati nel report ritroviamo un altro argomento forte che segna un “cambio di passo” rispetto alla dinamica manicomiale dell’Opg: i numeri delle persone presenti.
Al 30 novembre 2020 nelle 31 REMS vi erano 551 persone ricoverate. Si tratta del dato più basso della storia delle misure di sicurezza detentive dal Dopoguerra ad oggi. 2)Per una completa analisi statistica sull’uso del ricovero in Opg nel corso del Novecento, cfr. il saggio di Luigi Daga consultabile a questo indirizzo http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/63.pdf
Da questo punto di vista, quello dei folli-rei, insieme a quello dei minori autori di reato, potrebbero diventare i primi due campi dell’esecuzione penale su cui sperimentare l’assenza di istituzioni totali contenitive.
Il numero era quasi tre volte superiore ai tempi delle ispezioni parlamentari e aveva raggiunto il suo picco massimo nel 1961 quando si contavano 2.182 persone internate in Opg. A partire dal 2012 il numero è in costante calo e si è stabilizzato nell’ultimo triennio, attestandosi sulla capienza massima dei posti disponibili in Rems (circa seicento).
Statisticamente la popolazione internata è marginale rispetto alla popolazione detenuta e non sembrano esserci significative correlazioni dirette tra l’andamento delle persone presenti in carcere e quello dei ricoverati in Opg/Rems. Il rapporto percentuale è storicamente stato intorno al 3% e oggi è sceso all’1% (la popolazione detenuta è infatti, a fine 2020, composta da 53 mila persone).
Se il dato sulla popolazione detenuta è stato caratterizzato da fortissime oscillazioni, anche dovute all’impatto di politiche criminali carcero-centriche, quello delle misure di sicurezza detentive è un dato storicamente caratterizzato da una maggiore stabilità.
Nell’ultimo decennio, il trend delle presenze appare dunque in discesa e non si esclude che possa ulteriormente scendere, soprattutto attraverso più attente “selezioni” all’ingresso, se è vero, come segnalato da numerosi operatori, che esiste un cospicuo numero di c.d. cripto-imputabili (v. infra) che non dovrebbero stare in Rems.
Visti questi numeri, la sfida, operativa e politica, dovrebbe essere oggi quella di una tendenziale abolizione del ‘bisogno’ di Rems. Da questo punto di vista, quello dei folli-rei, insieme a quello dei minori autori di reato, potrebbero diventare i primi due campi dell’esecuzione penale su cui sperimentare l’assenza di istituzioni totali contenitive.Questi numeri dimostrano però una dinamica ben nota agli studiosi di istituzioni totali: l’effettivo utilizzo dell’internamento dipende dalla concreta disponibilità di posti. Più strutture esistono e più verranno riempite, dando vita ad un circolo vizioso di crescente “bisogno” di istituzioni totali.
Solo un approccio attento ai bisogni e alle condizioni della persona nella sua individualità ha portato a constatare che quasi due terzi della popolazione internata in Opg era in realtà “dimissibile” e che veniva invece tenuta internata per semplice “inerzia” o inattività delle istituzioni preposte.
Questi numeri dimostrano dunque che non vi è alcun bisogno di più Rems nè di aumentare le categorie giuridiche di persone che possono farvi accesso, ma vi è piuttosto la necessità di riaffermare la progressività del trattamento terapeutico, lavorando affinché la Rems sia una soluzione transitoria e temporanea. Come avremo modo di analizzare, solo accelerando le dimissioni dalle Rems e trovando soluzioni alternative si riducono le liste d’attesa.
Il fatto che il 27,4% (151 persone, di cui 133 uomini e 18 donne) della popolazione sottoposta a misura di sicurezza detentiva in Rems sia concentrata in un solo luogo, il sistema polimodulare di Rems di Castiglione delle Stiviere in Lombardia, è certamente un’anomalia. Per i critici, una stortura del sistema.
2. L’anomalia di Castiglione delle Stiviere
Il fatto che il 27,4% (151 persone, di cui 133 uomini e 18 donne) della popolazione sottoposta a misura di sicurezza detentiva in Rems sia concentrata in un solo luogo, il sistema polimodulare di Rems di Castiglione delle Stiviere in Lombardia, è certamente un’anomalia. Per i critici, una stortura del sistema.
Non è questa la sede per un’attenta disamina sui punti critici e di forza del c.d. “modello Castiglione”, né sulle ragioni politiche, amministrative e sanitarie che hanno portato Castiglione delle Stiviere ad essere, nel bene e nel male, un “modello”.
L’“anomalia” di Castiglione ha radici antiche, è stato infatti il primo tra gli Ospedali psichiatrici giudiziari ad essere “sanitarizzato” e dunque totalmente gestito dalla sanità regionale lombarda, vedendo impiegati nei suoi padiglioni professionalità esclusivamente socio-sanitarie.
