La presente cronaca e le conseguenti considerazioni si sviluppano a partire e intorno al drammatico episodio del suicidio di Chaka Ouattara, un ragazzo 23enne di origine maliana, richiedente protezione internazionale, che si è tolto la vita il 7 novembre 2020 nel carcere di Verona, dove si trovava in regime di sorveglianza particolare di cui all’articolo 14 bis L. 354/1975. Chaka era stato incarcerato, assieme ad altre 3 persone, con l’accusa di aver fatto parte ed essere stato uno dei promotori di alcune proteste scoppiate nel mese di giugno 2020 all’interno del centro straordinario di accoglienza dell’ex Caserma Serena a Treviso, proteste scoppiate in seguito a un incontrollabile focolaio esploso dentro il campo e alla decisione di isolarlo dall’esterno rinchiudendo dentro forzatamente i circa 300 “ospiti”.
Al 31 dicembre 2020 infatti i beneficiari dell’accoglienza in Veneto risultavano essere in totale 4616, di cui 4016 (87%) ospitati nei CAS e 600 (13%) all’interno dei SIPROIMI, i percorsi di accoglienza ordinaria che in seguito alla 132/2018 hanno sostituito gli SPRAR.
Accoglienza in Veneto: emergenza continua e grandi strutture
In seguito alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015 il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Veneto si è strutturato in linea con le tendenze riscontrabili sul piano nazionale, in molti casi radicalizzandone certi aspetti critici che hanno svelato diffusamente una propensione alla violazione dei diritti e alla produzione di processi di segregazione socio-spaziale. In questi anni sono stati due gli aspetti che possono dare complessivamente conto delle modalità di gestione di questo fenomeno e rilevare la peculiarità della situazione in questa regione.
Innanzitutto, scorrendo i dati forniti dal Ministero degli Interni, notiamo come la propensione ravvisabile su scala nazionale alla rinuncia al modello pubblico e “ordinario” (SPRAR/SIPROIMI/SAI), e il radicamento di una gestione di connotazione “emergenziale” sia particolarmente visibile e intensivamente applicata su questo territorio. Al 31 dicembre 2016, nel cuore della sopra citata crisi, sono stati rilevati 14.136 migranti complessivamente accolti nelle varie strutture, di cui 10.439 (74,5%) ospitati nei centri di accoglienza straordinaria (CAS), 2.795 (20%) nei grandi centri di prima accoglienza (“hub” regionali) e soltanto 535 (4,5%) all’interno degli SPRAR. I dati più recenti, che mostrano innanzitutto il calo drastico delle/degli accolti sul territorio – dovuto tra l’altro alla riduzione degli sbarchi e alle soluzioni radicalmente restrittive messe in atto dalla 132/2018, la legge che ha convertito i “Decreti Salvini” – confermano chiaramente tale tendenza. Al 31 dicembre 2020 infatti i beneficiari dell’accoglienza in Veneto risultavano essere in totale 4616, di cui 4016 (87%) ospitati nei CAS e 600 (13%) all’interno dei SIPROIMI, i percorsi di accoglienza ordinaria che in seguito alla 132/2018 hanno sostituito gli SPRAR. È importante sottolineare che per quanto riguarda la percentuale di migranti “ospitati” nei SIPROIMI in rapporto al totale delle/degli accolte/i sul territorio il Veneto si trova, insieme alla Sicilia, all’ultimo posto della classifica a livello nazionale.
A questa egemonia piuttosto netta dell’approccio emergenziale si accompagna un secondo aspetto che, soprattutto fino al 2019 e dunque prima della chiusura dei centri di prima accoglienza di Cona (Venezia) e di Bagnoli (Padova), ha fatto del Veneto un caso unico tra le Regioni italiane: il prolungato concentramento di un consistente numero di richiedenti asilo presso grandi strutture. Tra le varie si possono elencare gli “hub” regionali della Prandina (Padova), di Bagnoli e di Cona, i quali hanno mediamente ospitato 800/1200 beneficiari, ma anche alcuni grandi CAS come l’ex caserma Zanusso a Oderzo (Treviso) e l’ex caserma Serena a Casier (Treviso) dove la media delle/i migranti presenti è stata di 400/500. Naturalmente questo particolare modello – così strutturato soprattutto per la riluttanza delle Amministrazioni locali ad attivare gli SPRAR e investire pubblicamente in accoglienza e inclusione sociale – ha avuto consistenti conseguenze sulle condizioni di vita delle/dei richiedenti asilo e sull’universo relazionale tra esse/essi e la popolazione autoctona.
