E sono proprio le attività formative – oltre a quelle ricreativo-culturali – ad aver pagato il prezzo più alto di una sospensione che in molti degli istituti italiani sembra protrarsi in un tempo indefinito e che tuttora non sembra aver ripreso la sua quotidianità.
Il duro impatto che il Covid-19 ha avuto nell’anno appena trascorso ha isolato più che mai il sistema carcerario dal mondo esterno. A partire dal marzo 2020, la popolazione ristretta si è vista privata non solo della possibilità di incontrare le famiglie e gli affetti più vicini, ma anche tutti quei soggetti che quotidianamente prestavano i loro servizi all’interno delle mura detentive: dagli insegnanti, ai volontari, ai responsabili esterni delle attività formative.
La grande maggioranza – per non dire la totalità – dei progetti formativi ha subito una forte battuta di arresto dovuta al divieto di ingresso di soggetti terzi all’interno dei penitenziari e alla mancata possibilità di effettuare formazione in videoconferenza, a differenza di quanto è invece accaduto per i corsi scolastici. Nel corso del primo semestre del 2020 sono infatti stati attivati solo 92 corsi di formazione professionale rispetto ai 203 del secondo semestre del 2019, i partecipanti sono stati 758 rispetto ai 2.506 dei mesi precedenti, di fatto assistendo ad una diminuzione di oltre un terzo degli utenti che vi hanno potuto prendere parte. Le percentuali non migliorano rispetto al numero dei corsi terminati, i quali sono stati solo 38 rispetto ai 119 dell’ultimo semestre del 2019, e nemmeno rispetto ai soggetti promossi che sono stati 352 rispetto ai 1.164 dell’anno precedente.
Fonte: elaborazione sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria
Non sono solo i partecipanti a diminuire, ma anche il numero di corsi erogati e terminati, da anni infatti il trend dell’erogazione dei corsi formativi è in forte decrescita: a partire dagli anni ’90 dove le percentuali degli iscritti sul numero dei presenti si aggiravano intorno al 7,75% del totale della popolazione detenuta, l’andamento poi è andato via via diminuendo, salvo toccare un altro picco di iscritti del 6,71% subito dopo l’indulto, per raggiungere poi la percentuale dell’1,41% – la più bassa mai toccata – nel secondo semestre dell’anno passato. Se nel passato si attivavano più corsi, ne terminavano anche meno, negli ultimi anni infatti lo scarto tra i corsi attivati e quelli terminati sembra sia andato riducendosi.
Fonte: elaborazione sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria
Mai così pochi corsi di formazione
Calano gli iscritti ai corsi ed il numero di corsi erogati, di fatto producendo un abbassamento dell’offerta formativa che sembrerebbe essere riconducibile non solo ad una limitatezza dei fondi a supporto delle attività formative, ma anche alla mancata gestione a livello nazionale della formazione professionale, come invece avviene per i corsi di istruzione scolastica. Da un lato, infatti, l’istruzione professionale e l’istruzione scolastica in generale sono gestite dal Ministero dell’Istruzione-Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR), mentre quella definita ‘formazione professionale’ è ambito di competenza delle Regioni e, nello specifico, viene erogata da Enti locali ed agenzie formative accreditate dalle Regioni stesse.
Se, da un lato, sono scesi i numeri dei partecipanti, dall’altro, è però aumentata la percentuale dei soggetti promossi che hanno frequentato quegli stessi corsi. Come si evince dal grafico che segue, infatti, si è assistito – negli anni – ad un aumento di soggetti ristretti che hanno portato a termine corsi professionali completando con successo la formazione ed ottenendo attestati e qualifiche professionali. L’erogazione, da un lato, dei gettoni di presenza solo una volta portato a compimento il corso o comunque buona parte di esso, ed il raggiungimento del valore atteso per le agenzie formative, dall’altro, ovvero di un numero di allievi tale che si prevede possa portare a termine il percorso formativo intrapreso con una frequenza dimostrata di almeno 2/3 delle ore del corso, sono due dei fattori che incidono nell’incremento del tasso dei soggetti promossi. Il raggiungimento del valore atteso consente poi, in sede di preventivo da parte delle Agenzie formative, di determinare l’importo massimo fruibile e, in sede di consuntivo, l’importo massimo riconoscibile da parte delle Regioni nei confronti degli Enti formatori. Appare chiaro che la predisposizione di un modello su base territoriale, attraverso l’utilizzo di partenariati inclusivi, costituisce di certo una buona pratica nell’accompagnamento all’inserimento lavorativo (V. Lamonaca, 2015). Cionondimeno, la limitatezza dei fondi regionali rispetto a quelli statali previsti per l’istruzione possono di fatto incidere sulle opportunità per i soggetti ristretti di formarsi compiutamente ed in maniera altamente specializzata e professionale al fine di poter ottenere un efficace reinserimento nel tessuto sociale e del mercato del lavoro (P.A. Allegri, 2020).