Il passaggio da Opg a Rems non ha prodotto in quel luogo sostanziali trasformazioni, se non di denominazione. Eppure la stessa Regione Lombardia, chiamata dal Governo fin dal 2012 a redigere piani di riforma degli Opg, aveva previsto di soddisfare il requisito della “territorialità” delle misure di sicurezza, affiancando a Castiglione delle Stiviere (nei progetti originali, erano qui previsti 240 posti, pari alla capienza “storica” di quel luogo), altre tre strutture (nelle province di Como, Brescia e Milano) per un totale di ulteriori 40 posti.
Quel piano originario fu poi ridimensionato e oggi Castiglione delle Stiviere è l’unico luogo in Lombardia dove eseguire la misura di sicurezza del ricovero in Rems.
In un momento storico in cui, causa pandemia, si sta riaprendo la riflessione su quali siano i modelli che meglio interpretano il diritto alla salute costituzionalmente garantito, occorre aprire una riflessione franca, ragionata e non ideologica se questa anomalia debba continuare o se si debbano promuovere modelli diversi.
Perché più di un quarto di pazienti sottoposti a ricovero in Rems debbono concentrarsi in un solo luogo? C’è un concreto rischio di eludere le finalità della riforma, riproponendo un modello residenziale che, almeno nei numeri, è di chiaro stampo manicomiale.
Non vi sono evidenze di carattere socio-demografico che giustifichino il fatto che in Lombardia vi sia il triplo dei ricoverati rispetto anche alle altre regioni più popolose d’Italia (43 in Campania, 46 in Sicilia, 60 nel Lazio).
Ciò che non va dimenticato, è il particolare status della persona ricoverata in Rems: si tratta di persone private della libertà in virtù dell’applicazione di una misura di sicurezza e dunque particolarmente vulnerabili.
3. Quale modello di Rems: omologazione o differenziazione
Superate le difficoltà iniziali legate all’apertura delle Rems e all’adattamento ad un generale nuovo approccio alle misure di sicurezza per pazienti psichiatrici, è oggi necessario domandarsi se esista e quale sia il modello di Rems che funziona meglio di altri.
Ancora una volta, si assiste ad una differenza di visione tra operatori della salute mentale e della giustizia.
I primi sono molto affezionati all’autonomia e alla valorizzazione dei particolarismi locali e dunque rivendicano la libertà di organizzare la quotidianità in Rems secondo parametri esclusivamente “sanitari” e seguendo le regole e le prassi proprie del servizio.
Gli operatori della giustizia si trovano invece spesso “smarriti” di fronte a modalità di funzionamento così diverse ed alla mancanza di una cornice di regole uguali per tutte le strutture. Riflettendo una visione “penitenziarista” della misura di sicurezza, lamentano la mancanza di un regolamento/ordinamento valido per tutto il territorio nazionale.
Entrambe le visioni trovano una loro logica. Ciò che non va dimenticato, è il particolare status della persona ricoverata in Rems: si tratta di persone private della libertà in virtù dell’applicazione di una misura di sicurezza e dunque particolarmente vulnerabili.
Perciò sarebbe opportuno individuare un nucleo di “regole minime” comuni, in particolare riguardo a quei diritti maggiormente in tensione durante la privazione della libertà. Che, in un elenco non esaustivo, potremmo individuare in: rapporti con l’esterno e la famiglia (comunicazioni, telefonate, incontri), accesso e utilizzo degli strumenti tecnologici, affettività, libertà religiosa, provvedimenti disciplinari (Quali? Chi li decide? Con quali procedure e quali effetti?), accesso e rifiuto delle terapie farmacologiche e gestione di eventuali Trattamenti sanitari obbligatori. A questi diritti di natura pubblicistica, si affiancano le questioni privatistiche legate allo status della persona, nella quasi totalità dei casi si tratta di persone compromesse nella loro capacità di agire, con amministratori di sostegno, curatori o tutori.
Un altro tema che riguarda più l’aspetto organizzativo è quello della sicurezza. La legge prevede la presenza esclusiva di personale socio-sanitario-assistenziali, ma è crescente il numero di Rems che impiega personale di vigilanza (non armato) all’interno degli spazi del ricovero, ai fini del mantenimento dell’ordine e della prevenzione di aggressioni al personale e ad altri ospiti. Si tratta di una questione delicata, poiché i confini tra intervento sanitario e di ordine pubblico sono piuttosto labili.
È dunque auspicabile l’esistenza di un luogo istituzionale che, anche coinvolgendo soggetti esterni all’amministrazione sanitaria e della giustizia (ad esempio i Garanti delle persone private della libertà), sia formalmente chiamato a monitorare l’applicazione della normativa e a condividere problematiche e buone pratiche tra le varie Rems.
Le buone pratiche vanno proprio in questo senso, anticipare le attenzioni dei servizi sanitari già nella fase del giudizio, senza attendere che la “presa in carico” inizi dopo la sentenza.