Il radicamento e la progressiva normalizzazione del paradigma emergenziale di organizzazione dell’accoglienza e la presenza di grandi concentramenti all’interno dei campi hanno provocato, come rilevato da recenti indagini empiriche (Pasian e Toffanin 2018; Firouzi 2019), da una parte una diffusa e sistematica violazione dei diritti primari come quelli socio-sanitari, numerosi episodi di segregazione socio-spaziale, dinamiche di progressiva compressione della libertà delle/dei migranti e, dall’altra, orientamenti paternalistici e infantilizzanti ascrivibili a quello che è stato definito come “paradigma umanitario” di governo delle migrazioni (Fassen 2005, Malkki 1996).
Senza dimenticare, ci preme sottolinearlo, l’esistenza di molteplici piani di negoziazione e protesta messi in atto dalle/dai richiedenti asilo, talvolta con il supporto delle/degli stesse/i operatrici e operatori e delle realtà solidali dei territori. Resistenze individuali e collettive con cui le/i migranti hanno tentato – talvolta riuscendovi, anche se più di frequente divenendo oggetto di azioni punitive – di riaffermare i loro diritti e la loro autodeterminazione.
Una delle principali criticità rispetto alle condizioni di vita delle/degli accolte/i è sicuramente individuabile nel sovraffollamento, una questione che, come avviene in molti contesti di isolamento e confinamento, diventa a sua volta terreno fertile su cui nascono problemi e disagi di varia natura.
La ex-caserma Serena: sovraffollamento, contagi e proteste
Il centro di accoglienza straordinario situato nella ex-caserma Serena nasce nel luglio del 2015. La sua genesi ci dice molto riguardo lo scenario presente in quel periodo. Il 15 luglio, quando 101 giovani migranti, da poco approdati sulle coste italiane, vengono sistemati in una palazzina del Comune di Quinto in Provincia di Treviso, gli abitanti del quartiere, coadiuvati da alcuni militanti neo-fascisti di Forza Nuova, si ribellano a questa decisione occupando i cortili e le entrate dei palazzi, incendiando materassi e cassonetti e impedendo che i migranti ricevano i pasti dalla Cooperativa incaricata. In seguito a questo episodio – emblematicamente definito dal Presidente della Regione Zaia l’inizio della “africanizzazione” del Veneto – la Prefettura di Treviso decide di trasferire tutti nell’ex-caserma Serena. La storia di questo luogo non è molto dissimile da quella degli altri grandi campi, a partire dal profilo dell’ente gestore. Questo infatti, la Nova Facility, prima attivo nel campo dell’energia e dell’edilizia, comincia a occuparsi di accoglienza dal 2015, portando i suoi ricavi dichiarati dai 719mila euro del 2014 agli oltre 6 milioni e mezzo del 20191)Questi dati sono stati ripresi da un reportage su Nova Facility scritto da Carlo Ruggiero sul giornale della CGIL “Collettiva”. https://www.collettiva.it/copertine/diritti/2020/08/11/news/dai_mattoni_ai_migranti_l_evoluzione_degli_affari-223770/, giungendo a detenere ad oggi un piccolo “impero” dell’accoglienza se consideriamo che gestisce anche il più grande CAS del Veneto a Oderzo, l’ex caserma Mattei a Bologna adibito ad HUB regionale e l’Hotspot a Lampedusa. Una delle principali criticità rispetto alle condizioni di vita delle/degli accolte/i è sicuramente individuabile nel sovraffollamento, una questione che, come avviene in molti contesti di isolamento e confinamento, diventa a sua volta terreno fertile su cui nascono problemi e disagi di varia natura.
A proposito, il numero degli “ospiti” si aggira intorno alle 800 unità nei primi anni di attività per scendere a partire dal 2018, probabilmente a seguito alle misure restrittive introdotte dai Decreti Salvini e a una netta diminuzione degli sbarchi, e assestarsi nell’ultimo anno intorno alle 200-300 unità.
