La privazione degli affetti personali, di uno spazio proprio e della capacità di decidere autonomamente possono causare diversi scompensi, fisici e psicologici.
Ingresso in carcere e maternità
Spesso, nella fase iniziale della detenzione, tra le persone detenute si riscontrano disturbi psicologici che possono essere legati all’arresto, all’imprigionamento, al rimorso per il delitto commesso, alla previsione della condanna, o a disturbi preesistenti. Con l’ingresso in carcere la persona perde il ruolo sociale che aveva prima. La privazione degli affetti personali, di uno spazio proprio e della capacità di decidere autonomamente possono causare diversi scompensi, fisici e psicologici. Nelle carceri femminili vi è un’ulteriore variante. Rispetto ai padri detenuti, le detenute madri sembrano vivere con maggiore difficoltà il peso della detenzione, che è aggravato da un maggiore dolore per il distacco dai figli.
La detenzione comporta una completa dipendenza dall’istituzione; come conseguenza si manifestano spesso ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e crisi di identità. All’inizio della carcerazione i disturbi d’ansia possono manifestarsi come crisi d’ansia generalizzata. Se poi il disadattamento persiste, possono sopraggiungere attacchi di panico e claustrofobia. Nel carcere femminile di Pozzuoli, dove Antigone ha uno sportello di informazione legale che la porta a incontrare settimanalmente delle donne detenute, ci è capitato spesso di riscontrare questi sintomi in donne che facevano per la prima volta ingresso in un istituto penitenziario. Molte tra le 181 persone attualmente detenute in quel carcere sono madri private della responsabilità genitoriale, in conseguenza di una pena accessoria o di una decisione emessa dal Tribunale dei Minori.
Alcuni casi sono ancora più tragici. Si pensi agli ingressi in carcere di donne in gravidanza, che a volte sono anche a rischio. Quali possibilità hanno queste persone di portare avanti la gravidanza in maniera sana? Quali conseguenze ha la detenzione per la diade?
A. ci ha raccontato di provare sensazioni gravi di soffocamento, fame d’aria, tachicardia e vertigini
La storia di A.L.
Abbiano deciso di raccontare la storia di A. L., una donna di 30 anni, di origini rumene, in quanto ci è sembrato che aprisse uno squarcio nel sistema dell’esecuzione penale. A. è entrata nel carcere femminile di Pozzuoli a marzo 2019, incinta di quasi 3 mesi. Non parlava bene italiano ed era molto spaventata. Il Gip di Santa Maria Capua Vetere aveva disposto per lei gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Ma in seguito gli atti sono passati a Napoli, per una questione di competenza territoriale, e il pubblico ministero ha chiesto la custodia cautelare in carcere, poi disposta dal Gip. La ragazza si è avvicinata al nostro sportello spinta da altre ragazze, che le hanno consigliato di chiederci aiuto; era spaventata, si stringeva il grembo. Ci ha raccontato della sua gravidanza a rischio e della paura di perdere la potestà genitoriale dei suoi 7 figli, di cui 4 erano già in affido. Quando l’abbiamo conosciuta, A. presentava tutti i sintomi della cosiddetta “sindrome da ingresso in carcere”, che si manifesta sia con disturbi psichici che psicosomatici e compare tanto più frequentemente e pesantemente quanto più elevato è il grado di educazione, sensibilità e cultura del soggetto, costituendo uno dei momenti più drammatici dell’esistenza. Da un punto di vista sintomatologico la “sindrome da ingresso in carcere” presenta: disturbi dispeptici (inappetenza, senso di peso gastrico, ecc.), morboso disgusto per tutti i cibi con conseguente impossibilità di alimentarsi (Sindrome di Gull), nonché violenti e persistenti spasmi esofagei che non permettono la prosecuzione del cibo lungo il canale digerente. A. ci ha raccontato di provare sensazioni gravi di soffocamento, fame d’aria, tachicardia e vertigini; inoltre, da un punto di vista psicologico, presentava un forte stato d’ansia, agitazione psicomotoria, anedonia e disorientamento spazio-temporale. Dopo aver esplicitato i suoi problemi di salute all’amministrazione penitenziaria e dopo l’autorizzazione del Gip, è stata sottoposta a controlli all’ospedale La Schiana di Pozzuoli. Circa 10 giorni dopo la ginecologa del carcere ha accertato la morte del feto, alla quale ha fatto seguito l’immediato trasferimento in ospedale, per il raschiamento. Si è sospettato che il feto fosse morto già da qualche giorno. Dopo poche ore dall’operazione A. è tornata nel penitenziario femminile. Non vi è stato alcun riconoscimento del suo lutto, nessun supporto specialistico.