4. Il codice penale, dogma immodificabile. La pericolosità sociale ha ancora un senso?
La novità più rilevante della l. 81/2014 sul piano giuridico riguarda la modifica alla concezione di pericolosità̀ sociale, un istituto controverso ma ancora presenta nel nostro codice penale, nonostante si tratti di un giudizio prognostico che lo stesso grado di certezza del lancio di una moneta o di un tiro a dadi.
Il legislatore ha ridisegnato il presupposto soggettivo di applicazione delle misure di sicurezze, stabilendo che l’accertamento della pericolosità sociale debba basarsi sulle «qualità̀ soggettive della persona», ma senza tenere conto «delle condizioni di cui all’art. 133 secondo comma, numero 4», cioè̀ «delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo». La stessa legge ha poi previsto che «non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità̀ sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali».
Cosa può esserci di così rivoluzionario in queste due affermazioni?
Anzitutto, restringere il campo di valutazione alle sole qualità̀ soggettive della persona significa, da una parte, deludere le aspettative di parte della dottrina giuridica che avrebbe voluto veder sostituito l’aleatorio termine pericolosità sociale, con un più̀ pragmatico bisogno di cure, che avrebbe rafforzato il carattere sanitario-riabilitativo delle misure di sicurezza e ridotto la valutazione ai soli aspetti medici, tralasciando quelli giuridici-criminologici.
Per una modifica così radicale, che muterebbe i connotati dal c.d. sistema del doppio binario, su cui si basa l’intero sistema sanzionatorio italiano, sarebbe auspicabile una riforma completa del codice penale. Ma oggi sembrano mancare i presupposti e la volontà politica.
Dall’altra, affermare che non si debba più tener conto del contesto ambientale di vita del folle-reo, significa (e questo sì che è, a suo modo, rivoluzionario) togliere al giudice la possibilità di valutare quei fattori sociali e famigliari che erano spesso decisivi nel giudizio di pericolosità.
In pratica, si cancella per legge la nozione di pericolosità sociale situazionale, che tendeva a valorizzare (e giudicare) in base al contesto in cui il folle reo viveva (ha una famiglia in grado di accoglierlo? È seguito dai servizi psichiatrici territoriali? Vive in contesti in grado di scongiurare il rischio recidiva?). Tutte domande che occupavano le riflessioni del giudice e che, a partire dall’entrata in vigore della legge sono passate in secondo piano.
La ratio della norma è certamente apprezzabile: riaffermare un principio tipicamente garantista; l’eventuale limitazione della libertà personale del soggetto infatti non può dipendere dalla valutazione di elementi incontrollabili e indipendenti dal soggetto stesso, ma frutto dei contesti di marginalità in cui egli si è trovato a vivere.
Tuttavia, c’è chi sottolinea i rischi di decontestualizzare la pericolosità sociale, trasformando il folle-reo in «un soggetto da laboratorio sottratto all’influenza dei fattori esterni» (Pelissero, 2014, pag. 218). Si tornerebbe addirittura ad una nozione biologica di pericolosità sociale, ancorata esclusivamente alle caratteristiche personali, psicologiche e psichiatriche dell’autore. Il giudice sarebbe appiattito sulle decisioni dello psichiatra e si lascerebbe sedurre «dal fascino della scienza» (Pelissero, 2014, pag. 917).
Ad oltre cinque anni dall’entrata in vigore della legge, possiamo affermare che la “nuova” nozione di pericolosità sociale ha favorito il dialogo costruttivo tra servizi della salute mentale e magistratura e ha messo al centro l’importanza di avere, fin dal giudizio di cognizione, un’idea su quale progetto costruire intorno al paziente. Le buone pratiche vanno proprio in questo senso, anticipare le attenzioni dei servizi sanitari già nella fase del giudizio, senza attendere che la “presa in carico” inizi dopo la sentenza.
Il codice penale non è un dogma e ripensare ad una radicale riforma del sistema sanzionatorio non può essere degradato ad esercizio di stile dell’accademia.
Non è questa la sede per riproporre una discussione puntuale sull’attualità del sistema del doppio binario, ma è da sottolineare come, allo stato, la modifica del codice penale non sia all’ordine del giorno dell’agenda politica. Le proposte, anche del recente passato (vedi, ad esempio i lavori della Commissione Grosso) non mancano.
Il codice penale non è un dogma e ripensare ad una radicale riforma del sistema sanzionatorio non può essere degradato ad esercizio di stile dell’accademia, andrebbero valutate con grande attenzione le proposte di un definitivo superamento del “sistema del doppio binario”, sancendo una definitiva cesura, culturale e giuridica, che porta a considerare la persona con diagnosi psichiatrica un “diverso”, un “altro” rispetto alla società degli imputabili.
Il patrimonio di esperienza accumulato dagli operatori in questi anni di percorso di superamento degli Opg può diventare prezioso anche in quest’ottica.
