Aldo Morrone
1)Direttore Scientifico Istituto Dermatologico San Gallicano (IRCCS), Roma. Una versione in inglese più ampia di questo contributo è stata pubblicata sulla rivista Antigone. Semestrale di critica del sistema penale e penitenziario, liberamente consultabile a questo link https://www.antigone.it/rivista/
Salute e Carcere. L’impatto della pandemia sul malato carcere.
Il virus delle disuguaglianze
Il Covid-19 ha svelato il carattere profondamente solidale dell’essere umano. Parallelamente ha però messo in risalto le disuguaglianze, le sperequazioni sociali e di genere, le infinite variazioni delle differenze tra gli uni e gli altri, tra società e società, tra nazioni e nazioni, tra continenti e continenti (Ambrosio, 2020).
Uno dei problemi ha riguardato i tagli al sistema sanitario e i diversi accessi alle cure: insufficienza di letti, mascherine, tamponi e ventilatori. Il nostro sistema economico va cambiato alla base: bisogna investire nel pubblico, nell’educazione e nella sanità.
In questo contesto d’emergenza, si colloca un Servizio sanitario nazionale arrivato alla pandemia già al collasso. È sufficiente osservare i numeri. Se per la ricerca vi è stato un investimento quasi inesistente – solo dello 0,2% – tra il 2012 e il 2019 sono stati soppressi 759 reparti ospedalieri (meno 5,6%) e i posti letto sono 2,3 ogni 1.000 abitanti, contro i 2,4 in Spagna, i 3 della Francia e i 5,5 della Germania. Dal punto di vista del personale sanitario, in Italia ci sono 5,6 infermieri per 1000 abitanti, a differenza di Germania (12,6), Francia e Regno unito (7,9). Il numero dei medici è in calo assoluto da molti anni: 3,5 medici per 1.000 abitanti. La terapia intensiva ha invece una disponibilità di posti pari a 2,6 ogni 1.000 abitanti (mentre in Germania 6,0; Francia 3,1 e Spagna 2,4). Nel nostro paese, infine, ci sono 25,2 Rmn e 30,6 Tc per milione di abitanti; in Francia 110 Rmn e 183 Tc.
Intanto i numeri della pandemia continuano a crescere e la diffusione del virus continua ad accelerare. Siamo ormai a oltre 36 milioni di contagi nel mondo, mentre i morti superano il milione. Non si tratta più solo di una crisi sanitaria, ma anche economica, sociale e in molti paesi politica. La pandemia si sta sviluppando con una doppia velocità e questo spiega anche la differenza di percezione tra i cittadini: nei paesi che sono stati colpiti per primi ha rallentato, ma nel mondo sta crescendo più velocemente e in aree molto popolose.
Il virus, oltre a evidenziare le conseguenze di un sistema socio-sanitario ridotto all’osso, ha riportato in primo piano il tema della disuguaglianza, anche in termini di salute. Un tema da riprendere a fine emergenza, se si vuole che il diritto costituzionale al godimento di una buona condizione di salute sia davvero tutelato per tutti.
Non è vero infatti che di fronte alla malattia siamo tutti uguali. Non lo siamo mai stati. Non è vero che corriamo tutti gli stessi rischi e abbiamo tutti le stesse opportunità di curarci.
Non è vero infatti che di fronte alla malattia siamo tutti uguali. Non lo siamo mai stati. Non è vero che corriamo tutti gli stessi rischi e abbiamo tutti le stesse opportunità di curarci. Particolari categorie sociali, più fragili rispetto ad altre, sono e sono state più a rischio. Persino i lutti sofferti non sono stati i medesimi. Gli anziani con pregresse patologie sono stati più a rischio. Non tutte le classi lavoratrici hanno potuto svolgere lo smart working. Gli operai, i lavoratori precari e in nero, hanno vissuto rischi maggiori di chi ha avuto i confort dati da un ruolo dirigenziale e si sono ulteriormente impoveriti. Ma l’emergenza sanitaria in corso ha discriminato e penalizzato soprattutto le donne che sono state e sono sempre in prima fila, obbligate al triplo lavoro dentro le mura domestiche. Per loro non c’è stata distinzione fra vita personale e vita lavorativa. Hanno subito ancor più di prima le violenze maschili.
