Un articolo uscito sul The Times nel luglio del 2007, dal titolo “I prigionieri rilasciati in anticipo ritornano alle loro carriere criminali”, contribuiva a seminare il panico nella cittadinanza a seguito della scarcerazione di un gran numero di detenuti 18 giorni prima del loro fine pena ufficiale. Una misura deflattiva messa in atto dal governo britannico per gestire il sovraffollamento. Che impatto possono avere un paio di settimane di libertà in più per delle persone che hanno già, praticamente, terminato la loro condanna? È evidente che la questione si gioca principalmente sul piano dell’insicurezza percepita dai cittadini britannici, piuttosto che su qualsiasi rischio reale.
I percorsi d’uscita dai circuiti penali sono tra gli aspetti più silenti del dibattito sul carcere in Italia, una tendenza che si riscontra in tutti i paesi occidentali (cfr. J. Petersilia, 2003).
I percorsi d’uscita dai circuiti penali sono tra gli aspetti più silenti del dibattito sul carcere in Italia, una tendenza che si riscontra in tutti i paesi occidentali (cfr. J. Petersilia, 2003). Complice la mancanza di un lessico sul fine pena e, l’assenza di ritualità condivise, che permettano alla persona detenuta d’essere riconosciuta dalla società come nuovamente libera (Maruna, 2011). Lacune che vanno a nutrire una cultura del sospetto e dell’insicurezza, diffusa a più livelli, che rende difficile al legislatore proporre misure deflattive e alle persone in uscita una riconnessione sociale. Arresti, procedimenti penali e detenzioni intramurarie sono rituali codificati e appresi a livello sociale, tant’è che nonostante la loro storia recente sono considerati fatti naturali e ovvi. Lo stesso non si può dire del fine pena e dei processi di reinserimento sociale, rispetto ai quali non vi sono prassi note e diffusamente condivise. La pandemia ha offerto un’ennesima occasione per interrogarsi su queste questioni. Fin dai primi giorni dell’emergenza sanitaria in corso si è parlato di sovraffollamento carcerario e dell’urgenza di risoluzione della stessa, dato il potenziale impatto del virus in ambienti chiusi, malsani e affollati come le sezioni detentive nelle carceri italiane. A livello mediatico è stato dato ampio spazio alle sommosse di marzo e ai conseguenti tentativi da parte del legislatore di ridurre l’impatto del virus negli istituti, le prime azioni sono state timide e contenute in rapporto alla potenziale capillarità del contagio. La possibilità di svuotare le carceri è stata trattata come extrema ratio, nonostante i numeri delle presenze avessero già da mesi confermato l’illegalità della situazione negli istituti. Il decreto Cura Italia, al quale verrà dato spazio in questo contributo, è stato in buona sostanza l’unica misura adottata. E il tema che è sempre venuto meno nel discorso pubblico è quello legato ai percorsi, o meglio, ai destini, delle persone scarcerate in piena epidemia. Fatto non irrilevante, basti pensare che nel 2020 le presenze in carcere sono calate più di 5000 persone nel solo periodo primaverile.
Così come la commissione di un reato, anche il reinserimento sociale rappresenta una sfida all’ordine costituito. Un passaggio pregno di ostacoli e di occasioni. E com’è il fine pena di una persona che dopo un periodo di vita in carcere giunge all’esterno vedendosi limitate le possibilità di spostamento e di azione a seguito delle numerose misure adottate per scongiurare i contagi, come sono i vari lockdown e le chiusure anticipate? In questo testo si procederà a imbuto, muovendosi da una dimensione nazionale e approdando alle esperienze individuali. Verranno ripercorse le prime fasi della pandemia in carcere, gli effetti reali che le misure introdotte dal legislatore hanno generato. In ultimo verrà dato spazio ai percorsi d’uscita attraverso la voce delle persone scarcerate a seguito dell’applicazione del decreto Cura Italia.
All’inizio del mese di settembre, in Italia, vi erano ancora 7000 detenuti in più della capienza regolamentare e in molti istituti il distanziamento sociale era impossibile da mantenere.