Nel contesto italiano, nessun istituto penitenziario si rifiuterebbe di ospitare una persona destinataria di un ordine di carcerazione perché è stata raggiunta la capienza massima. Nel microcosmo Rems queste “impossibilità” rappresentate dalla direzione sanitaria all’autorità giudiziaria sono invece prassi quotidiana.
5. Le liste d’attesa: come non sovraffollare le Rems
L’’intricata questione delle “liste d’attesa”, cioè di quelle persone che pur destinatarie di un ordine di ricovero in Rems non vi accedono, per mancanza di posti disponibili. Oggi è forse questo il terreno di maggiore attrito tra cultura giuridica e cultura sanitaria, che qui ci limitiamo a sintetizzare e che recentemente l’intervento della Corte Costituzionale, investita della questione dal Tribunale di Tivoli (qui il testo completo dell’ordinanza). Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affrontato il caso di un giovane italiano rimasto in carcere per quasi un anno dalla scadenza del titolo cautelare perché, pur dovendo essere condotto in una Rems, non ve ne era alcuna disponibile. E “in attesa di posto in Rems” era Valerio Guerrieri, morto suicida nel febbraio 2017 nella sua cella del carcere di Regina Coeli a Roma.
L’idea che un ordine legittimamente posto dall’autorità non venga eseguito, o meglio non possa essere eseguito per mancanza di posti, è una novità assoluta nel campo dell’esecuzione penale. Nel contesto italiano, nessun istituto penitenziario si rifiuterebbe di ospitare una persona destinataria di un ordine di carcerazione perché è stata raggiunta la capienza massima. Nel microcosmo Rems queste “impossibilità” rappresentate dalla direzione sanitaria all’autorità giudiziaria sono invece prassi quotidiana, motivo per il quale nessuna Rems ospita un numero superiore di persone rispetto ai posti disponibili. Il personale sanitario conosce infatti il pericolo potenziale costituito da una Rems sovraffollata e la conseguente impossibilità di svolgere alcuna funzione riabilitativa, limitandosi al mero contenimento.
Questa indisponibilità di posti disponibili ha però creato, fin dai primi mesi di apertura delle Rems, delle “liste d’attesa” di persone “in attesa” di fare ingresso in Rems.
Sul tema è tuttavia difficile avere una posizione minimamente oggettiva, basata su dati realistici e verificati. Le “liste d’attesa” sono infatti gestite a livello regionale, senza criteri di priorità condivisi e senza una banale condivisione dei numeri. Per questo motivo, al 30 novembre 2020, il sistema Smop segnala 175 persone “in lista d’attesa” (di cui il 31% in attesa in istituto penitenziario), numeri in crescita rispetto alla stessa data del 2019, quando le persone in lista d’attesa erano 92. Tali numeri sono tuttavia fortemente sottostimati, altre autorevoli fonti, come la Relazione annuale al Parlamento dell’Autorità garante delle persone private della libertà, segnala un numero ben maggiore, oltre le 700 persone.
Senza una raccolta dati centralizzata e credibile, ogni presa di posizione sulla questione delle liste d’attesa non potrà che essere ideologica e frutto della percezione individuale. Al netto di questa osservazione, l’allungarsi delle liste d’attesa pone due questioni: sull’accuratezza con cui vengono ordinati i ricoveri in Rems e su dove collocare le persone “in attesa”.
Occorre infatti notare come le persone in lista d’attesa non sono “mostri in libertà” che creano gravi problemi di ordine pubblico, anzi sono persone che “in attesa” della Rems incominciano percorsi terapeutici-riabilitativi in altre strutture e in altri forme (prevalentemente percorsi in comunità), durante i quali spesso raggiungono un loro equilibrio. A dimostrarlo, c’è il numero di misure di sicurezza che vengono “trasformate” dal giudice durante la permanenza in lista d’attesa. Tale trasformazione segnala che una soluzione diversa dalla Rems sarebbe stata possibile fin dal principio, evitando di allungare le “lista d’attesa”. Torna dunque, ancora una volta, la già richiamata necessità che, fin dal momento della commissione del reato, si avvii un dialogo costruttivo tra autorità giudiziaria e servizi sanitari per “anticipare” il più possibile la presa in carico del paziente, evitando che l’ordine di ricovero in Rems sia dettato da un’eccessiva “ansia custodialistica” legata al pericolo della commissione di un nuovo reato.
I casi più problematici riguardano le persone che “attendono” l’ingresso in Rems da detenuti in carcere. La legittimità della base giuridica della loro carcerazione è incerta e, in più, creano tensioni all’interno degli istituti penitenziari di difficile gestione. La soluzione più netta, ma anche più rispettosa dei diritti fondamentali della persona, sarebbe quella di prevedere un divieto formale di carcerazione per tutte le persone in attesa di Rems. Il dibattito tanto aperto quanto urgente.