Tra i gruppi sociali maggiormente a rischio, i detenuti occupano una posizione di primo piano. Le strutture penitenziarie sono epicentri per numerose malattie infettive (F. Dutheil, J.B. Bouillon-Minois, M. Clinchamps, 2020), a causa di tre fattori macroscopici:
- inevitabile stretto contatto in strutture spesso sovraffollate, scarsamente ventilate e poco igieniche;
- scarso accesso al servizio sanitario;
- rapidissima diffusione degli agenti patogeni tra detenuti, visitatori e staff, all’interno e all’esterno della comunità carceraria (comunicazione interno – esterno).
Per questa ragione questi non luoghi costituiscono parte integrante della risposta della sanità pubblica al Covid-19 (B.F. Henry, 2020; S.A. Kinner et al., 2020).
L’esperienza della detenzione è già di per sé un rischio per la salute, per le condizioni degradate di strutture, celle e spazi comuni, per il sovraffollamento e l’elevato turn over delle persone detenute
La salute in carcere prima del Covid-19
Con il Dpcm del 1 aprile 2008 si è cercato di attuare il passaggio di competenza sanitaria dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale. La situazione registrata dopo dieci anni si è rivelata complessa. Nel 2019 c’era un solo medico di base in ogni carcere per ogni 315 detenuti, per un totale di 1.000 medici di base e di guardia nei circa 200 istituti di pena italiani. Troppo pochi per garantire un servizio adeguato. Il 70% dei medici è precario. Ovviamente, il numero varia da carcere a carcere a seconda della capienza della struttura, ma in media come si è detto è presente un medico ogni 315 detenuti. In alcune realtà manca addirittura il medico di base (Ansa, 2019).
L’esperienza della detenzione è già di per sé un rischio per la salute, per le condizioni degradate di strutture, celle e spazi comuni, per il sovraffollamento e l’elevato turn over delle persone detenute e quindi per il maggiore rischio di contrarre malattie infettive. Occorre tener presente che le condizioni di vita negli istituti di detenzione, particolarmente inadeguate per affrontare una crisi pandemica di questa portata, possono agire come fattori altamente stressanti e aggravare una situazione già critica a causa dell’isolamento forzato in un contesto di coabitazione altrettanto forzata (A. Camposeragna, 2020).
Un altro elemento da sottolineare: l’età avanzata della popolazione carceraria, più suscettibile quindi alle complicazioni e al rischio di morte da Covid-19.
Tra i detenuti è maggiore:
- la prevalenza di Hiv, Hcv, Hbv e tubercolosi rispetto alla popolazione libera, principalmente a causa della criminalizzazione dell’uso della droga e la detenzione di persone che ne fanno uso (la prevalenza di infezione da Hiv tra i detenuti è del 4,8%, contro lo 0,2% della popolazione in generale; l’incidenza della tubercolosi è maggiore di 23 volte rispetto a quella della popolazione in generale);
- la probabilità di contrarre patologie anche negli individui sani.
L’aumento del rischio riguarda non solo le infezioni quali Hiv e Hcv, ma anche la possibilità di sviluppare dipendenza da sostanze psicotrope o di ammalarsi di disturbi mentali, in misura maggiore rispetto all’incidenza delle stesse patologie nella popolazione generale. Si tratta di una questione di salute pubblica: prima o poi la maggioranza dei soggetti privati della libertà viene reintegrata nella società dei liberi (P. Tozzo, G. D’Angiolella, L. Caenazzo, 2020). Il loro reinserimento da persona sana è un diritto costituzionale e un dovere civico.