Le problematiche di questo contesto di accoglienza emergono in maniera evidente nel marzo del 2017, quando le/i richiedenti asilo, durante una protesta, recapitano al direttore della struttura una lettera2) Questa rivendicazione è stata documentata e pubblicata on-line da Meltingpot, che ha riportato sul suo sito integralmente la lettera delle/dei richiedenti asilo. https://www.meltingpot.org/Treviso-ex-Caserma-Serena-I-richiedenti-asilo-in-protesta.html#.YA7tehbSJPY denunciando da un lato i lunghi tempi di permanenza nel campo dovuti alla lentezza dell’iter della domanda di asilo e dall’altro le condizioni di sistematica violazione dei diritti primari. In questa articolata lettera si riferiscono in particolar modo alle condizioni fatiscenti degli alloggi paragonati a “celle di prigione”, alla scarsa qualità del cibo, alla mancanza di adeguata assistenza medica e alle frequenti intimidazioni di operatori, polizia e carabinieri.
È però a giugno del 2020, in piena crisi sanitaria, che si accendono i riflettori sull’ex caserma Serena mettendone definitivamente a nudo i limiti organizzativi e strutturali. Giovedì 11 giugno viene data la notizia che un operatore sociale rientrato dall’estero risulta essere positivo al Covid-19. La Prefettura e l’Ulss trevigiana decidono, così, di procedere con uno screening sanitario, isolando il campo e chiudendo gli accessi. Questa decisione suscita nelle giornate dell’11 e del 12 giugno accese proteste dei circa 330 migranti che rifiutano, in molti casi temendo di non poter andare al lavoro e dunque di perderlo, di essere messi in quarantena.
In quelle giornate ci sono momenti di alta tensione tra le/i migranti e le forze dell’ordine, ma anche con lo staff della struttura e con il personale sanitario. La rabbia espressa dalle/dai migranti si rivolge verso la gestione della situazione di crisi, in particolar modo verso la carenza di informazioni adeguate, che ha senz’altro radici lontane. I circa 300 richiedenti presenti nella struttura sono reduci da lunghi mesi nei quali, nel “lockdown” generalizzato, si sono ritrovati giorno e notte ammassati a condividere gli angusti spazi del campo, letteralmente imprigionati dentro una struttura che come altri luoghi (fabbriche, ospedali, carceri) si era rivelata naturalmente soggetta a essere un focolaio. Lunghi mesi di estrema solitudine, di desolazione, paura, ansia e frustrazione, durante i quali le autorità non sono mai intervenute per effettuare dei tamponi o per attivare protocolli organizzativi, e informativi, orientati a garantire la sicurezza sanitaria nella struttura.
L’ipotesi di una nuova quarantena arriva esattamente quando finalmente anche alla ex Caserma Serena, come in tutta Italia, stava ricominciando lentamente lo scorrere “normale” della vita quotidiana, soprattutto nel momento in cui le/i migranti ricominciavano ad avere accesso più ampio ad attività lavorative. Come sottolineato da un’attivista che ha seguito da vicino l’intera vicenda e che abbiamo avuto più volte occasione di incontrare, “tanti ospiti non capiscono il senso di questa ulteriore prigionia proprio nel momento in cui, per tutti gli italiani, crollano i divieti e scatta la folle estate del “tutti liberi”, che di “covviddi non ce n’è”.
La tensione dunque si alimenta dell’indisponibilità ad essere nuovamente imprigionati dentro, del timore di perdere il lavoro e della paura dei rischi di una nuova quarantena, considerato il sovraffollamento e la promiscuità che caratterizza la vita interna.
Quando la situazione rientra nella calma, lo screening sanitario viene effettuato e non vengono segnalati altri casi di positività. Siamo però solo all’inizio della crisi, di una crisi prevedibile e preannunciata.
Il 30 luglio un nuovo controllo segnala la presenza di 137 persone positive al virus, trascorre una settimana e il 6 agosto un nuovo giro di tampone fa salire la cifra a 257, sul totale di 280 beneficiari presenti nella struttura, mostrando la grave fragilità dei sistemi di monitoraggio e contenimento dei contagi e l’assenza, ipotizzata anche dai responsabili dell’Ulss, di chiari protocolli previsti dall’Ente gestore. La decisione di sigillare il campo, bloccando l’insieme delle persone all’interno, suscita nuove proteste e rivendicazioni sia in riferimento alle “storiche” questioni di degrado interno più volte sollevate negli anni, sia, più specificatamente, rispetto alle modalità di gestione della crisi sanitaria.
