XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

L’architetto. Carcere e città. Dialogo con Stefano Boeri

L’architetto. Carcere e città.

L’architetto. Carcere e città.

1024 538 XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

Alice Franchina e Valeria Verdolini

 

L’architetto. Carcere e città.
Dialogo con Stefano Boeri

San Vittore vuole delineare una nuova concezione di casa circondariale che trasmetta gli ideali e i valori di recupero e reinserimento di cui è detentore e che inneschi un nuovo pensiero positivo a partire dalla bellezza degli spazi che lo ospitano.

In che rapporto stanno il carcere e gli spazi della città? E quanto la città si occupa degli spazi sottratti e protetti dalle mura di cinta del penitenziario? Di Lazzaro e Pavarini nell’Introduzione al volume “Immagini dal carcere” del 1994 constatavano che “Il carcere è stato ed è edificio per eccellenza del paesaggio urbano; alla storia delle città esso interamente appartiene. Carcere e città sono realtà storiche nate e vissute in un rapporto indissolubile, sia pure di segno tra loro opposto”. Quella Opposizione individuata dagli autori si può descrivere, forse, come una vera e propria forma di sottrazione pur nell’immanenza, una serie di aree fisiche che seguono altre regole. Si tratta di spazi tolti al tessuto urbano (o rurale), porzioni fisiche di territorio che seguono quella che potremmo cercare di definire come una “giurisdizione securitaria”. Come scrive Melucci, infatti, “Le mura, di per sé, non hanno mai costituito un ostacolo alla vita delle città. Quelle del carcere sì”. (Melucci, 1994). Come afferma, tuttavia, Mauro Palma, “Scuole, ospedali, luoghi di accoglienza e anche luoghi di detenzione sono appunto spazi di funzione pubblica”. Sul finire dell’anno 2020, Triennale Milano e la Casa Circondariale Francesco di Cataldo – San Vittore, grazie al coinvolgimento di Fondazione Maimeri e con il supporto di Shifton e dell’Associazione Amici della Nave, hanno presentato il concorso di idee “San Vittore, spazio alla bellezza”, in cui “San Vittore vuole delineare una nuova concezione di casa circondariale che trasmetta gli ideali e i valori di recupero e reinserimento di cui è detentore e che inneschi un nuovo pensiero positivo a partire dalla bellezza degli spazi che lo ospitano. La casa circondariale vuole ritrovare la sua centralità nel contesto penitenziario e in quello cittadino, attraverso la progettazione di funzionalità nuove e un pensiero complessivo sulla struttura di forte impatto su detenuti, personale, cittadini e città”.
Il concorso di idee è stato il punto di partenza per uno scambio di idee su carcere, spazi pubblici e città con Stefano Boeri, architetto, professore di urbanistica al Politecnico di Milano e presidente della Fondazione Triennale Milano.

“Tutte le volte che sono entrato in contatto con i detenuti di San Vittore, sebbene le condizioni materiali fossero disastrose, ho notato come dai loro racconti emergesse chiara la percezione di essere circondati dalle tensioni e dalla vitalità della vita urbana”

V: Come nasce l’iniziativa “San Vittore spazio alla bellezza”?