Fonte: mia elaborazione sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Sezione Statistica
Come si evince dalla tabella che segue, infatti, Regioni che hanno più fondi a disposizione e che decidono di investire sulla formazione professionale sono in grado di fornire un numero maggiore di corsi. Nello specifico, si può vedere come il Piemonte, la Lombardia, la Sicilia ma anche le Marche abbiano attivato il numero di corsi più alto rispetto al resto del panorama italiano. Alcune Regioni sono poi maggiormente inclusive per quanto riguarda l’accesso ai corsi da parte dei soggetti ristretti di origine straniera: nel corso dell’ultimo semestre dell’anno 2019 infatti l’Abruzzo (100%), così come l’Umbria (61,2%), la Lombardia (56,1%), l’Emilia Romagna (48,8%), ed il Piemonte (40,4%) hanno visto una presenza particolarmente partecipata di soggetti stranieri.
Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Sezione Statistica
Questi corsi coprono una vasta gamma di progettualità: dalla sartoria, alla falegnameria, all’ impiantistica elettrica, alla manutenzione di edifici e manutenzione di aree verdi.
Fonte: Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Sezione Statistica
Il lavoro penitenziario
L’offerta formativa è di certo varia, ma è maggiore nei settori della cucina e della ristorazione, così come in quelli di giardinaggio e agricoltura, insieme all’edilizia e all’elettrica che rappresentano gli ambiti comuni delle lavorazioni interne agli istituti penitenziari. Come è immaginabile, la pletora dei corsi offerti dalle agenzie formative tenta – ancor prima di dare risposta ai bisogni occupazionali del territorio – di creare percorsi formativi che permettano di sviluppare delle competenze utili ai bisogni occupazionali dell’istituzione carceraria stessa. Molto spesso, infatti, l’efficacia interna dei corsi è interpretabile in termini di disciplinamento, occupazione del tempo, del “Doing Time” (R. Matthews, 1999) ed ha una ricaduta meramente interna al contesto penitenziario che permette al carcere di sopperire alle necessità di mantenimento dell’istituzione stessa e di garantire un salario minimo per coloro che svolgono attività lavorativa interna. Purtroppo non esistono dati in termini di occupabilità ed efficacia dei corsi di formazione professionale all’esterno dell’istituzione penitenziaria. L’auspicio è quello che possa venir prevista una progettualità che superi la logica dei bandi a spot e che veda nella formazione e nella tessitura di relazioni con il territorio l’elemento su cui fondare le politiche attive del lavoro. Accanto agli sgravi contributivi e fiscali – previsti dalla famosa legge Smuraglia – è perciò opportuno costruire partenariati forti tra l’istituzione penitenziaria, gli enti formatori ed il mondo imprenditoriale in quanto la formazione interna, se non seguita da opportunità lavorative esterne, è fine a sé stessa e poco in grado di incidere sui tassi di recidiva (F. Leonardi, 2007; L. Davis et al., 2013; L. Manconi, G. Torrente, 2015). La letteratura sul tema conferma invero che coloro che durante il periodo di detenzione hanno avuto occasioni formative e lavorative incontrano, una volta scontata la condanna e rientrati nella società libera, meno ostacoli nel reinserimento nel mondo del lavoro (G. Caputo, 2020). Nel corso del secondo semestre del 2020 tutti i penitenziari italiani, a seguito dell’emergenza sanitaria in corso, hanno però dovuto adattare misure differenti per la somministrazione dei corsi di formazione professionale, così come è stato fatto per i corsi didattici, ma l’assenza di una strategia comune ha ceduto il passo alla discrezionalità dei singoli istituti sul definire come e con quali modalità assicurare la continuazione delle attività formative. Se da un lato è stato possibile sopperire con le nuove tecnologie (Skype, Google Meet e Zoom) alle esigenze della didattica a distanza, altrettanto non è stato possibile fare con la formazione professionale. Ai soggetti esterni è stato vietato l’ingresso in carcere di fatto creando uno statico immobilismo e lasciando la popolazione ristretta in un’attesa dai tempi indefiniti. Come è facilmente immaginabile, tutti i corsi formativi che prevedono l’utilizzo di laboratori (corsi di cucina, panificazione, falegnameria, impiantistica) non hanno potuto svolgersi mediante modalità telematiche e a distanza. E non sono state solo le attività formative e scolastiche a subire una battuta d’arresto, ma anche quelle lavorative.