Un trial multicentrico del 2014 ha coinvolto istituti penitenziari di sei regioni del centro nord: Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e Azienda sanitaria di Salerno, fotografando le condizioni di salute di circa 16.000 detenuti in 57 istituti (circa il 30% del totale nazionale degli istituti). Il 70% del campione era affetto da una qualche patologia, con differenze di genere (uomini 67%, donne 75% e transgender 95,7%) ed età (18-29 anni 58,4%, 30-39 anni 63,9%, 40-49 anni 70,9%, 50-59 anni 76,7%, >60 anni 82,6%). Oltre il 40% dei pazienti arruolati presentava una patologia psichiatrica (ansia, disturbo nevrotico o reazioni di adattamento, depressione). Molti presentavano dipendenza da sostanze stupefacenti (il 24% di tutto il campione, con la cocaina che è risultata la sostanza più utilizzata). Seguivano le malattie dell’apparato digerente e, con il 14,5%, le patologie dei denti e del cavo orale.
Elevata è la concentrazione di malattie infettive (epatite C, epatite B e Hiv), che colpiscono l’11,5% dei soggetti arruolati. Allarmanti sono i tentativi di suicidio e i gesti di autolesionismo: il 5% aveva messo in atto un gesto autolesivo almeno due volte nell’ultimo anno (Ars Toscana, 2015). Nonostante l’elevato consumo di tabacco nella popolazione carceraria (71% contro 22% della popolazione generale in Italia), i disturbi respiratori sono tra i più rari in carcere, essendo l’età media delle persone detenute relativamente bassa. Dunque, l’assistenza sanitaria penitenziaria è prevalentemente orientata alla cura delle dipendenze e dei disturbi psichici, e di patologie frequenti nella popolazione carceraria come epatite, Hiv, tubercolosi e malattie a trasmissione sessuale (S. Gainotti, C. Petrini, 2019, p. 138).
Studi più recenti, che fotografano l’intera situazione nazionale, indicano l’altissima percentuale di malati di epatite C, l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia, anche per l’elevata presenza di soggetti tossicodipendenti. È affetto da epatite C tra il 25% e il 35% dei detenuti italiani (tra i 25.000 e i 35.000 detenuti l’anno). A questi si aggiungono 6.500 portatori attivi del virus dell’epatite B. I soggetti Hiv sono invece circa 5.000, in discesa rispetto a 15 anni fa grazie all’assunzione di farmaci antiretrovirali. La loro prevalenza è discesa infatti dall’8,1% del 2003 all’1,9% attuale (Ekuo News, 2020). Il dato è certamente positivo in termini di salute, anche psicologica. Infatti, la paura dell’Hiv e dell’Aids e lo stigma sociale associato alla condizione di sieropositività (o al sospetto di infezione) hanno effetti negativi sugli individui e minano il successo delle risposte alle stesse patologie, nello scoraggiare i detenuti nell’accesso volontario al test per l’Hiv o per i positivi nel richiedere i servizi di assistenza sanitaria. Nel combattere lo stigma e la discriminazione connessi con l’Hiv e l’Aids in carcere è perciò importante proteggere i diritti dei detenuti che vivono con l’Hiv e accrescere l’efficacia dei servizi, oltre che ridurre i comportamenti a rischio tramite efficaci campagne interne di sensibilizzazione e formazione tra i detenuti (R. Lines, 2007, pp. 26-27; G. Ciccarese et al., 2020, p. 390 ).
Per quanto riguarda invece la popolazione carceraria italiana anziana, uno studio del 2017 sulle carceri di Bari, Taranto, Foggia, Lecce, Bergamo, Cremona e Mantova ha rilevato che il 64% del campione non si trovava in stato di salute ottimale. Tra le patologie più frequenti, quelle cardiache per il 23,4%, quelle dismetaboliche (diabete) per il 12,8%, e quelle che necessitano interventi chirurgici per il 9,6% (Romano et al., 2020).