Carcere e maternità sembrano dunque mondi inconciliabili. Eppure molti bambini vivono , direttamente o indirettamente, per un periodo della loro vita, l’esperienza del carcere, avendo un genitore detenuto, e in alcuni casi entrambi.
La normativa
Se diamo uno sguardo alle norme in tema di provvedimenti restrittivi della libertà relativi alla condizione della detenuta madre o della donna incinta, troviamo che gli articoli 146 e 147 del Codice Penale, modificati dalla legge 40/2001, prevedono per questi soggetti il rinvio (obbligatorio e facoltativo) dell’esecuzione della pena. Anche il Codice di Procedura Penale contiene delle norme in merito a provvedimenti restrittivi della libertà nei confronti di donne incinte o di madri con figli piccoli. È prevista, fra le misure cautelari, solo come “estrema ratio”, la custodia in carcere, da applicarsi soltanto quando le esigenze cautelari, esistenti in concreto, non possono essere soddisfatte con nessuna delle altre misure. L’art. 275 c.p.p. dispone che essa possa essere applicata solo quando ogni altra misura risulti inadeguata.
Il legislatore ha però considerato l’eventualità che, anche qualora la custodia in carcere fosse l’unico rimedio utilizzabile, essa non possa essere disposta nei confronti di particolari soggetti. Ai sensi dell’art. 275, comma 4, c.p.p.: “Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole…”. Il legislatore, pertanto, si dimostra restio all’applicazione della custodia in carcere per esigenze cautelari nei confronti di donna incinta o madre di figli piccoli, poiché la tutela del rapporto madre-figlio ha il sopravvento e necessita di un’attenzione particolare e, quindi, di una disciplina altrettanto particolare.
Carcere e maternità sembrano dunque mondi inconciliabili. Eppure molti bambini vivono , direttamente o indirettamente, per un periodo della loro vita, l’esperienza del carcere, avendo un genitore detenuto, e in alcuni casi entrambi. Al 30/11/2020 erano 31 le madri presenti nelle carceri italiane, con 34 figli al seguito. Rispetto ad A.L., ci si chiede quale futuro avrebbe atteso la madre con il suo bambino. Una doppia carcerazione? La perdita della potestà genitoriale?
Ogni individuo, qualunque sia la sua situazione contingente, è titolare, in quanto persona, di diritti inalienabili.
La responsabilità genitoriale, tra presunzione di inadeguatezza del ristretto e funzione rieducativa della pena
Il problema del rapporto tra genitorialità e detenzione si pone in ogni istituto di pena. La questione è resa quanto mai attuale da una recente pronuncia della Corte di Cassazione 1)Corte di Cassazione, Sezione sesta Civile, ordinanza del 10 gennaio 2020 n.319., con la quale si fa dipendere lo stato di abbandono del figlio dalla condizione di reclusione di entrambi i genitori, con inevitabili ripercussioni sulla perdita definitiva della genitorialità e sull’adottabilità del minore. La prospettiva di tutela dei diritti delle persone detenute richiede di porsi in un rapporto dialettico sia con l’intrinseca complessità del sistema penale che con i sistemi regolativi delle relazioni umane. Ogni individuo, qualunque sia la sua situazione contingente, è titolare, in quanto persona, di diritti inalienabili. A ciò si aggiunga il fatto che il carcere, come previsto dalla Costituzione, dovrebbe avere sempre un ruolo rieducativo, mai meramente punitivo. Rispetto alla questione del rapporto tra genitorialità e privazione della libertà, non è di certo positiva la perdita di vigore del dibattito sulle pene alternative, quali la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà. Per quanto i dati mostrino da tempo come queste espletino in maniera più efficace quel reinserimento sociale di derivazione costituzionale, abbattendo i tassi di recidiva.