Nasce intanto da una reciprocità di attenzioni. Giacinto Siciliano, il direttore di San Vittore, ha più volte dimostrato interesse e anche desiderio di incontro tra la casa circondariale e Triennale a partire da una reciproca esigenza: da un lato una domanda di miglioramento degli spazi di vita, una richiesta d’aiuto nella progettazione degli spazi; e dall’altro l’idea di portare in Triennale alcune esperienze della vita carceraria. C’erano già state delle collaborazioni, per esempio due anni fa con un evento in diretta RAI in cui trasmettevamo in simultanea dal carcere e dalla Triennale; oppure ospitando il teatro della sezione femminile in Triennale con la mostra PosSession. Da parte mia c’è un’attenzione radicata nel tempo; già da assessore avevo il progetto di portare temporaneamente al centro del carcere la pietà Rondanini di Michelangelo, ma poi per varie ragioni non sono riuscito a realizzarlo. Da quel momento in poi il carcere è sempre stato una sorta di ossessione: continuavo a chiedermi “cosa può fare un istituzione culturale per il carcere?” Per questo sono stato felice di esercitare questa corrispondenza fra Triennale e Casa circondariale. Inoltre si tratta di due spazi vicini nella città. San Vittore è un carcere urbano, con tutte le connotazioni particolarissime proprie di un carcere urbano. Io ho lavorato tempo fa a un altro progetto con il carcere di Opera, e mi ricordo l’angoscia di quella situazione. Al contrario, tutte le volte che sono entrato in contatto con i detenuti di San Vittore, sebbene le condizioni materiali fossero disastrose, ho notato come dai loro racconti emergesse chiara la percezione di essere circondati dalle tensioni e dalla vitalità della vita urbana; e questo, non dico che compensasse la fatica, ma svolgeva un ruolo importante nella loro detenzione. Noi, Triennale Milano, siamo un’istituzione dentro la città, così come lo è il carcere, quindi a un certo punto abbiamo cominciato a lavorare sull’ipotesi di potere davvero fare una sorta di gara di generosità e di idee su come migliorare la vita penitenziaria. La cosa è partita inizialmente in modo molto astratto, poi mano mano è decollata, si è sviluppato il concorso di idee, appena chiuso, e adesso abbiamo selezionato sei gruppi di giovani che lavoreranno su spazi molto diversi di San Vittore proponendo interventi puntuali. Quindi siamo passati dal generare idee di massima, a provare a costruire qualcosa di più specifico. In qualche modo, anche grazie a un lavoro che abbiamo fatto internamente al carcere, con l’Associazione Amici della Nave, siamo passati ad una fase più efficiente ed efficace di progettazione.

V: A San Vittore c’era uno spazio che era stato carico di significati, e molto doloroso, lo spazio del CONP, che è stato chiuso dopo un intervento del Garante Nazionale e della direzione. Sarà uno degli spazi riprogettati?

B. Quello spazio rientra negli spazi ri-progettati, è verissimo che era uno spazio così carico di significati, ma su questo il direttore sa meglio di me. Io ho voluto che fosse anche molto concreto il livello di approfondimento progettuale. Per esempio, insieme alla Giuria del concorso, abbiamo escluso una serie di progetti visionari impossibili, in alcuni casi abbiamo scelto progetti che partendo da un approccio ideale erano in grado di affrontare questioni molto pragmatiche. Io davvero vorrei che questo progetto fosse un progetto che si “deposita” nelle vite dei detenuti, non vorrei che si concludesse col fare una bella mostra.

“San Vittore ha degli spazi molto limitati, e c’è molta densità di corpi, quindi il tema non è tanto riempire gli spazi di nuovi arredi, ma capire come possono essi stessi diventare oggetto di una nuova progettazione.”

A: A San Vittore portate avanti un discorso sullo spazio e sulla bellezza, e poi anche un secondo livello, di apertura alla città. Cosa significa “bellezza” in un luogo come un carcere? E come l’apertura alla città si può realizzare nel concreto?

B: Ci sono alcune questioni che riguardano la prossemica, lo spazio di relazione tra i diversi utilizzatori del carcere, perché non ci sono solo i carcerati, ma c’è il personale, ci sono i parenti. Intanto c’è una prima questione: San Vittore ha degli spazi molto limitati, e c’è molta densità di corpi, quindi il tema non è tanto riempire gli spazi di nuovi arredi, ma capire come possono essi stessi diventare oggetto di una nuova progettazione. C’è un problema legato all’habitat minimo: a partire dalla cella, la privazione di spazi di individualità e di concentrazione è altrettanto importante della privazione degli spazi di dialogo. Un tema di progetto molto bello riguarda la possibilità di trasformare la cella in uno spazio a geometria variabile, cioè con degli arredi mutevoli, flessibili e cangianti, che permettano la costruzione di spazi individuali al loro interno. Poi ci sono altre sfide progettuali: i corridoi dei bracci – oggi no purtroppo per le ulteriori restrizioni legate alla pandemia – solitamente sono i luoghi più vissuti nel ciclo temporale quotidiano, sono gli spazi di relazione. Al contempo, sono spazi neutri e anche spesso trascurati, e quindi ragionare su cosa vuol dire renderli uno spazio dedicato allo scambio è un bellissimo tema. Stesso ragionamento si può fare per gli spazi collettivi come il cortile. È in generale il tema dell’incontro, che non si limita allo spazio dei colloqui, ma al concederci la possibilità di immaginare altri luoghi del carcere dove l’interazione avviene.