I numeri ci dicono che i due gruppi sono quantitativamente ormai omogenei e che la tendenza degli ultimi anni è quella di un lieve ma costante incremento delle misure provvisorie e di una stabilità di quelle definitive.
6. Definitivi e provvisori: il tradimento della legge 81/2014.
Tra le questioni più problematiche, vi è quello relativo alle posizioni giuridiche dei ricoverati. La suddivisione che qui interessa è tra ricoveri provvisori (art. 206 c.p.) e definitivi (art. 222 c.p.). Nel primo gruppo rientrano coloro che sono ancora sottoposti a procedimento penale, i definitivi sono coloro che sono già stati prosciolti perché non imputabili, ma sottoposti a misura di sicurezza perché socialmente pericolosi.
Una differenza rilevante è che la competenza a decidere sulle misure provvisorie è dei giudici di cognizione (nella quasi totalità dei casi, i giudici per le indagini preliminari), sulle misure definitive (revoche, proroghe, trasformazione delle misure) decide la magistratura di sorveglianza.
I numeri ci dicono che i due gruppi sono quantitativamente ormai omogenei e che la tendenza degli ultimi anni è quella di un lieve ma costante incremento delle misure provvisorie e di una stabilità di quelle definitive. Se, con una certa approssimazione giuridica, paragoniamo le misure di sicurezza provvisoria alle condanne non definitive e alle misure cautelari in carcere, scopriamo una rilevante differenza: le persone in Rems in attesa di una sentenza definitiva sono sensibilmente di più di quelle in carcere (quasi il 50% in Rems, intorno al 30% in carcere). Possono essere molte le spiegazioni del dato, su tutte il fatto che quando viene decisa una misura provvisoria ci troviamo tendenzialmente in epoca più vicina alla commissione del reato ed è dunque possibile che la situazione psicopatologica della persona sia ancora in fase acuta. Va considerato che la persona in misura provvisoria verosimilmente è meno conosciuta dai servizi psichiatrici territoriali – salvo che non abbia una pregressa presa in carico per altri motivi diversi dalla commissione del reato. Sono questi alcuni dei fattori che rendono più difficile l’individuazione di un Programma terapeutico individuali e di soluzioni “alternative” alla Rems. Il giudice, in attesa di definire il processo, sarà dunque più propenso a optare per una misura più custodiale come il ricovero in Rems.
Occorrerebbe un’analisi caso per caso, ma, torniamo a ribadire, che è necessario un contatto il più immediato possibile tra magistratura e servizi sanitari per trovare, fin dalle primissime fasi del processo, la collocazione più opportuna, ribadendo che l’uso della Rems deve costituire l’eccezionalità ed essere extrema ratio tra le varie opzioni a disposizione del giudice.
La questione dei cripto-imputabili chiama direttamente in causa il ruolo dei periti e dei consulenti tecnici, che, in sede processuale, devono pronunciarsi sulla capacità di intendere e volere della persona: al loro sapere esperto si “affida” infatti il giudice per decidere se la persona presenti un “vizio di mente” o meno.
7. I cripto-imputabili
Gli operatori della salute mentale che lavorano nelle Rems, segnalano una crescente presenza dei c.d. “cripto-imputabili”, cioè di persone che non presenterebbero gravi patologie psichiatriche, ma problematiche diverse e non strettamente sanitarie (dipendenza da sostanze, marginalità sociale, biografie criminali) che vengono comunque ricoverate in Rems, eludendone la funziona terapeutico-riabiliativa.
Si tratta di un effetto collaterale della bulimia diagnostica che ha segnato gli ultimi decenni di sviluppo della psichiatrica, raggiungendo il suo apice nell’ultima versione del manuale diagnostico internazionalmente riconosciuto (DSM V), ove sono indicate un numero di patologie e disturbi psichiatrici mai così grande.
La questione dei cripto-imputabili chiama direttamente in causa il ruolo dei periti e dei consulenti tecnici, che, in sede processuale, devono pronunciarsi sulla capacità di intendere e volere della persona: al loro sapere esperto si “affida” infatti il giudice per decidere se la persona presenti un “vizio di mente” o meno.
Per minimizzare la questione dei cripto-imputabili, molto sentita dagli operatori delle Rems, occorre arrivare ad un bilanciamento tra diritti procedurali e questioni operative: è auspicabile che i periti, tramite il giudice, entrino in contatto fin dall’affidamento della questione peritale con gli operatori della salute mentale affinché prospettino soluzioni trattamentali condivise, che non vengano “calate dall’alto” dei servizi di salute mentale solo al momento della sentenza?
8. Il “fine” della misura di sicurezza per pazienti psichiatrici. Durata del ricovero e percorsi di uscita.
Ci sono due dati presentati in questo report su cui focalizzare l’attenzione: l’aumento della durata del ricovero in Rems e le “destinazioni” dei pazienti una volta usciti dalla Rems.