Una maggiore applicazione delle pene alternative, unita a una più ampia previsione normativa della loro applicabilità, consentirebbe di certo una più forte garanzia del mantenimento del legame genitore-figlio.
Storia di P.A.
Paradigmatica in tal senso è la storia di P. A., di origini nigeriane, madre di un bambino che rappresenta il suo unico legame col mondo esterno. P. non vede suo figlio da almeno 2 anni e quando (il 17 maggio 2019) si è vista notificare un provvedimento del Tribunale dei Minori, si è rivolta a noi per comprenderne il contenuto. Quello che stringeva tra le mani era un provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale, già divenuto inoppugnabile perché decorso il termine di appena 10 giorni entro il quale è possibile proporre reclamo. In seguito alla condanna di 6 anni di reclusione e alla sospensione della responsabilità genitoriale, infatti, T., il figlio, era stato affidato temporaneamente ad una coppia di coniugi, che, in seguito, ne ha ottenuto l’affido definitivo. Negli occhi di P. si legge l’incredulità di chi non riesce a rassegnarsi dinanzi ad un provvedimento che segna definitivamente la fine del rapporto con suo figlio. Le sue compagne le spiegheranno che è questo il destino delle madri in carcere. Forse rivedrà suo figlio quando avrà raggiunto la maggiore età. Tutte loro hanno deciso di prestare il consenso all’adozione dei propri figli, accontentandosi di contatti sporadici.
La tutela del minore nell’ordinamento italiano
Nel nostro ordinamento la tutela del minore viene garantita attraverso un doppio meccanismo che opera sia in sede civile che penale. Ratio comune alle diverse normative è la cura prioritaria del sereno sviluppo del minore, alterato dalla condotta dei genitori che abusano dei propri doveri o li trascurano, o ancora che commettono reati strettamente connessi alla loro funzione genitoriale. Nel primo caso, i provvedimenti vengono adottati dal giudice tutelare su richiesta di parte (altro genitore, affidatario temporaneo, PM) o anche d’ufficio. In sede penale, invece, la perdita o sospensione della responsabilità genitoriale si configura come pena accessoria, applicabile nei casi previsti dalla legge, o talvolta in base ad una valutazione del giudice.
La reiterata violazione o trascuratezza degli obblighi che in sede civile sono posti a carico dei genitori consente al giudice tutelare di disporre la decadenza della responsabilità genitoriale, laddove l’attività di monitoraggio dei servizi sociali rilevi l’incapacità di provvedere alla prole. Tra gli elementi presi in considerazione a tal fine assume un ruolo centrale lo stato di abbandono morale e fisico in cui eventualmente verte il minore, e che la Corte di Cassazione fa discendere automaticamente dallo stato di detenzione dei genitori. È stato, infatti, precisato di recente che “la condizione di abbandono del minore può essere dimostrata anche dallo stato di detenzione al quale il genitore sia temporaneamente assoggettato, trattandosi di circostanza che, essendo imputabile alla condotta criminosa posta in essere dal genitore nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione, non integra gli estremi della causa di forza maggiore”. Si vede così accolto l’automatismo per cui il ristretto è di per sé incapace di attendere alle esigenze e alla cura dei propri figli. Per altro versante, in sede penale la perdita o sospensione della responsabilità genitoriale derivano dall’applicazione di una pena accessoria. In particolare, la perdita viene disposta quando il ruolo di genitore è elemento costitutivo del reato (reati di violenza sessuale su minore, maltrattamenti, abuso dei mezzi di correzione), o in caso di condanna all’ergastolo. La sospensione invece, viene disposta in presenza di abuso della responsabilità o in caso di condanna ad una pena di reclusione superiore a 5 anni e per tutto il periodo relativo all’espiazione della stessa, salvo che il Giudice, tramite l’utilizzo dei poteri discrezionali riconosciutigli, disponga altrimenti. In tale ultima ipotesi, si prescinde dalla natura del reato e da un giudizio effettivo circa la compromissione del ruolo genitoriale. La ratio della norma, infatti, è quella di tutelare il minore impedendo che una persona non presente nella quotidianità possa influire indebitamente sul suo sviluppo psicofisico.