“Cosa vuol dire apertura alla città? Questo argomento è spesso trattato in maniera demagogica. L’apertura è qualcosa di possibile ma con dei limiti molto fissi, molto chiari.”

Per quanto riguarda la seconda domanda: cosa vuol dire apertura alla città? Questo argomento è spesso trattato in maniera demagogica. L’apertura è qualcosa di possibile ma con dei limiti molto fissi, molto chiari. Ci sono degli spazi che sono esterni di fatto rispetto al carcere, che sono tra l’ingresso e la parte vera dei raggi, che oggi potrebbero essere più destinati a uso pubblico (sport, eventi, ristorazione) su questo non c’è dubbio. Ad esempio il corridoio centrale che porta fino alla rotonda è già uno spazio “promiscuo”, uno che potrebbe essere attraversato dal pubblico esterno, seppur contingentato, uno spazio che potrebbe diventare un luogo di ingresso della città.
Avevamo fatto questi ragionamenti quando si trattò del progetto Pietà Rondanini, eravamo arrivati al punto di avere tutte le autorizzazioni. Conosco tutti i vincoli, i meccanismi: è possibile farlo, ma bisogna stare molto attenti a non proiettare nel carcere le aspettative di un pubblico che del carcere non sa nulla e che non c’entra nulla con esso. Non basta portare le opere d’arte nel carcere, questa cosa da sola non serve a niente. La cosa interessante è creare dei momenti con delle presenze “esterne”, ma le cose vanno costruite e progettate insieme.

V: una vecchia questione molto milanese. Ciclicamente nei dibattiti sul piano regolatore (PGT) si propone di spostare San Vittore. Tenere San Vittore dov’è rappresenta per molti aspetti un valore ma anche un limite legato alla struttura che richiede grossi interventi di manutenzione costanti. Lei cosa pensa a riguardo?

Io sono sempre stato contrario, credo che ci sia un valore intrinseco di questa presenza sia per chi il carcere lo vive dall’interno, sia per chi il carcere lo vive dall’esterno: come presenza magari a volte perturbante, familiare ma disturbante. È una presenza che ha un suo senso. L’idea della rimozione e della distanziazione del carcere dalla vita quotidiana, la trovo sbagliata, soprattutto se c’è la possibilità di avere un carcere che invece è dentro, nell’intensità degli spazi della città. Penso proprio che sia un errore.

V: Ci sono oggi con la pandemia degli altri modi per portare il carcere nella città senza realizzare quello che abbiamo detto. Sarebbe desiderabile che le persone entrino e facciano vivere quello spazio, ma con le restrizioni attuali, come si può portare il carcere nella città?