Entrambi i dati, pur con rilevanti differenze territoriali, fotografano una tendenza nazionale che dovrebbe preoccupare operatori e policy makers.
Al 30 novembre 2020 la durata media del ricovero in Rems è di 236 giorni, tre anni fa, nel 2017 era di 206 giorni. Una crescita costante. Tra i capisaldi della legge 81/2014 vi era la necessaria transitorietà della Rems, questi dati iniziano a metterla in discussione. In prospettiva, tornerà a riproporsi la questione degli “ergastoli-bianchi”, oggi vietati dalla l. 81/2014, che causavano continue proroghe della misura di sicurezza detentiva.
Le Rems, nelle intenzioni del legislatore e delle buone pratiche, devono invece diventare “tappe” di un percorso progressivo (la c.d. progressività terapeutica). L’aumento della durata dei ricoveri fotografa un rischio di trasformazione delle Rems in cronicari, dove la durata del ricovero non dipende affatto dalle condizioni di salute il ricovero si allunga per il solo fatto che non si riescono a trovare soluzioni altre, con la conseguenza di allungare le liste d’attesa e “negare” il posto in Rems a persone ancora nella fase acuta della loro patologia.
Legato al tema della durata dei ricoveri, vi è la questione del “dopo-Rems”. Cosa succede quando termina la fase acuta del ricovero e il paziente è pronto a lasciare la struttura. I dati ci dicono che il “ritorno in libertà” è un’ipotesi sostanzialmente mai presa in considerazione dai giudici: dei 172 pazienti dimessi dalle Rems nel corso del 2020 (fino al 30 novembre) solo uno è andato agli arresti domiciliari, mentre per il 72% dei pazienti dimessi (154) vi è la trasformazione della misura in libertà vigilata o l’applicazione della licenza finale di esperimento. Proprio a questo tema dedichiamo il prossimo paragrafo.
9. La libertà vigilata (quasi sempre in comunità terapeutica riabilitativa) è l’architrave del sistema delle misure di sicurezza
Tra le misure sicurezza destinate ai pazienti psichiatrici autori di reato vi è la libertà vigilata, che può essere decisa ab origine dal giudice oppure arrivare in seguito ad una trasformazione del ricovero in Rems (caso piuttosto frequente come abbiamo visto).
La libertà vigilata si caratterizza per la sua estrema flessibilità, si tratta infatti di imporre alla persona non imputabile, ma socialmente pericolosa un percorso terapeutico-riabilitativo che può andare dalla “semplice” presa in carico del centro di salute mentale fino (ed è l’ipotesi più frequente) alla permanenza in strutture residenziali pubbliche o accreditate. Tali strutture, che sinteticamente chiamiamo comunità – pur consapevoli delle diverse denominazioni date dalle legislazioni regionali in materia e dalle caratteristiche differenti richieste per l’accreditamento – costituiscono luoghi essenziali nei percorsi di cura/controllo dei pazienti psichiatrici autori di reato.
Anzi, l’enfasi posta sulle Rems a partire dal 2012 in poi, ha condotto le comunità in un “cono d’ombra”, producendo un mosaico di modelli piuttosto variegato. Anche l’attenzione dei ricercatori e della società civile organizzata si è concentrata quasi esclusivamente sulle Rems, spesso dimenticando che il ruolo centrale dell’arcipelago delle misure di sicurezza psichiatriche, è costituito oggi dalle comunità.
Ciò è vero anzitutto sul piano quantitativo. Il numero di persone in misura sicurezza non detentiva è enormemente superiore alle persone in misura di sicurezza detentiva: a livello nazionale per ogni persona internata in Rems ve ne sono 7 in libertà vigilata.
È bene fornire qualche specificazione ulteriore a questo dato, che aiuti a comprendere perché definiamo la libertà vigilata l’architrave dell’intero sistema delle misure di sicurezza.
I dati statistici forniti dal Ministero della Giustizia non permettono di distinguere tra “tipologie” di libertà vigilata e dunque dobbiamo forzatamente analizzare i dati totali, senza poter distinguere quanti sono le persone in libertà vigilata in ragione di un vizio totale o parziale di mente, da quelli che sono stati dichiarati socialmente pericolosi per ragioni diverse dalla patologia psichiatrica, ad esempio perché “delinquenti abituali, professionali o per tendenza” (categorie giuridiche ancora considerate dal nostro codice penale).
I dati ufficiali non distinguono neanche il “contenuto” della libertà vigilata e dunque non è possibile risalire, nemmeno genericamente, a quale sia il grado di restrizione della libertà imposto dal giudice. Non sappiamo dunque a quanti dei soggetti in libertà vigilata viene fatto obbligo di stare in una struttura residenziale e quanti invece rimangono al proprio domicilio o a quello dei famigliari.
Fatte queste due necessarie premesse, proviamo a “far parlare” i dati.