Se, dunque, nel nostro ordinamento la tutela del minore assume un ruolo prioritario tanto quanto la funzione rieducativa della pena, occorre individuare strumenti alternativi per preservare il rapporto madre-figlio.
Un principio di dubbia applicazione
Non può considerarsi, tuttavia, esclusivamente preordinato a tal fine un quadro normativo che recide ogni collegamento tra genitori e figli anche quando la preservazione del rapporto familiare non è compromessa dalla condotta criminosa. Occorre infatti evidenziare che ad essere privati della responsabilità genitoriale sono altresì gli autori di reati non connessi alla funzione genitoriale. Dai dati relativi alla detenzione femminile emerge che su 2.248 donne ristrette, la maggior parte ha commesso reati contro il patrimonio o relativi al traffico di stupefacenti.
Dall’assetto legislativo nonché dalla casistica giurisprudenziale, emerge una presunzione di inadeguatezza e inattitudine del detenuto a partecipare alla vita familiare e ad assumere decisioni nell’interesse dei propri figli. Essa appare frutto di un pregiudizio che vede il ristretto come un cattivo modello, non solo nel contesto sociale ma anche in quello familiare, privandolo del suo ruolo nel rapporto con la prole. Sul piano civilistico, in particolare, la privazione della responsabilità genitoriale deriva dalla fisiologica assenza del genitore recluso, che raramente riesce ad ottemperare ai suoi obblighi. L’esercizio dei suoi diritti-doveri è confinato in sporadici colloqui e conversazioni telefoniche, tenuti per lo più in presenza di terzi e in un ambiente inadeguato per i rapporti familiari. Gli spazi destinati all’affettività sono in effetti inesistenti nella maggior parte degli istituti di pena italiani, e i luoghi in cui si svolge la vita detentiva costituiscono un trauma, in primis per il minore.
Tuttavia, non può prescindersi dalla considerazione che l’azione educativa di genitori consapevoli passi attraverso l’attenzione e la sollecitudine con la quale essi si occupano dei loro figli, e sotto tale aspetto la relazione madre figlio va preservata. A un approccio che propone la totale deresponsabilizzazione del detenuto, dovrebbe sostituirsene uno basato sull’assunzione di responsabilità e formazione all’interno del nucleo familiare. La dimensione affettiva connessa alla maternità ha, in tal senso, una sua valenza culturale e dovrebbe essere considerata elemento di trattamento e punto di partenza nel processo di risocializzazione. Diversamente, la sua assenza produce la destrutturazione del contesto familiare. Pertanto, la possibilità di continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale attraverso l’assunzione di decisioni relative alla vita e alla cura della prole, contribuisce a rendere effettivo il principio di rieducazione della pena. La negazione del rapporto familiare in virtù di un automatismo legislativo integra la violazione di un diritto costituzionalmente garantito indistintamente ad uomini liberi e ristretti, e risponde ad una logica meramente retributiva della pena. Siffatta violazione si verifica ogni qualvolta lo Stato non predispone gli strumenti che possano consentire al detenuto che ne sia grado di continuare ad essere genitore. Se, dunque, nel nostro ordinamento la tutela del minore assume un ruolo prioritario tanto quanto la funzione rieducativa della pena, occorre individuare strumenti alternativi per preservare il rapporto madre-figlio.