Legalità o panico morale? L’incertezza del legislatore a inizio pandemia
A febbraio 2020 le presenze in carcere erano oltre 61.000, con un tasso di affollamento del 120%; mantenere il distanziamento fisico all’interno degli istituti non era quindi possibile. Le settimane successive le ricordiamo: le informazioni sul virus riempiono le giornate e ben presto anche la società civile si trova “imprigionata” in casa. Il testo del primo Decreto Legge sull’emergenza sanitaria (DL n. 6/20201)Decreto Legge n. 6 /2020. Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.), del 23 febbraio, non prendeva in considerazione le carceri italiane. Nel contempo, dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità, arrivavano indicazioni circoscritte, volte a “chiudere e isolare” quanto più possibile. Chi conosce la realtà del carcere sa bene che i suoi confini sono porosi e quotidianamente attraversati, e che l’isolamento totale non è pensabile; basti pensare al gran numero di agenti di polizia penitenziaria, fin da subito potenziali vettori del virus da fuori a dentro e viceversa. L’8 marzo arrivano dal legislatore nuove e ulteriori indicazioni. L’invito è quello di “limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare” (Ulteriori disposizioni attuative del DL n. 6/2020, p.4). Delibere apparentemente timide e impacciate a fronte dell’avanzamento della situazione pandemica. In quei giorni Antigone avanza 6 proposte per ripristinare i contatti tra popolazione detenuta e mondo esterno in sicurezza, individuando l’uso dei dispositivi video come medium privilegiato. Contestualmente, a livello internazionale fonti autorevoli indicano le misure deflattive come unica via per la riduzione dei contagi. L’American Civil Liberties Union (Aclu) attraverso uno studio multidisciplinare mette in correlazione l’aumento delle scarcerazioni con la diminuzione del numero delle morti legate al Covid. Di pari passo l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti inumani o degradanti (Cpt) sono concordi sulla necessità di favorire quanto più possibile misure non detentive. Nonostante l’incedere della pandemia e contro le numerose evidenze scientifiche, la scorsa primavera in Italia le strategie deflattive erano considerate l’extrema ratio. È mancata da più parti la consapevolezza dei gravi rischi dovuti al sovraffollamento?
Non si vuole qui offrire spiegazioni esaustive ma proporre una riflessione che aiuti nella comprensione dello scenario proposto. Come anticipato in introduzione vi è una difficoltà nella gestione delle scarcerazioni, che non è solo pratica, ma anche, forse soprattutto, simbolica. Il tentennamento iniziale a svuotare gli istituti per salvare le vite, è forse legato alla mancanza di una segnaletica che guida la comprensione del fine pena nella cittadinanza? Aumentando vissuti di paura e percezione di insicurezza? Se è vero che in una democrazia il legislatore dovrebbe farsi portavoce delle istanze del sentire comune, a inizio pandemia esso si è trovato al centro tra due correnti: da una parte la necessità di rendere più sicure le carceri, dall’altra quella di non scatenare il panico tra la popolazione civile già scossa dai fatti in corso.
Per ritornare a una situazione di legalità, l’obiettivo comune doveva essere quello di diminuire la popolazione detenuta di almeno 10.000 unità, a cominciare dai soggetti più vulnerabili. Ma “Che si creda o meno, nel decreto Cura Italia le condizioni di salute delle persone detenute non sono nemmeno prese in considerazione” commentavano i coordinatori dell’Osservatorio di Antigone a fine marzo in un articolo pubblicato su Medium. In buona sostanza con il decreto sono semplicemente stati derogati i limiti della precedente legge 199/2010, la quale era essa stessa un provvedimento deflattivo d’emergenza, divenuto in seguito parte dell’apparato sanzionatorio. Laddove però alcune condizioni sono state estese, ve ne sono poi state aggiunte altre di natura punitiva, come l’impossibilità di accesso alla misura per le persone coinvolte durante, le ormai famose, rivolte di inizio marzo. In aggiunta a questo, i possibili beneficiari sono stati divisi in due categorie. Da un lato i dimittendi ai quali restava da scontare una condanna inferiore ai 6 mesi, dall’altra parte tutti coloro con un residuo pena da 6 a 18 mesi. Per i secondi scattava l’obbligo del braccialetto elettronico. Braccialetti che al momento dell’uscita del Decreto non erano reperibili. L’impatto di questa misura secondo le previsioni, poi confermate, sarebbe stato limitato; nonostante si stia parlando del tentativo più corposo messo in atto da inizio pandemia per schivare la trasformazione delle prigioni in lazzaretti. Al contrario è stato notevole l’impatto mediatico e, come anticipabile, vi sono susseguite numerose critiche e discorsi allarmistici. Si pensi che alcune testate nazionali riportavano dichiarazioni come: “Un vero e proprio premio per i delinquenti dopo le rivolte”. Se da un lato però vi è sempre chi fa la voce grossa tentando di racimolare consensi politici, in questo caso sulla pelle della popolazione detenuta e di chi lavora all’interno degli istituti di pena, dall’altro la preoccupazione che investe la società libera è un elemento delicato che necessita di riconoscimento. Sentimenti di cui lo Stato è chiamato a farsi carico responsabilmente, offrendo in primis dati chiari e informazioni corrette sulla criminalità e la sua gestione. Ma che impatto effettivo ha avuto il decreto Cura Italia per il carcere?