Fonte: Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Sezione Statistica
Dal grafico emerge infatti come, al 30 giugno 2020, ben 12.266 – pari all’81,5% del totale di coloro che svolgono attività lavorativa – sono ricompresi tra i detenuti lavoranti alle dipendenze della Amministrazione Penitenziaria e quindi impiegati in quelle attività concernenti i servizi di istituto, come le attività di cuochi e aiuto cuochi, addetti alla lavanderia, addetti alle pulizie, porta vitto e magazzinieri. 1.115 persone – pari al 7,4% – sono invece incaricate dei servizi di manutenzione ordinaria dei fabbricati (MOF), va sottolineato in questa sede che queste posizioni vengono assegnate a soggetti che abbiano già competenze personali relative alla mansione assegnata o le abbiano acquisite durante i corsi di formazione, a titolo esemplificativo vi rientrano elettricisti, idraulici, imbianchini e giardinieri. Solo una piccola percentuale di questi soggetti è ammessa al lavoro esterno, in art. 21 O.p., sono infatti solo 793 i soggetti ammessi a prestare la loro attività – sia essa gratuita che stipendiata – all’esterno dall’istituzione penitenziaria. Dal grafico che segue si evince come, da sempre, i lavoratori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria costituiscono la maggioranza, la media nel corso degli anni infatti non è mai stata inferiore all’85,6%, rispetto alla 14,5% dei detenuti lavoranti per soggetti terzi rispetto al carcere. Media, quest’ultima, che negli anni è andata calando, a differenza dei lavoranti interni che, invece, sono negli aumentati.
Fonte: mia elaborazione sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Sezione Statistica
Tra coloro che non lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, i semiliberi impiegati in attività lavorative sono 732, di cui 27 lavorano in proprio e 705 per datori di lavoro esterni. Lavorano in istituto ma per conto di imprese o cooperative rispettivamente 184 e 596 ristretti, un numero in discesa rispetto ai 245 e 686 detenuti dell’anno 2019. Il fatto che il 76,4% dei detenuti lavori per conto di cooperative sociali rappresenta il risultato del completamento della riforma della privatizzazione del lavoro penitenziario con cui si era cercato di risolvere la questione della scarsa competitività della manodopera della popolazione detenuta di fatto delegandola al privato sociale e, nello specifico, alle cooperative che godono degli sgravi fiscali e contributivi non solo per i detenuti, gli art. 21 e i semiliberi, ma anche per la generalità delle misure alternative, cosa che invece non è concessa alle imprese private, rimarcando così la separatezza tra carcere e mercato del lavoro (G. Caputo, 2020).
Lavorare “fuori” dal carcere
Fonte: mia elaborazione sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Sezione Statistica
Sempre meno appaiono le possibilità per la popolazione detenuta di svolgere attività lavorative all’esterno delle mura detentive. Dai numeri che emergono dal grafico che segue, infatti, nell’ultimo triennio i numeri dei soggetti in art. 21, sia alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria che di soggetti esterni, sono andati diminuendo rappresentando una tendenza che non sembra essere giustificata esclusivamente dall’impatto dell’emergenza sanitaria.
Fonte: mia elaborazione sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria – Sezione Statistica
Il numero dei semiliberi ha invece subito una battuta d’arresto nell’ultimo anno rispetto al triennio precedente: da un trend in crescita dell’ultimo biennio (2018 e 2019) si è passati da 807 persone nel 2019 a 732 nel giugno 2020.