Dalle testimonianze delle/dei dirette/i interessate/i raccolte da una giornalista della stampa locale e attingendo dalle informazioni fornite da alcune associazioni solidali3)Si tratta delle testimonianze raccolte e pubblicate dalla giornalista Alice Carlon e da ciò che ci hanno riferito realtà come l’Associazione Caminantes e l’Adl Cobas di Treviso che hanno seguito da vicino questi accadimenti e supportato alcuni migranti soprattutto in seguito alle incarcerazioni di alcuni di loro che descriveremo nel prossimo paragrafo., si evince che gli spazi comuni come le cucine, la mensa e le docce hanno continuato ad essere usati da persone negative, positive e in attesa di tampone, che non sono stati effettuati spostamenti dei posti letto in seguito ai molti tamponi effettuati e che in generale non sono stati attivati protocolli interni in grado di differenziare il trattamento quotidiano delle/dei richiedenti alla luce dei risultati dei test.
Il 9 agosto, a riprova dei dubbi sulla adeguata gestione della crisi, il Procuratore di Treviso Michele Dalla Costa apre un “fascicolo informativo” che, pur essendo privo di indagati e ipotesi di reato, ha spinto i giudici a raccogliere informazioni sulla presenza di eventuali negligenze in merito alle misure per evitare il repentino espandersi del contagio.
Dopo circa due mesi di detenzione, a metà ottobre 2020, su indicazioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), i quattro richiedenti asilo vengono sottoposti al regime di “sorveglianza particolare” di cui all’articolo 14 bis L. 354/1975 per una durata complessiva di tre mesi.
L’arresto, l’isolamento, il suicidio
Il 19 agosto, però, si mette in moto la macchina penale e quattro richiedenti asilo, accusati di sequestro di persona, devastazione e saccheggio in riferimento alle proteste dell’11 e del 12 giugno, vengono arrestati e incarcerati nella casa circondariale di Treviso. La richiesta degli avvocati di revocare o quantomeno mitigare le misure di custodia cautelare viene respinta dal GIP. Egli ha ritenuto che, nonostante l’incensuratezza degli imputati, “le accuse a loro carico apparissero di elevata gravità e loro non dimostrassero propensione al rispetto delle regole nonostante la loro situazione, le protezioni e gli aiuti prestati per la permanenza e la regolarizzazione all’interno dello Stato e della comunità”4)https://www.trevisotoday.it/cronaca/ex-serena-profughi-carcere-26-agosto-2020.html. Queste considerazioni – soprattutto quelle legate alla loro situazione, alla protezione e agli aiuti – si discostano molto dal tipo di esperienza vissuta dai quattro richiedenti asilo nell’ex caserma Serena. Un’esperienza, come abbiamo visto, caratterizzata da abbandono e confinamento, in luoghi sovraffollati e spesso fatiscenti. Dopo circa due mesi di detenzione, a metà ottobre 2020, su indicazioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), i quattro richiedenti asilo vengono sottoposti al regime di “sorveglianza particolare” di cui all’articolo 14 bis L. 354/1975 per una durata complessiva di tre mesi.
In che cosa consiste nello specifico il regime di “sorveglianza particolare”? Trattasi di uno strumento “eccezionale” che prevede una serie di “restrizioni per il detenuto che comportano vistose deroghe all’ordinario trattamento penitenziario” (cfr. Grippo 2012). Esso consiste in un regime d’isolamento che viene rivolto ai detenuti considerati particolarmente pericolosi. L’articolo 14 bis dell’ordinamento penitenziario dice, infatti, che a tale regime possono essere sottoposti i condannati, gli internati e gli imputati che con i loro comportamenti “compromettono la sicurezza e l’ordine negli istituti, che con la violenza o la minaccia impediscono le attività degli altri detenuti, che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri ristretti nei loro confronti” (comma 1). Al regime di sorveglianza particolare possono essere sottoposti i detenuti “sulla base di precedenti comportamenti penitenziari o di altri concreti comportamenti tenuti, indipendentemente dalla natura dell’imputazione, nello stato di libertà” (comma 5).