L’emergenza sanitaria da Covid-19 si innesca quindi in un contesto precario, ove i numeri non sono incoraggianti. La possibilità di rispettare una tra le più importanti norme di sicurezza, il distanziamento sociale, si scontra con il gravissimo ed atavico problema del sovraffollamento.
Carcere e Covid-19
Il carcere è patogeno? Come luogo in sé fa ammalare? Si può essere sani di mente in carcere? Sono interrogativi socio-culturali ai quali antropologi e studiosi tentano da tempo di dare una risposta. Spesso sono gli effetti del proprio ambiente ad intervenire fatalmente sulle singole persone recluse. Scriveva Victor Serge che un detenuto, già dopo la prima ora di carcere, è una persona mentalmente squilibrata (V. Serge, 1980). Anche l’Oms conferma il disturbo psichico come la patologia più frequente in carcere, mentre dal punto di vista strettamente nazionale troviamo più di un detenuto su 4 in terapia psichiatrica, con una media del 27,6%. In alcuni istituti addirittura quasi tutti i detenuti sono in terapia psichiatrica, secondo i dati riportati nel XVI rapporto di Antigone. Una fotografia delle carceri italiane prima del Covid-19. Sono elementi preoccupanti: nel carcere di Spoleto risultava in terapia il 97% dei reclusi, a Lucca il 90% mentre a Vercelli l’86%. La presenza di psichiatri in questi istituti era garantita di media per 7,4 ore settimanali ogni 100 detenuti, mentre gli psicologi risultavano presenti per una media di 11,8 ore settimanali ogni 100 detenuti. In 19 degli istituti visitati da Antigone era presente un’articolazione per la salute mentale (Antigone, 2020b).
L’emergenza sanitaria da Covid-19 si innesca quindi in un contesto precario, ove i numeri non sono incoraggianti. La possibilità di rispettare una tra le più importanti norme di sicurezza, il distanziamento sociale, si scontra con il gravissimo ed atavico problema del sovraffollamento. Secondo i rapporti di Antigone, la pandemia inizierebbe con un tasso di affollamento del 130,4%, in alcuni casi persino 12 detenuti a cella mentre in altri si segnalava la violazione del criterio dei 3 metri quadri a detenuto (Antigone, 2020b). Una situazione che dura da anni, se nel 2013 la Corte di Strasburgo condannava l’Italia per trattamenti disumani e degradanti proprio a causa delle sue strutture drammaticamente sovraffollate. Un ultimo dato: allo scoppio del nuovo coronavirus, i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti. Quelle di Taranto, Larino e Latina erano le carceri a maggior rischio di contagio.
In un panorama come questo è utile ricordare i quattro articoli della nostra Costituzione assolutamente rilevanti nell’esperienza delle carceri italiane:
articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”;
articolo 13: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”;
articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”;
articolo 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Il principio di equivalenza delle cure è un concetto presente in numerose dichiarazioni nazionali e internazionali sui diritti dei detenuti ed è, come è stato fatto notare di recente, insito nell’idea di diritto alla salute come diritto inalienabile di ogni persona, indipendentemente dalla condizione di libertà o detenzione, così come esso è sancito dall’art. 32 della Carta costituzionale (S. Gainotti, C. Petrini, 2019).
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di Iegge. La Iegge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
I Basic Principles for the Treatment of Prisoners, adottati dall’Assemblea generale delle Nazioni unite con la risoluzione 45/111 del 14 dicembre 1990, ricordano che: “1. All prisoners shall be treated with the respect due to their inherent dignity and value as human beings. 2. There shall be no discrimination on the grounds of race, colour, sex, language, religion, political or other opinion, national or social origin, property, birth or other status”.
Nelle carceri durante il Covid-19
Le carceri italiane non sono state focolai epidemici. Anzi, i dati hanno fotografato un numero di contagi in linea, se non inferiore, rispetto agli altri paesi europei.
Secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, al primo maggio 2020 erano stati registrati 159 casi di Covid-19 tra i detenuti italiani e 215 tra il personale penitenziario. Va detto tuttavia che è anche sorto il problema che non esistono dati pubblici sul numero di tamponi eseguiti sui detenuti.
Le strategie messe in atto per preservare i luoghi penitenziari – potenzialmente epidemic bombs (M. Cingolani, L. Caraceni, N. Cannovo, P. Fedeli, 2020) – si snodano lungo la dicotomia in and out: regolamentazione della socialità (già precaria) all’interno e limitazione del contatto (anch’esso assai delicato) con l’esterno.
Ragioni strutturali e contingenti hanno reso quasi impossibile rispettare le tradizionali misure di contenimento: distanziamento fisico, quarantena volontaria per casi sospetti, isolamento sanitario per i positivi. A ciò si aggiunga la quasi totale mancanza di materiale di protezione: mascherine, disinfettanti, guanti, ecc. (T. Burki, 2020; M. Cingolani, L. Caraceni, N. Cannovo, P. Fedeli, 2020). Sono state attivate misure straordinarie, sia per il personale penitenziario sia per i detenuti, che se da un lato hanno limitato ancora più i diritti dei cittadini ospitati all’interno delle carceri, dall’altro hanno minato i particolari equilibri dell’intero sistema penitenziario nazionale. Le proteste scoppiate in tutta Italia in piena pandemia da Corvid-19 sono nella memoria di tutti. Nonostante le circolari provenienti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a tutt’oggi la vita in carcere non è ancora ripresa, i colloqui del detenuto con i familiari si sono fortemente ridotti e si svolgono con un vetro divisorio e con il citofono come al regime 41-bis.
In questo quadro si deve sottolineare la condizione dei detenuti psichiatrici e tossicodipendenti, che presentano notevoli difficoltà nel ricevere le cure anche se seriamente malati. Queste persone avrebbero bisogno di essere altrove per poter accedere alle cure più complete. Invece sono impossibilitati ad avere una continuità diagnostico-terapeutica con psicologi, psichiatri ed assistenti sociali. Anche i magistrati di sorveglianza devono agire sempre nel rispetto della tutela della salute dei detenuti, indipendentemente dalle condanne loro comminate.
Purtroppo assistiamo sempre più a suicidi sia da parte dei detenuti sia da parte di agenti penitenziari, come nel caso dell’episodio avvenuto il 4 agosto scorso, quando un agente si è tolto la vita: era in servizio nel carcere di Latina, una delle più affollate d’Italia, ed è il quarto suicida fra gli agenti penitenziari. La sospensione delle visite da parte di parenti e familiari, così come di tutte le attività esterne e ricreative si è rivelata una misura obbligata di protezione collettiva, costituendo, se si vuole indicare una positività in questo contesto, anche una sfida tecnologica, con l’acquisto di dispositivi mobili e l’attivazione di canali di videoconferenza con i quali i detenuti sono potuti entrare in contatto con i propri familiari e i propri legali in modalità controllata. Dall’8 marzo le visite sono state sostituite da un numero di telefonate mensili e da videochiamate su diverse piattaforme digitali. L’introduzione di questi strumenti tecnologici non è stata omogenea. In alcune strutture si è ricorso a smartphone acquistati apposta. È un segnale: nessuno si era mai posto il problema di Internet all’interno delle carceri. Come ha spiegato Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti, “le videochiamate sono state una cosa bellissima, perché c’erano persone che non facevano i colloqui con i familiari nemmeno prima. Quindi hanno potuto rivedere parenti lontani: qualcuno ha visto la madre dopo anni, magari perché vive in un’altra parte d’Italia o più spesso all’estero” (Il Post, 2020). L’auspicio è che questa novità nata in un momento di crisi consenta il ripensamento delle criticità all’interno delle strutture carcerarie e si faccia motore di un rinnovamento anche digitale che ponga queste strutture al passo con i tempi, anche in situazioni non sospette.