Alla fine di marzo erano state scarcerate circa 200 persone grazie al DL Cura Italia, tutte le altre sono uscite in base alla legislazione già vigente in connubio con il solerte lavoro della Magistratura di sorveglianza che ha disposto in fretta detenzioni domiciliari e altri provvedimenti. Secondo i dati dell’Osservatorio di Antigone al 31 marzo la popolazione detenuta era scesa del 5,5% rispetto al mese precedente, ma non in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale. A titolo di esempio si riporta il caso di due regioni vicine, Emilia Romagna e Veneto; nella prima la popolazione detenuta era calata del 16.3% mentre nella seconda di solo 3,8%. In altre regioni, come Marche e Calabria, la popolazione detenuta era invece in fase di crescita. La popolazione continua a calare nei mesi successivi: a fine del mese di maggio sono 9000 i detenuti in meno, tra fine pena, concessioni di detenzioni domiciliari e mancati ingressi. La discesa si ferma durante l’estate, per poi riprendere come sappiamo nel verso opposto a fine stagione. All’inizio del mese di settembre, in Italia, vi erano ancora 7000 detenuti in più della capienza regolamentare e in molti istituti il distanziamento sociale era impossibile da mantenere.
Molte persone non vedono di buon occhio un passato in carcere e quindi non assumono ex detenuti, in altri casi invece tale situazione si trasforma in occasione e la pena continua anche dopo il carcere attraverso l’offerta di tirocini inspiegabilmente lunghi o stipendi più bassi della media.
Uscire dal carcere durante la pandemia2) La ricerca sul campo si è svolta nel Nord Italia nel corso del 2020. Nomi personali, luoghi e parti delle testimonianze sono stati alterati per garantire l’anonimato.
Quanto discusso finora ha messo in luce l’iter intrapreso dal legislatore, nei primi mesi della pandemia, per controllare l’emergenza. Dopo le prime manovre, come si è detto, volte all’isolamento e alla chiusura, abbiamo assistito a un tentativo di abbassamento delle presenze; l’unica via percorribile per il ripristino della legalità. L’anomia che caratterizza il processo di reinserimento e il fine pena è emersa nella sua portata, anche attraverso le reazioni della società civile. L’intento è ora quello di conoscere più da vicino le esperienze dirette delle persone uscite dal carcere a seguito dell’art.123 (DL n. 18/2020); le quali si sono ritrovate in una situazione di vita già di per sé molto complessa, inasprita dalle chiusure e dai blocchi al movimento. La ricerca qualitativa, che per definizione approfondisce contesti ridotti e attraversa singole storie di vita, aiuta nel mettere a fuoco e superare la distanza tra disposizioni governative e biografie. Attraverso la presentazione di alcune testimonianze raccolte durante i mesi di ricerca sul campo, verrà aperta una finestra sulle difficoltà legate alla riconnessione con il mondo esterno, in particolare per chi esce dal carcere privo di qualsiasi documento.
“Sai (si rivolge a chi scrive, n.d.r), ho rinunciato ai miei 45 giorni di sconto pena. Avevo ottenuto tutto in carcere, la buona condotta, i permessi, poi mi hanno fatto uscire per l’art. 123 (dl Cura Italia, n.d.r.). La prima notte che sono arrivato qui (casa di accoglienza, n.d.r.) ho passato ore a camminare sull’erba in cerchio, a piedi nudi. Ho rinunciato alla fine anticipata della misura alternativa per restare qui, per riflettere. Fuori non ho casa, non ho lavoro, ora non ho neanche la macchina. Durante uno dei primi colloqui l’avvocato mi ha avvisato che mia moglie aveva chiesto la separazione, da quel momento non l’ho più ne vista ne sentita. Ora sto aspettando di capire se c’è la possibilità di lavorare un pezzo di terra qui e ricevere uno stipendio, ho tante risorse, questa volta vorrei investirle verso il bene… Non ho niente lì fuori, qui per me ora è una terra-pia (gioco di parole tra terapia e terra + pia, n.d.r.)”3)Le note etnografiche contenute nel paragrafo rappresentano un estratto dal Diario di ricerca di chi scrive.R., 52 anni;
La nota etnografica sopra riportata è tratta dal racconto di R., che ho intervistato prima di pranzo, in cucina. Tra un consiglio su come cuocere il pesce e un altro, su come tagliare gli alberi in sicurezza, mi racconta i suoi ultimi 5 mesi dopo l’uscita dalla Casa di Reclusione. Ci troviamo in una struttura che il magistrato di sorveglianza ha valutato come “dimora adeguata” per terminare l’esecuzione penale esterna. Mi hanno invitata a fermarmi per il pranzo, perché “c’è sempre un piatto in più per tutti quelli che vogliono fermarsi”. Non ci sono cancelli, non ci sono telecamere. Spesso, di notte, passano gli agenti per i controlli sulle presenze. Per il resto non c’è nessun dispositivo fisico a bloccare la scelta di “uscire”, di andarsene. R. ha deciso di fermarsi, anche se la sua misura è terminata ormai da qualche mese. I confini del carcere, i processi deumanizzanti e depersonalizzanti che attiva, si manifestano nelle loro conseguenze anche molto dopo l’uscita. Lasciando la persona, spesso priva di legami, in difficoltà nell’attraversare quel confine simbolico tra status di detenuto e persona libera.