Altro aspetto che merita considerazione è quello attinente i percorsi di accompagnamento alla genitorialità in carcere, allo stato attivi soltanto in pochi istituti, come quelli di Bollate, Opera, San Vittore, Torino.
Tutela dei diritti delle donne detenute
In tale prospettiva, le misure alternative alla detenzione introdotte appositamente per le madri in carcere ricevono ancora scarsa applicazione nella pratica, per i rigorosi requisiti che la normativa stessa pone. Le detenzione domiciliare speciale per detenute madri, in realtà, non è subordinata a limiti di pena (non superiore ai 4 anni) e alla natura del reato (inaccessibile agli ostativi) della detenzione semplice. Essa è accessibile a prescindere dalla pena comminata, ma a condizione che, per le pene superiori ai 4 anni, ne sia stata scontata almeno 1/3, o 15 anni in caso di condanna all’ergastolo. Inoltre, per le detenute che hanno commesso reati ostativi, l’accesso al beneficio è subordinato ad una condotta collaborativa con la giustizia o un giudizio circa l’irrilevanza di una tale collaborazione. Ulteriori presupposti sono la possibilità di ripristinare delle condizioni di convivenza con i minori, nonché un giudizio relativo all’assenza del pericolo di commissione di altri reati.
Sebbene l’intervento del legislatore abbia rappresentato un passo in avanti nella tutela della maternità, nella pratica le condizioni poste dalla normativa non consentono un rilevante accesso al beneficio. Il giudizio di assenza del pericolo di commissione di altri reati, inoltre, rende difficile l’accesso alla misura per le detenute tossicodipendenti o appartenenti ad etnie nomadi, per le quali i tassi di recidiva sono alti.
Altra misura in favore delle detenute-madri è prevista dall’art. 21 bis della legge 354/75, che consente alle condannate e internate di assistere all’esterno i propri figli minori di 10 anni. In presenza di condanna per reato ostativo, tuttavia, l’accesso al beneficio è subordinato all’espiazione di un 1/3 della pena, o di almeno 5 anni. Rispetto a tale limite è intervenuta una pronuncia di illegittimità della Corte costituzionale 2)Sentenza 23/07/2018 n° 174., secondo la quale i requisiti legislativi previsti per l’accesso all’assistenza di cui all’art. 21 bis non possono coincidere con quelli per l’accesso al lavoro all’esterno. Il primo, infatti, è un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire il rapporto tra madre e figli in tenera età, il secondo è preordinato al reinserimento sociale del condannato. L’equiparazione delle due misure si pone in contrasto con l’art. 31 della Costituzione, giacché condiziona in via assoluta e presuntiva il rapporto tra madre e figlio ad un indice legale del “ravvedimento” della condannata. Altro aspetto che merita considerazione è quello attinente i percorsi di accompagnamento alla genitorialità in carcere, allo stato attivi soltanto in pochi istituti, come quelli di Bollate, Opera, San Vittore, Torino.
Tale progetto si avvale del lavoro di psicologi che seguono il genitore detenuto, creando un ponte con il figlio e la famiglia, nonché con i servizi territoriali. Ciò al fine di sostenere la relazione genitoriale, anche attraverso il supporto durante le visite familiari. Alla stessa logica risponde l’intento di creare spazi destinati all’interazione tra genitori e figli diversi da quelli in cui si tengono i colloqui ordinari e che richiamino un ambiente più familiare. L’esigua attivazione di questi percorsi è data dalle scarse risorse impiegate dal sistema penitenziario nell’assunzione di personale civile qualificato, e dal fatto che l’intervento sia allo stato appannaggio esclusivo del terzo settore. È ancora troppo forte il disinteresse dell’istituzione rispetto all’affettività e alla genitorialità che, diversamente, dovrebbero essere prioritari nella tutela dei diritti dei detenuti e dei loro figli. L’indifferenza verso ciò che accade nelle carceri significa anche indifferenza ed ingiustizia della società verso la persona umana.
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