Appare evidente come il regime di sorveglianza particolare sia strettamente legato alla questione della “sicurezza”. Per sicurezza si intende sia quella condizione che permette lo svolgimento del trattamento penitenziario nel suo complesso (sicurezza interna), sia la garanzia che le misure restrittive della libertà effettivamente si realizzino, scongiurando rischi di evasione o fuga dei detenuti (sicurezza esterna). In entrambi i casi ci si riferisce a situazioni talmente generali che, come è stato sottolineato, possono “essere pregiudicate solo da specifici comportamenti particolarmente dannosi” (ivi: 3), che andrebbero individuati di volta in volta al fine di indicare le particolari condotte rispetto alle quali “è possibile effettuare una valutazione prognostica di pericolosità” (ivi: 4). Lo stesso vale per quanto riportato nel comma 5 dell’art. 14 bis, ovvero il riferimento ad “altri concreti comportamenti tenuti nello stato di libertà”. Anche in questo caso siamo di fronte ad un’indicazione caratterizzata da grande vaghezza ed indeterminatezza che facilmente può dar luogo a quella che può essere considerata una vera e propria presunzione di pericolosità nei confronti di specifici soggetti.
L’applicazione della sorveglianza particolare comporta l’immediata separazione dei quattro richiedenti asilo e quindi il loro trasferimento presso altri istituti di pena del Veneto: le case circondariali di Verona, Vicenza e Belluno. Chaka Ouattara, in quei giorni di ottobre, viene trasferito nell’istituto Scaligero.
Per quale motivo è stata applicata una misura così severa? In questo caso la sorveglianza speciale è stata giustificata esclusivamente alla luce dei comportamenti che i quattro richiedenti asilo avrebbero avuto nel corso delle proteste del giugno 2020 all’interno dell’ex caserma Serena. “Comportamenti gravissimi” – come sottolineato nel documento che li sottopone al regime di sorveglianza particolare – “che si sono peraltro concretizzati in un contesto para-restrittivo, che dimostrerebbero la loro insofferenza al rispetto delle regole minimali di convivenza e la loro predisposizione ad atteggiamenti palesemente oppositivi”. È evidente come il timore fosse quello che simili forme di protesta potessero essere messe in atto anche all’interno del contesto penitenziario, andando a destabilizzare la sicurezza dell’istituto. La sorveglianza particolare è stata utilizzata, quindi, come una misura preventiva, considerata “necessaria e indispensabile” per evitare che i quattro richiedenti asilo potessero reiterare le azioni oppositive che, secondo le accuse, avevano già messo in atto all’interno del CAS nel quale erano stati accolti.
Nella pratica, il regime di sorveglianza particolare si realizza negli spazi del carcere appositamente destinati all’isolamento dei detenuti, all’interno di celle singole prive di armadi con ante, senza specchi, televisore, fornellino e ogni altro soprammobile. Esso comporta l’esclusione dalle attività che quotidianamente si realizzano all’interno dell’istituto, vale a dire quelle di tipo scolastico, formativo, lavorativo, sportivo, religioso e l’esclusione da ogni occasione di socialità condivisa assieme agli altri detenuti. L’unica concessione prevista è la permanenza all’aperto per un massimo di due ore al giorno.
L’arrivo di Chaka Ouattara presso la casa circondariale di Verona Montorio con l’indicazione di essere sottoposto immediatamente alla misura di sorveglianza particolare non lascia indifferenti gli operatori penitenziari. Come è emerso dalla visita che gli osservatori di Antigone hanno svolto in quel carcere a fine dicembre 2020, il giovane richiedente asilo si discostava molto dall’ideal-tipo di detenuto sottoposto a regime di 14 bis a cui gli operatori erano solitamente abituati. In particolar modo colpiva la sua giovane età, il fatto che tale regime fosse giustificato dai comportamenti avuti in libertà piuttosto che in detenzione (è quest’ultima possibilità ad apparire solitamente più diffusa, come hanno raccontato diverse persone che operano in carcere) e il fatto che non fosse un condannato definitivo ma in attesa di giudizio e per di più arrestato da pochi mesi. Colpiva, inoltre, la sua tranquillità e pacatezza che difficilmente sembravano giustificare un regime detentivo così severo.
Il 7 novembre Chaka decide di togliersi la vita, utilizzando come cappio alcune parti dei suoi capi d’abbigliamento. Dalla ricostruzione dei fatti, sembra abbia “approfittato” di un momento in cui il personale di polizia penitenziaria era impiegato a far uscire dalla sezione altri detenuti isolati.