“Quando sono arrivato qui (in comunità n.d.r.) avevo il braccialetto elettronico che poi mi hanno tolto. Non voglio più ritornare in carcere, voglio far passare tutto, vorrei anche cambiare nome. Io ho tanta fede, sono spirituale, credo che arriverà qualcosa di buono per me. (…) vorrei andare a M. ma non so se posso spostarmi tra regioni, tu mi sai dire? Avrei bisogno almeno di rinnovare il passaporto, che è l’unico documento che posso avere ora. Tu sai dirmi come si prenotano gli appuntamenti? Non lo faccio da anni” B., 47 anni;
L’intervista con B. fa emergere uno dei temi ricorrenti dei percorsi di reinserimento in Italia per le persone straniere: l’assenza di documenti. Accade non di rado che la persona entri in carcere con i documenti validi e ne esca con gli stessi scaduti. Fronteggiare le sfide del reinserimento senza gli attrezzi necessari risulta fallimentare: senza una residenza diventa difficile trovare casa, l’assenza del passaporto diventa ostativa per fare richiesta per un altro documento, senza carta d’identità o codice fiscale non si apre un conto né alle poste né in banca, e così via. Sebbene il passaggio appaia netto, da dentro a fuori, dall’isolamento alla comunità, dalle periferie ai centri cittadini, la realtà quotidiana del processo di reinserimento è complessa e porosa. Alcune persone hanno avuto la “fortuna” di essere inserite in programmi per l’accoglienza di “senza fissa dimora e marginalità gravi”, per i mesi mancanti alla data del fine pena. In alcune regioni questi programmi sono stati potenziati durante il periodo pandemico, grazie anche a una serie di finanziamenti messi a disposizione dalla Cassa delle Ammende. Nuove strutture sono state ritenute idonee per l’accoglienza. Molte altre però hanno subito chiusure o riduzione dei posti disponibili a seguito dell’avanzare della pandemia. Nonostante ciò, è sempre una piccola percentuale del totale a beneficiare di questi inserimenti. La selettività e la discrezionalità che caratterizza i percorsi post detentivi è alta anche alla luce della scarsità di risorse a disposizione. Spesso ottengono il supporto solo coloro che, nonostante tutto, sono considerati nutriti di risorse personali. Individualmente e psicologicamente questo passaggio non ha margini definiti, è fonte di preoccupazione e talvolta porta con sé vissuti traumatici, come si può apprendere dalle testimonianze di M. ed S. sotto riportate:
“Mi hanno chiamato dall’ufficio matricola per dirmi <<oggi esci>>. Non ho più capito niente. Ho chiesto se potevo andare a prendere le mie cose in cella e sono salito in sezione, poi è arrivato l’assistente che mi stava per fare un rapporto disciplinare dato che non mi sbrigavo a uscire. Mi sono lasciato il cancello alle spalle e non sapevo dove andare. Passavano gli autobus, tante persone, le voci, tutto era in movimento e io non ero abituato. Mi sono seduto su una panchina. <<Guarda>>, mi mostra le mani tremanti, come le aveva avute in qual momento. <<Panico, solo panico>>” M, 59 anni;
<<Sì le sento ancora le battiture, mi sveglio di notte e mi sembra di sentire battere le sbarre. Non è una cosa che andrà via facilmente>> S. 39 anni;
Una serie di sfide e ostacoli attendono la persona all’uscita dal carcere, passaggio che alcuni studiosi hanno definito “Rientro nel niente” (A. De Giorgi 2017, K. Middlemass & K. J. Smiley 2019). Come anticipato poc’anzi, almeno un terzo della popolazione scarcerata non dispone di documenti personali, al momento dell’uscita si trova quindi sprovvista di una regolare copertura sanitaria. Questa situazione, normalmente grave, è ancora più rischiosa in relazione al virus. L’assenza di documenti e l’impossibilità di accesso alle cure mette in pericolo le singole persone ma è anche fonte di rischio per l’intera comunità. Dopo un’esperienza lavorativa è noto che vi sono delle difficoltà nel trovare un lavoro adeguatamente retribuito: precedenti esperienze lavorative regolari pressoché assenti, formazione scolastica e professionale molto scarsa nella maggior parte dei casi. Molte persone non vedono di buon occhio un passato in carcere e quindi non assumono ex detenuti, in altri casi invece tale situazione si trasforma in occasione e la pena continua anche dopo il carcere attraverso l’offerta di tirocini inspiegabilmente lunghi o stipendi più bassi della media.