B: Abbiamo parlato di come portare la città in carcere. Per me restava questa immagine straordinaria: se fossimo riusciti a portare Michelangelo, sarebbe stato un segno importante, anche per reinterpretare il concetto di pietà, non solo basato sulla compassione ma sulla reciprocità. Quello è rimasto un po’ un progetto incompiuto. Sul tema del portare il carcere nella città, sono state fatte diverse cose. Penso ci si ricordi tutti di Laurie Anderson, alla fondazione Prada, nel 1998. Si trattava di un lavoro basato sulla trasmissione a distanza di un’immagine di un detenuto, era molto forte. Oppure quello che abbiamo fatto con Aldo Bonomi 8 anni fa sempre in Triennale – ma io non ero presidente- è stato ricostruire negli spazi espositivi un pezzo di San Vittore. È stato forte, un’esperienza vissuta dal pubblico con grande emozione. Il digitale da questo punto di vista presenta svariate possibilità per portare fuori il carcere. Oppure le cito un esempio recente, che arriva dalle proposte del concorso di Gennaio, e che non è stata selezionata perché in qualche modo fuori tema, ma che ci ha colpito al punto da assegnare comunque una menzione. Uno di questi architetti ha risposto al nostro appello progettando una sorta di cella, singola, al centro di piazza Duomo. Come se ci fosse la possibilità di portar fuori un pezzo di carcere e metterlo al centro di piazza Duomo – che è l’unica vera piazza-radura della metropoli milanese – e immaginare che dall’interno di questo luogo nel nulla ci sia finalmente la percezione di cosa vuol dire essere isolati nel carcere. È un atto performativo, molto suggestivo.

V: Passando dalle suggestioni alla materialità del carcere. Da più di vent’anni ci sono grandi questioni strutturali legate alla struttura di San Vittore: due raggi chiusi in ristrutturazione, alcune parti distrutte durante le rivolte e ricostruite a fatica. Io condivido il ragionamento che lei propone, ma come si concilia tutto questo con il grande problema oggettivo dello spazio carcere?

B: Certo! Su questo io non ho competenza. Noi agiamo su richiesta, non posso certamente sostituirmi al direttore, conosco la situazione e non mi è difficile pensare come possano essere utilizzati. Ma c’è un tema di … investimenti e risorse (possiamo dirla così). Purtroppo questa è una domanda a cui non saprei cosa rispondere.

“Un tentativo si basa sull’immaginare una flessibilità degli arredi in modo tale da permettere la creazione di spazi di intimità, che è la cosa che manca di più. Perché poi l’intimità – soprattutto oggi col digitale – è anche un’opportunità per avere scambi con l’esterno.”

V: La tristemente celebre condanna CEDU all’Italia sul sovraffollamento attribuisce alla spazialità un ruolo fondamentale: è misura di vita e parametro di dignità. Come si può ribaltare questa dimensione? Quali strumenti sono a disposizione dell’architettura? Il sovraffollamento c’è ancora…

B: Un tentativo si basa sull’immaginare una flessibilità degli arredi in modo tale da permettere la creazione di spazi di intimità, che è la cosa che manca di più. Perché poi l’intimità – soprattutto oggi col digitale – è anche un’opportunità per avere scambi con l’esterno. Sappiamo bene che il potersi isolare non è in contraddizione col poter stare in relazione, oggi. Lo abbiamo provato tutti in questo periodo di lockdown. C’è una “solitudine in relazione”, diciamo, che è uno dei problemi ma anche una delle opportunità di questo periodo. Poi è chiaro che la costrizione dello spazio a cui è costretto il corpo in nessun modo implica una costrizione della mente, su questo c’è molta letteratura.

“Ciò che distingue uno spazio pubblico a mio parere è la sua generosità, ossia l’imprevedibilità dei comportamenti che vi si svolgono, e ahimè questo nel carcere non c’è.”

V: Con la pandemia i detenuti possono videochiamare, e dicono che una delle cose più belle è rivedere attraverso il video lo spazio di casa, che altrimenti veniva veicolato solo dal pacco della famiglia, una sensazione di calore che però mancava della spazialità. Noi ci siamo fermati poco fa sul corridoio come spazio pubblico. In che modo il carcere può essere insieme spazio pubblico e casa e in che modo queste due dimensioni apparentemente in contrasto, possono dialogare, e come si può portare la dimensione di casa in uno spazio che nasce come spazio di estraneità.