Non è intenzione di questo contributo individuare eventuali responsabilità riconducibili all’accaduto. Tuttavia, è importante sottolineare come il giovane richiedente asilo si trovasse in una condizione caratterizzata da un alto rischio autolesionistico e suicidario. Come hanno sottolineato diversi contributi sul tema, in carcere ci si toglie la vita più facilmente nel primo periodo della propria detenzione, lo fanno principalmente detenuti giovani e in detenzione cautelare (Boraschi e Manconi, 2006). E ancora, l’inattività prolungata, la bassa qualità della vita relazionale, la marginalità sociale, la carenza o assenza di riferimenti affettivi esterni, il trasferimento da altri istituti (cfr. Buffa, 2008) e, soprattutto, la detenzione presso reparti di isolamento (Torrente e Miravalle, 2015), rappresentano fattori assolutamente ricorrenti nei casi di suicidio avvenuti nelle carceri italiane. Questi fattori caratterizzavano profondamente anche la condizione di Chaka.
L’avvocato del giovane richiedente asilo ha raccontato alla stampa che il giorno precedente avevano parlato al telefono e ha riportato un certo stato di preoccupazione sulla difficoltà di accedere agli arresti domiciliari. Il suo precedente domicilio era infatti l’ex caserma Serena, il luogo nel quale aveva avuto origine tutto. La possibilità di poter accedere agli arresti domiciliari come misura alternativa alla custodia cautelare in carcere, infatti, non è affatto scontata e questo è particolarmente vero per le/i richiedenti asilo che, solitamente, trascorrono la totalità del proprio soggiorno italiano ospitati presso centri d’accoglienza, rimanendo facilmente “scoperti” in caso di fuoriuscita, volontaria o forzata dagli stessi, proprio rispetto allo strumento che rappresenta la condizione per ottenere questa misura alternativa. Un deficit che ci dice molto rispetto allo stato di subalternità che molte/i migranti vivono in Italia, in particolar modo nell’ambito carcerario, rispetto al quadro di tutele e diritti formalmente ma anche materialmente garantiti per buona parte della popolazione autoctona.
Non è un caso che tra gli altri tre richiedenti asilo incarcerati solamente uno sia riuscito in tempi relativamente brevi a trovare un alloggio nel quale scontare gli arresti domiciliari. Ciò è stato possibile soprattutto grazie al supporto proveniente da alcune persone e realtà associative, già citate in precedenza, che si sono mobilitate a suo favore, strappandolo al carcere grazie all’individuazione di un’abitazione adeguata dove trascorrere i domiciliari.
Le tappe e la natura di questa tragica storia mettono in luce le pieghe securitarie e repressive che il controllo delle migrazioni può in alcuni casi prendere
Conclusioni
Gli episodi narrati in questa pagina, che sono culminati con il tragico suicidio di Chaka, hanno messo in evidenza sia come la crisi pandemica abbia impattato sull’accoglienza delle/dei richiedenti asilo facendo emergere ulteriormente le criticità strutturali che la caratterizzano, sia come le gravi lacune concernenti le prassi di gestione della crisi sanitaria, già riscontrate in altri contesti5)https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/covid19_prassi_fai_da_te_improvvisate_e_difformi_ecco_cosa_e_successo_nei_centri_d_accoglienza., abbiano portato a una recrudescenza dei conflitti in campo. Fattori quali il sovraffollamento, l’abbandono istituzionale, l’assenza di servizi e di supporto socio-economico si sono improvvisamente sovrapposti ad una pressoché totale mancanza di protocolli operativi, di standard trattamentali e di una organizzata presa in carico socio-sanitaria delle persone nel campo, esacerbando, ci permettiamo di dire inevitabilmente, le tensioni accumulate.
La crisi sanitaria in corso è andata a toccare molteplici aspetti della vita sociale e della nostra quotidianità, sconvolgendola. In questo scenario – segnato diffusamente, soprattutto in certe fasce sociali, da sofferenze, precarietà e disorientamento – si sono attivate delle reazioni comunitarie (soprattutto dentro le reti amicali e nelle famiglie) e delle risposte istituzionali (più o meno efficaci) in termini di supporto socio-economico e cura della salute pubblica in diversi luoghi come le scuole, gli ospedali e anche le carceri. Questo piano di interventi, seppur in molti casi contraddittorio, lacunoso e insufficiente, ha puntato a realizzare un certo contenimento del disagio e della eventuale rabbia sociale. Molte strutture di accoglienza, così come le persone ivi “ospitate”, sono risultate, però, completamente escluse da queste attenzioni, totalmente abbandonate a sé stesse, scomparse dalla narrazione pubblico-mediatica (che tanto su di loro aveva speculato) e, infine, assenti nell’organizzazione degli interventi governativi di gestione della crisi.