La riforma dell’Ordinamento penitenziario che ha normato il lavoro penitenziario ha portato di certo alcune novità importanti rispetto alla normativa precedente, ma permangono alcuni profili problematici a riguardo, come il mancato incremento delle opportunità di lavoro retribuite, soprattutto, con le imprese esterne. L’aspetto retributivo – ma anche quello contributivo – rappresentano un fattore fondamentale per il detenuto lavoratore, è per questo motivo che molti dubbi sono stati mossi nei confronti dell’introduzione dell’art 20-ter O.p. e, più in generale, della disciplina dei lavori di pubblica utilità ossia quelle attività che il soggetto condannato svolge volontariamente e gratuitamente a titolo di risarcimento indiretto del danno simbolico inflitto alla società (P. Bronzo, 2018). Non poche sono però le perplessità nel considerare i lavori di pubblica utilità – che si ricorda essere sprovvisti di tutele giusvaloristiche di ogni grado e sorta – come attività di mero volontariato, considerato non solo che vengono prese in considerazione le professioni dei detenuti e le loro skills professionali, ma anche che molte delle attività in cui dovrebbe essere impiegati altro non fanno se non ricalcare quelle svolte da detenuti assunti presso le cooperative sociali (G. Caputo, 2020). Dai dati raccolti durante le visite dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione nel 2020 emerge come in 14 degli istituti visitati, ovvero il 31,8%, sono attivi i programmi di pubblica utilità all’esterno del istituto penitenziario, a dimostrazione del fatto che sono molte le Amministrazioni pubbliche che sottoscrivono Protocolli con l’Amministrazione penitenziaria al fine di coinvolgere detenuti nei lavori di pubblica utilità, di fatto facendo fede su una maggior offerta di lavoratori in regime di volontariato che costituisce un bacino di lavoro gratuito sempre più ampio da cui attingere (P.A. Allegri, 2020). L’auspicio è che, dopo questo anno complicato sotto ogni aspetto, si investa sul lavoro e vengano incrementate le possibilità lavorative retribuite sia all’interno che all’esterno dell’istituzione penitenziaria e che le attività formative, così come per le attività scolastiche, possano far buon uso delle nuove tecnologie, facendo leva sulla compensazione tecnologica tra diritti negati e nuove concessioni al fine di investire su una formazione permanente e altamente specializzata con contatti utili all’ingresso nel mondo del lavoro (F. Vianello, 2018; D. Ronco, G. Torrente, 2017; J. Travis, 2009). Qualsiasi per quanto minimo tentativo precario di collocamento all’esterno dell’istituzione penitenziaria è il punto verso cui tendere in quanto rappresenta il primo passo verso della ricollocazione in società ed il riacquisto dell’autonomia, dell’indipendenza economica e del valore sociale del lavoro (F. Guilbaud, 2012).
Riferimenti bibliografici:
Allegri P.A. (2020), La formazione professionale all’interno dell’istituzione penitenziaria, uno studio di caso tra luci e ombre, in “Autonomie locali e servizi sociali, Quadrimestrale di studi e ricerche sul welfare” 3/2020, pp. 615-629.
Bronzo P. (2018), Lavoro e risocializzazione, in “La legislazione penale”, www.legislazionepenale.eu
Caputo G. (2020), Carcere senza fabbrica: povertà, lavoro forzato e welfare, Pacini Giuridica, Pisa.
Davis L., Bozick R., Steele J., Saunders J., Miles, J. (2013), Evaluating the Effectiveness of Correctional Education: A Meta-Analysis of Programs That Provide Education to Incarcerated Adults, RAND Corporation, https://www.jstor.org/stable/10.7249/j.ctt4cgdz5.
Guilbaud F. (2012), Contester et subir: formes et fondements de la critique sociale des travailleurs détenus, in “Sociétés contemporaines”, 3, 87, pp. 99-121.
Lamonaca V. (2015), Dal lavoro penitenziario al contratto di risocializzazione e lavoro; un’ipotesi de iure condendo, in “Rassegna penitenziaria e criminologica”, 2, pp. 5-52.
Leonardi F. (2007), Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, in “Rassegna penitenziaria e criminologica”, 2, pp. 7-26.
Manconi L., Torrente G. (2015), La pena e i diritti. Il carcere nella crisi italiana, Carocci, Roma.
Matthews R. (1999), Doing Time. An Introduction to the Sociology of Imprisonment, Palgrave, London.
Ronco D., Torrente G. (2017), Pena e ritorno. Una ricerca su interventi di sostegno e recidiva, Ledizioni, Milano.
Travis J. (2009), A new era in inmate reentry, in “Corrections Today”, 71, 6, pp. 38-41.
Vianello F. (2018), Centralità e ambiguità del lavoro in carcere, in Kalica E., Santorso S.(a cura di), Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario, Ombre Corte, Verona, pp. 111-130.