B: Ciò che distingue uno spazio pubblico a mio parere è la sua generosità, ossia l’imprevedibilità dei comportamenti che vi si svolgono, e ahimè questo nel carcere non c’è. Purtroppo la vera grandissima totale privazione del carcere è la sottrazione dello spazio pubblico, più che non lo spazio “delle relazioni familiari, domestiche e intime” che poi in qualche modo tutti noi siamo capaci di ricostruire ovunque. Quello che manca davvero è uno spazio dove non ci sono codici di comportamento obbligati o preclusi. Lo spazio in cui, come accade in una piazza, può succedere di tutto, dalla manifestazione politica, all’attentato, dal gioco dei bambini a un bar all’aperto. Questa imprevedibilità è la libertà dello spazio pubblico. Secondo me è inutile fare elucubrazioni accademiche, per me lo spazio carcere è l’opposto dello spazio pubblico, che non vuol dire che non sia uno spazio collettivo, uno spazio dove i corpi interagiscono, dove c’è compresenza, dove ci sono affollamenti persino, ma non è uno spazio pubblico, è forse l’opposto dello spazio pubblico.

V: La sua riflessione mi faceva venire in mente la distinzione dei geografi tra “space” e “place” tra uno spazio familiare che non è mai uno spazio pubblico, e che forse stare in quello spazio causa forme di straniamento tanto nello stare lì, quanto poi provare a stare fuori dopo essere stati in quello spazio carcere. Una curiosità, qualche detenuto ha partecipato alla valutazione dei progetti?

B: Quella che è stata fatta è una valutazione preliminare di massima sui progetti. Ora i ragazzi lavoreranno sui temi e poi ci sarà un incontro. Certo questa vicenda del Covid rende tutto più complesso, ma il direttore Siciliano ha previsto che i progettisti possano entrare, visitare il carcere, gli spazi e incontrare i detenuti.

A: Si, infatti, lei ha detto che vorrebbe che le aziende si facessero testimoni di rendere concrete queste idee.

B: Sì, quello è il vero obiettivo di questo progetto.

V. C’è grande attenzione in questo periodo per la possibilità di arrivo di risorse per strutture e infrastrutture legate al Recovery Fund.

B. Se la lega a ciò che dicevamo prima sulla morosità costante italiana questo potrebbe avere un senso, perché noi paghiamo una multa sulle condizioni detentive, noi continuiamo a pagare.

“Il fatto di mettersi sempre nella prospettiva del perdono diventa un modo per ridefinire i ruoli sia della vittima che del “peccatore”

A: io volevo chiedere un’ultima cosa su portare il carcere in città e portare la città dentro il carcere, cose che possono in qualche modo coincidere, uno si potrebbe chiedere perché è importante creare un’osmosi tra il carcere e la città. Perché serve ai cittadini conoscere il carcere? Perché serve ai detenuti portare la loro esperienza fuori nella città?

B: Perché in qualche modo è una forma di dialogo con una condizione che in qualche modo può appartenere alla vita di tutti, in modi diversi. La coercizione corporale, l’obbligo sono diventati una condizione pervasiva, soprattutto in questi mesi. E ci sono situazioni dovute a patologie che portano a momenti in cui davvero oltre alla similitudine con la condizione carceraria abbiamo un problema di mobilità del corpo. Da un lato è questo, e poi c’è il grande tema del perdono, che io penso sia una delle grandi questioni di questi tempi. Il perdono come possibilità di rimettere in discussione i ruoli, che è la questione chiave della giustizia riparativa, un dibattito che seguo con molta attenzione. Il fatto di mettersi sempre nella prospettiva del perdono diventa un modo per ridefinire i ruoli sia della vittima che del “peccatore”. E questa ridefinizione e relazione tra i ruoli mi sembra una caratteristica fortissima di Milano, e in questo senso mi piace. Per me san Vittore – così come la Ca’ Granda, l’Umanitaria, la Triennale – sono grandi architetture sociali che incarnano lo spirito della città. Per me è molto importante che ci siano che continuino ad esserci e a filtrare le caratteristiche buone e meno buone. Sono istituzioni sociali.