I dati complessivi nazionali delle persone in libertà vigilata dimostrano che si tratta di una misura in costante aumento negli ultimi dieci anni, con un vistoso aumento nel triennio corrispondente al superamento degli Opg (2013-2015). In questo lasso di tempo si è infatti assistito ad un deciso aumento delle persone in libertà vigilata (+ 758), che contribuisce a far aumentare, nel decennio 2010-2020, il totale delle persone in libertà vigilata di 1.283 soggetti, percentualmente significa un aumento di oltre il 20%. Anche le statistiche sembrerebbero dunque confermare che tra gli “effetti collaterali” della riforma, vi è una l’effetto espansivo delle misure di sicurezza personali non detentive.
Questo costante aumento che rileviamo tra i soggetti in libertà vigilata, non ha evidenti correllazioni con il numero di persone in carcere. Ad ulteriore dimostrazione che, “carcere” e “misure di sicurezza” rimangono microcosmi relativamente indipendenti.
Questi dati dimostrano che non è affatto esercizio di stile occuparsi di individuare modelli sostenibili di comunità e rispettosi dei diritti delle persone ospitate. Anzi, la “specializzazione” di alcune comunità nell’accoglienza in prevalenza di persone provenienti dal circuito penale ha posto nuovi interrogativi circa il ruolo del privato sociale, gli obiettivi dei percorsi comunitari, la loro durata, i profili professionali degli operatori…
Sul piano giuridico sarebbe opportuno domandarsi la categoria “libertà vigilata” non sia troppo ampia e non sia opportuno distinguere tra libertà vigilata svolta in comunità o in strutture residenziale e altre svolte al domicilio o in situazioni non residenziali. Il rischio è che, soprattutto in determinati contesti, il percorso comunitario sia del tutto assimilabile alla misura di sicurezza detentiva e dovrebbe dunque essere sottoposto agli stessi limiti di durata.
10. I rei-folli: le questioni aperte della salute mentale nel contesto penitenziario
Tradizionalmente la macro-categoria di persone con patologia psichica autori di reato si divide in due gruppi, i “folli-rei” e i “rei-folli”.
I folli-rei sono coloro che sono giudicati capaci di intendere di volere, per i quali la patologia psichica si aggrava o insorge successivamente all’ingresso in carcere, tanto da renderne incompatibile la condizione di salute con lo stato detentivo. Fino al superamento degli Opg, tali “gruppi” erano distinti sul piano normativo, ma indistinti sul piano delle risposte di cura/controllo. Per entrambi, si aprivano le porte dell’Opg. A partire dalle l. 9/2012 e, poi, l. 81/2014 anche le risposte sanzionatorie e trattamentali cambiano: per i “rei-folli” devono invece essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario, essendo negata loro, per legge, qualsiasi “alternativa” (la detenzione domiciliare, il ricovero in un luogo di cura, un affidamento “terapeutico”).
È dunque quel carcere, psicopatogeno e “fabbrica di handicap”, che deve trovare al proprio interno luoghi e strumenti adatti a curare e controllare, allo stesso tempo, il reo-folle. Lo ha fatto, o almeno ci ha provato, con scarso successo, istituendo, le Articolazioni per la tutela della salute mentale, sezioni a prevalente gestione sanitaria, con un compito impossibile: curare in un luogo di espiazione di pena. Un ossimoro, che ha prodotto sistematiche violazioni dei diritti individuali e gravi problemi gestionali.
Tale distinzione tra “folli-rei”e “rei-folli” è stata adottata per esigenze molto concrete (e di scarsa prospettiva): il legislatore aveva l’urgenza di chiudere gli Opg dopo troppi rinvii.
Per farlo doveva togliere all’istituzione penitenziaria la possibilità di avere un’istituzione di scarico verso cui indirizzare tutti i casi problematici e di difficile gestione.
Si tratta di un meccanismo che gli studiosi delle istituzioni totali conoscono bene. Il carcere avrebbe continuato ad affollare le Rems, come prima faceva degli Opg, usando l’etichetta di malattia mentale, come “scusa” per delegare ad altri la gestione di quell’individuo. L’unico modo di rompere questo meccanismo, era distinguere la risposta sanzionatoria.
Nel farlo, però, il legislatore ha omesso di prevedere strumenti terapeutici adeguati, utilizzando la varietà di soluzioni, accessibili alla persona affetta da patologia psichica non autrice di reato.
Così i “rei folli” non possono essere curati in carcere (ma al più, contenuti, compensati, neutralizzati) ma neppure essere curati “fuori” dal carcere.
A provare, almeno sul piano formale e normativo, a districare la matassa, ci ha pensato Consulta con la sentenza 99/2019. Investita della questione dalla Corte di Cassazione (Cassazione Penale, Sez. I, Ordinanza n. 13382, 22 marzo 2018) sulla compatibilità costituzionale della differenza tra grave patologia fisica e psichica, impedendo ai malati psichici di usufruire delle possibilità date ai malati fisici e, principalmente, del rinvio della pena ex art. 147 CP e della detenzione domiciliare ex art. 47, terzo comma, 1-ter (la c.d detenzione domiciliare “in deroga” o “umanitaria”).