Dalle rilevazioni condotte dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione emerge che solo il 26% circa dei detenuti lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, spesso per poche ore al giorno e per pochi giorni a settimana. E solo il 2,4% del totale è impegnato con un datore di lavoro esterno. Con l’emergenza sanitaria inoltre, in molti istituti sono stati chiusi gli spazi per le lavorazioni. Sarà ancora più difficile, nel prossimo futuro, un reinserimento lavorativo per le persone uscite dal carcere in periodo pandemico. Approderanno in un mercato del lavoro stanco e provato dalle sfide dell’ultimo anno. Insieme ai bisogni materiali e fisici delle persone scarcerate, quelli relazionali sembrano spesso non superare la prova del fine pena. Molte persone vivono in una stato di carestia di legami nel tempo dopo il carcere. Non è raro trovarsi soli di fronte a una società che non riesce a staccare dalla persona l’etichetta di criminale, e fatica a concepire rituali di reintegrazione. Ecco che, molto spesso, i percorsi di reinserimento passano in sordina e sembrano distanti anche per coloro che quotidianamente hanno a che fare con il mondo del carcere. Un silenzio assordante se si pensa che la maggior parte della popolazione attualmente detenuta in Italia avrà il fine pena entro 3 anni. La scarcerazione è quindi un tema importante e strettamente legato alla vita all’interno delle prigioni.
“Oggi pomeriggio ho incontrato P. (il riferimento è a chi conduce la ricerca, n.d.r.), tra le varie domande che gli ho fatto gli ho chiesto anche se è musulmano vista la sua origine tunisina. P. mi ha risposto: <<No, io sono cattolico. Come te. E mi sono battezzato dopo il carcere>>”P. 40 anni;
Mi colpisce di P. l’impegno che mette nel diventare “come tutti”, nell’essere “normale”. Non stupisce che la sua scelta sia ricaduta proprio su un rituale, un rituale di passaggio per eccellenza come il battesimo. Alla luce dell’assenza totale di rituali d’integrazione nella nostra società, che si citava all’inizio. Detto in altri termini il reinserimento, per essere tale, ha bisogno non solo di supporto materiale (es. ricerca lavoro, donazione di vestiario, corsi di informatica), ma anche di inclusione morale. Si può ipotizzare che sia su questo terreno simbolico che si gioca gran parte della partita del post-pena. Non si può prescindere da uno scarto culturale e da un’assunzione di responsabilità da parte della cittadinanza. Un primo e doveroso passaggio è quello informativo. Far conoscere le storie delle persone, le difficoltà dei servizi, i numeri reali, anche dei reingressi in carcere. Per scongiurare la diffusione del panico morale, ma anche per rendere possibile un passaggio di status alla persona scarcerata, la quale ha già scontato la condanna che gli era stata assegnata.
Bibliografia
De Giorgi A. (2017), Back to nothing: Prisoner reentry and neoliberal neglect, in Social Justice, 44(1 (147), pp. 83-120;
Ford R. (2007), Early-release prisoners return to criminal ways, in The Times, 17 July, p. 1;
Maruna S. (2011), Reentry as a rite of passage, in Punishment & Society, 13(1), pp. 3-28;
Middlemass K. M., & Smiley C. (2019), Prisoner Reentry in the 21st Century: Critical Perspectives of Returning Home, Routledge, London;
Petersilia J. (2003), When prisoners come home: Parole and prisoner reentry, Oxford University Press, New York.
References
↑1 | Decreto Legge n. 6 /2020. Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. |
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↑2 | La ricerca sul campo si è svolta nel Nord Italia nel corso del 2020. Nomi personali, luoghi e parti delle testimonianze sono stati alterati per garantire l’anonimato. |
↑3 | Le note etnografiche contenute nel paragrafo rappresentano un estratto dal Diario di ricerca di chi scrive. |