Nel caso dell’ex Caserma Serena questo livello intensivo di abbandono e segregazione ha suscitato le proteste delle/dei migranti, materializzando atteggiamenti resistenziali e una conflittualità sociale che ha trovato radici nello stato di subordinazione legato alla precarietà del loro status giuridico, alla situazione economica e abitativa, alla loro condizione sociale e psicologica. Queste pratiche oppositive hanno incontrato sulla loro strada un’attivazione dell’azione penale particolarmente severa, soluzione avallata anche da una retorica pubblica che ha invocato a più riprese il “pugno di ferro” nei confronti dei “facinorosi” dell’ex caserma trasformata in centro di accoglienza. Le tappe e la natura di questa tragica storia mettono in luce le pieghe securitarie e repressive che il controllo delle migrazioni può in alcuni casi prendere, evidenziando il ruolo giocato, all’interno di questo quadro di governance, dal dispositivo penale e carcerario che più che mai, in questo caso, mostra non solo le sue “classiche” disfunzioni, ma anche la sua natura strutturalmente violenta e repressiva.
Riferimenti bibliografici
Boraschi A. e Manconi L. (2006), Quando hanno aperto la cella era già tardi perché: suicidi ed autolesionismo in carcere 2002-2004, in Rassegna Italiana di Sociologia, 1, pp. 117-150.
Buffa P. (2008), Alcune riflessioni sulle condotte autoaggressive poste in essere negli istituti penali italiani, in Rassegna Penitenziaria, Rivista del Ministero della Giustizia e del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, 3.
Fassin D. (2005) , Compassion and Repression. The Moral Economy of Immigrants Policies in France, in Cultural Antropology, 20
Firouzi Tabar O. (2019), L’accoglienza dei richiedenti asilo tra segregazione e resistenze: un’etnografia a Padova e Provincia, in Fabini G., Firouzi Tabar O., Vianello F. (a cura di), Lungo i confini dell’accoglienza. Migranti e territori tra resistenze e dispositive di controllo, Roma, Manifestolibri.
Grippo R. (2011), Illegittimità dell’isolamento totale e della cella liscia. Rapporti tra sorveglianza particolare, sanzioni disciplinari, “41 bis” e circuiti: strumenti alternativi o in sovrapposizione?, in Diritto Penale Contemporaneo, pp.1-25.
Malkki L. H. (1996), Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization, in Cultural Anthropology, 11, 3, pp. 377-404.
Pasian P. e Toffanin A. M. (2018), Richiedenti Asilo e Rifugiate nello SPRAR. Contraddizioni nel Sistema d’Accoglienza, in Mondi Migranti, 1, pp. 127-145.
Torrente G. e Miravalle M. (2015). La pena del suicidio. La normalizzazione della sofferenza nelle pratiche penitenziarie, in I quaderni di A Buon Diritto, 4.
References
↑1 | Questi dati sono stati ripresi da un reportage su Nova Facility scritto da Carlo Ruggiero sul giornale della CGIL “Collettiva”. https://www.collettiva.it/copertine/diritti/2020/08/11/news/dai_mattoni_ai_migranti_l_evoluzione_degli_affari-223770/ |
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↑2 | Questa rivendicazione è stata documentata e pubblicata on-line da Meltingpot, che ha riportato sul suo sito integralmente la lettera delle/dei richiedenti asilo. https://www.meltingpot.org/Treviso-ex-Caserma-Serena-I-richiedenti-asilo-in-protesta.html#.YA7tehbSJPY |
↑3 | Si tratta delle testimonianze raccolte e pubblicate dalla giornalista Alice Carlon e da ciò che ci hanno riferito realtà come l’Associazione Caminantes e l’Adl Cobas di Treviso che hanno seguito da vicino questi accadimenti e supportato alcuni migranti soprattutto in seguito alle incarcerazioni di alcuni di loro che descriveremo nel prossimo paragrafo. |
↑4 | https://www.trevisotoday.it/cronaca/ex-serena-profughi-carcere-26-agosto-2020.html |
↑5 | https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/covid19_prassi_fai_da_te_improvvisate_e_difformi_ecco_cosa_e_successo_nei_centri_d_accoglienza. |