In campo medico, ciò non significa che vada fatto un uso permanente della telemedicina: la tecnologia non può sostituire il contatto tra medico e paziente. Il rischio è sempre l’abuso (J. Gunn, 2020). Però l’utilizzazione di piattaforme tecnologiche come la telemedicina può rappresentare una buona modalità per seguire l’evoluzione di una patologia, dopo che la prima visita è stata eseguita dal vivo con un contatto diretto con la persona malata.
Le iniziative del Governo non hanno portato ad una soluzione idonea a risolvere i problemi. Una possibilità sarebbe quella di puntare con più forza su un piano di scarcerazioni che rilasci quei detenuti che scontano condanne brevi per reati non violenti, quelli vicini alla fine della pena e quelli in condizioni di salute precarie. Attraverso questi interventi si potrebbe raggiungere l’obiettivo di ridurre la popolazione carceraria di circa 9.000/10.000 detenuti, migliorando così la situazione all’interno delle carceri. Ciò sarebbe giusto sia per chi vi lavora sia per i detenuti. Occorre agire il prima possibile poiché l’alternativa sarà l’agitazione nelle carceri e l’aumento di persone detenute malate. Solo in questo modo ci potrebbe essere una vera e propria ripartenza all’interno delle carceri, offrendo dignità e salute a tutti.
Conclusioni: cosa fare?
Affermava Fëdor Dostoevskij che il grado di civiltà di una nazione si misura entrando nelle sue prigioni (P. Tozzo, G. D’Angiolella, L. Caenazzo, 2020).
Oltre a risolvere i problemi antichi del sistema carcerario italiano, ripartendo da una nuova idea di spazio, occorre ritornare al rapporto tra medico e paziente e ripensarlo alla luce delle dinamiche relazionali dell’ascolto e dell’accoglienza. La Medicina narrativa può in questo senso giocare un ruolo importante, non solo nell’ambito della cura nel senso più materiale del termine. L’accoglienza e il dialogo possono infatti, in determinate e favorevoli condizioni, fornire un supporto fondamentale, specie laddove subentrino problematiche assai frequenti come quelle di natura psicologica.
Il personale sanitario non dovrebbe mai perdere di vista la salute complessiva della persona detenuta: il primo dovere verso ogni elemento dell’istituto penitenziario è di natura clinica. Il giuramento di Atene del 1979 dello International Council of Prison Medical Services lo indica a chiare lettere:
“We, the health professionals who are working in prison settings, meeting in Athens on September 10, 1979, hereby pledge, in keeping with the spirit of the Oath of Hippocrates, that we shall endeavour to provide the best possible health care for those who are incarcerated in prisons for whatever reasons, without prejudice and within our respective professional ethics”.
In termini operativi, la tutela della salute delle persone detenute o private della libertà deve ovviamente passare da una maggiore disponibilità di trattamenti specifici:
In termini operativi, la tutela della salute delle persone detenute o private della libertà deve ovviamente passare da una maggiore disponibilità di trattamenti specifici: una campagna di vaccinazioni, dovrebbe essere seguita da uno studio critico-epidemiologico delle singole realtà penitenziare. Parallelamente, l’investimento deve essere di tipo socio-culturale. Investire nella persona, nel potenziamento dell’identità e nella sua formazione in una prospettiva che deve abolire il paternalismo e porsi nell’ottica dell’ascolto e della condivisione, in una crescita globale che preveda la valorizzazione delle competenze. Complessivamente è vero che i laureati in carcere sono progressivamente aumentati nel corso degli anni: nel 2005 il loro numero era pari a 565 unità, di contro ai 705 del 2019; ma è vero anche che è aumentato il numero complessivo degli analfabeti detenuti, dagli 852 del 2005 ai 1.054 del 2019.
