Era il 18 luglio del 2017 quando fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la legge che finalmente introduceva nel codice penale il delitto di tortura. Fu allora che difendemmo la scelta di giungere comunque all’approvazione di una legge che definiva il crimine di tortura non in modo del tutto sovrapponibile con quanto previsto dall’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984. Difendemmo quella scelta contro l’opposizione della destra da sempre preoccupata di porre limiti all’azione delle forze di Polizia (che vorrebbero sottratta a ogni forma di controllo). La difendemmo (insieme ad Amnesty International e a Mauro Palma nelle sue vesti di garante nazionale) anche contro coloro che con eccesso di sicurezza, senza, a nostro avviso, sguardo strategico e, tutto sommato, non analizzando con obiettività i contenuti della legge, avrebbero preferito non avere un reato di tortura piuttosto che quello oggi codificato all’articolo 513-bis. Oggi il reato c’è e ci sono anche le prima condanne per fatti avvenuti negli istituti penali di Ferrara e San Gimignano. Altri procedimenti penali per tortura nelle carceri sono in corso. Dunque ora possiamo anche nei tribunali evocare un nome tragico che fino al 2017 era impossibile e vietato pronunciare. Si poteva parlare di abusi, maltrattamenti, lesioni ma non certo di tortura. E’ importante, alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni, che tutti gli attori del sistema penitenziario convergano le loro forze intorno alla repressione e alla prevenzione della tortura. Un tema rimasto aperto è quello dell’identificazione del personale di Polizia, dentro e fuori le carceri. Un altro tema è la costituzione di un fondo per le vittime di tortura. Ma un’attenzione più significativa vorremmo si rivolga anche alla formazione dello staff penitenziario. Non di rado il personale opera in condizioni difficili. La formazione dovrebbe essere rivolta, oltre che alla parte teorica, anche alla gestione pratica e non violenta dei casi complessi. È necessario che la formazione sia multi-disciplinare e coinvolga operatori non solo di Polizia. Un caso difficile si affronta tutti insieme: direttore, poliziotti, educatori, mediatori, psicologi, medici. Dunque la formazione deve essere coordinata e integrata. A margine di questa breve riflessione intorno alla tortura, un ringraziamento va rivolto a tutti coloro che lavorano nelle carceri costituendo un argine contro eventuali tentazioni di uso illegittimo della violenza e della forza. Quest’anno ricorrono i venti anni dai fatti di Genova. Non c’è miglior modo per ricordarli se non continuando incessantemente a lavorare tutti insieme per rendere la tortura residuale. Un grosso contributo può darlo il Governo costituendosi parte civile in ogni procedimento penale per tortura. E’ necessario dare un segnale inequivocabile di lontananza culturale, politica, amministrativa da chiunque pratichi la tortura.