Dopo la decisione della Suprema Corte, se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico. In particolare, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva.
D’ora innanzi dunque c’è la possibilità di costruire percorsi personalizzati, se operatori della giustizia e della salute sapranno collaborare in modo costruttivo, ponendosi come obiettivo del loro intervento quello di cura. C’è un giudice a Berlino.
Di tutte le modifiche, quella che rimane invece davvero difficile comprendere riguarda la mancata attuazione della delega relativa alla “necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena” di cui all’art. 1 dello stesso articolo.
È questo uno dei sempre più numerosi casi in cui la Corte deve “supplire” alle inerzie e ai tentennamenti del legislatore. Il tanto lungo quanto atteso processo di riforma dell’Ordinamento penitenziario, iniziato con il governo Renzi e la costituzione degli Stati generali dell’Esecuzione penale, proseguito con il governo Gentiloni, era arrivato in fase di approvazione proprio a ridosso delle elezioni politiche del 4 marzo 2018.
E così, il testo della riforma aveva subito conseguenze dirette dal risultato elettorale. Infatti tra la prima e la seconda lettura (effettuata dal rinnovato Parlamento) erano molte le modifiche e le censure, conseguenza della “sopravvenuta volontà politica”, così come esplicitamente dichiarato nella relazione illustrativa della riforma. Il cambio di governo e di maggioranza parlamentare hanno dunque prodotto un testo normativo più attento alle istanze securitarie che al finalismo rieducativo della pena, in particolare nella parte complessivamente volta alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative e alla eliminazione di automatismi preclusivi (lettere b, c, d, e del comma 85 dell’art. 1 della legge 23 giugno 2017, n. 103).
Di tutte le modifiche, quella che rimane invece davvero difficile comprendere riguarda la mancata attuazione della delega relativa alla “necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena” di cui all’art. 1 dello stesso articolo. Tali norme, secondo la ratio della legge delega originaria, avrebbero dovuto essere coordinate con le novità previste da altri punti della stessa delega (in particolare ex art. 1 comma 16 lett. c) e d) che prevedeva la “revisione della disciplina delle misure di sicurezza personali”), per addivenire ad un intervento integrale in tema di salute mentale ed esecuzione penale, che interessasse certamente l’Ordinamento penitenziario, ma anche il codice penale e il codice di procedura penale.
Con precisione chirurgica invece, sono stati espunti tutti i riferimenti alla tutela della salute mentale nel contesto penitenziario contenuti nella proposta elaborata dalla Commissione Pelissero e nelle relazioni conclusive dei Tavoli 10 e 11 degli Stati generali dell’Esecuzione penale. Come se la questione psichiatrica sia oggetto di contesa politica.
Dunque l’armonizzazione dell’ordinamento penitenziario rispetto alle novità in tema di misure di sicurezza rimane ancora un processo inconcluso. Eppure dagli operatori penitenziari e sanitari proviene un deciso – e non sempre giustificato – allarme legato all’aumento dei casi di disagio psichico in carcere, spesso trattato attraverso un uso massiccio di terapie farmacologiche. L’aumento dei tassi di autolesionismo e di suicidi ne è uno dei tragici corollari. Certamente l’intervento normativo non avrebbe risolto il problema, ma avrebbe influito sulla diffusione di pratiche virtuose. E invece nulla, l’occasione è stata sprecata. Proposte come l’introduzione di una specifica tipologia di affidamento in prova per i soggetti con disagio psichico (simile a quella prevista per le persone tossicodipendenti); la definizione di un chiaro perimetro normativo che regoli le sezioni penitenziarie specializzate nel trattamento del disagio psichico, chiarendo, ad esempio, la competenza circa le modalità di accesso e i rapporti con i servizi di salute mentale esterni; il riordino delle misure di sicurezza non detentive, specificando meglio il contenuto terapeutico della libertà vigilata, resteranno, per ora, lettera morta.
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References
↑1 | I dati e le informazioni qui riportate fanno parte di una ricerca più ampia curata dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e dalla Regione Campania. La ricerca ha utilizzato le informazioni caricate dagli operatori sul sistema SMOP- Sistema informativo per il Monitoraggio del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il gruppo di ricerca è formato da: Perla Arianna Allegri, Michele Miravalle, Karma Natali, Marco Pelissero, Daniela Ronco, Laura Scomparin e Giovanni Torrente. |
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↑2 | Per una completa analisi statistica sull’uso del ricovero in Opg nel corso del Novecento, cfr. il saggio di Luigi Daga consultabile a questo indirizzo http://www.rassegnapenitenziaria.it/cop/63.pdf |