Investire nella formazione della persona all’interno del carcere e insistere in una rinnovata cultura della legalità anche, dati i tempi, all’interno delle scuole, con specifiche campagne di sensibilizzazione: misure preventive che includano quindi l’offerta di informazione, l’educazione, campagne di screening e contro i comportamenti considerati a rischio (G. Niveau 2007; S. Gainotti, C. Petrini, 2019). Inoltre, una prospettiva transculturale più che multiculturale deve innescarsi nella formazione del personale penitenziario, sempre più a contatto con detenuti provenienti da tutte le parti del mondo.
Occorre uno sguardo che vada al di là del momento contingente, che sia proiettato al futuro. Spesso si dimentica che la maggior parte degli istituti penitenziari accoglie uomini e donne che, scontata la propria pena, rientreranno nella società civile. Le istituzioni dovrebbero garantire a tutte le persone detenute possibilità di un lavoro adeguatamente retribuito e corsi di alfabetizzazione, istruzione, lingua per stranieri e formazione professionale, adeguati alle esigenze del mercato di lavoro. Sarebbe importante che i detenuti mantenessero dei legami con il mondo esterno, ad esempio attraverso stampa e mezzi di informazione, oppure seguendo particolari attività artistiche o culturali, in modo da favorire un reinserimento positivo.
Dal punto di vista strettamente operativo l’esperienza pandemica ha indicato le potenzialità di una tecnologia impiegata anche per scopi alternativi. Su un piano socio-economico lo sfruttamento di queste opportunità può operare nella direzione positiva di un superamento di quel digital-divide spesso indicato come un discrimine politico tra ricchi e poveri.
Non si tratta solo di avere parametri ematologici o di laboratorio nella norma per dirsi sano. La salute è una realtà assai più complessa e il carcere è il luogo meno salubre nell’accezione più vasta del termine.
Garantire la tutela della salute di tutti è un dovere e anche l’efficacia della prossima campagna di vaccinazione per il Covid-19 dipenderà dalla sua universalità, come si legge nella lettera manifesto che Muhammad Yunus – Nobel per la pace nel 2006 – ha rivolto mesi fa ai leader mondiali.
Forse il coronavirus ha squarciato il velo di Maia, ed è ora lo specchio che riflette la nostra incapacità di rispettare tutti gli esseri viventi, di avere attenzione nei confronti di tutto ciò che ci circonda.
Forse il coronavirus ha squarciato il velo di Maia, ed è ora lo specchio che riflette la nostra incapacità di rispettare tutti gli esseri viventi, di avere attenzione nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Abbiamo perso, in definitiva, quel senso mistico di fronte all’infinita bellezza del pianeta. Sappiamo che questa pandemia non sarà l’ultima. Sono oltre 1,6 milioni le specie virali sconosciute in mammiferi e uccelli, di cui 700.000 avrebbero il potenziale per innescare una nuova zoonosi, un nuovo salto di specie pronto ancora a metterci in ginocchio. Non siamo ancora capaci di prenderci cura di tutto il creato. Consideriamo le persone, gli animali e le foreste materie prime per la nostra sopravvivenza. L’umanità fatica a rendersi conto che l’attenzione al pianeta deve essere la stessa che noi medici abbiamo per il corpo umano, che è uguale per tutti. Ci manca la sollecitudine e la tenerezza di un abbraccio gratuito. Se vogliamo garantire la salute di un paese dobbiamo partire dalle fasce più marginali, più fragili, perché sono quelle più a rischio. Non è solo una questione di solidarietà o civiltà: è una scelta scientifica, un’idea clinica, di epidemiologia e di politica sanitaria, perché un paese dove le persone sono malate è destinato al sottosviluppo economico, oltre che all’aridità dell’anima.
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References
↑1 | Direttore Scientifico Istituto Dermatologico San Gallicano (IRCCS), Roma. Una versione in inglese più ampia di questo contributo è stata pubblicata sulla rivista Antigone. Semestrale di critica del sistema penale e penitenziario, liberamente consultabile a questo link https://www.antigone.it/rivista/ |
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