Con il messaggio INPS n.909 del 5 marzo 2019 si è instaurata la disdicevole prassi del mancato riconoscimento della Naspi (già indennità di disoccupazione ) a detenuti ed ex detenuti che abbiano svolto lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria per i loro periodi di quiescenza dal lavoro.
Tale decisione rappresenta un manifesto regresso rispetto a precedenti decisioni della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale in tema dei diritti dei detenuti e lavoro quale “il diritto dei detenuti lavoratori, così come i liberi cittadini, a percepire una remunerazione corrispondente alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali e in generale a un trattamento che deve essere mutuato su quello della società libera”.
Ciò ha seriamente preoccupato molti detenuti e i componenti delle loro famiglie i quali hanno visto il rigetto delle loro domande e la perdita di un sostegno al loro reddito, spesso già molto contenuto, ed hanno dovuto affrontare con maggiori difficoltà il rientro in società. Ne sono nate diverse segnalazioni ai Garanti dei detenuti e alle associazioni che si occupano della tutela dei diritti dei detenuti.
L’iniziativa di Antigone
Antigone, unitamente ad alcuni garanti regionali (Lazio, Umbria, Emilia Romagna, Toscana), ha sin da subito indirizzato all’INPS una lettera di protesta per tale messaggio che illegittimamente diniega prestazioni previdenziali dovute e una lettera di sensibilizzazione indirizzata alle organizzazioni sindacali al fine di provvedere attraverso i patronati all’invio delle domande di prestazione previdenziale. Nel medesimo tempo anche i patronati si sono organizzati al fine di ricorrere avverso le determinazioni negative assunte dall’INPS.
Grazie soprattutto all’opera e all’ingegno dell’avvocato Luca Santini, purtroppo venuto a mancare alla fine del luglio del 2019, è stato possibile unire le forze di Antigone, della Cgil e dell’Inca-Cgil ed è stata predisposta una guida per contrastare questa prassi discriminatoria. È stato quindi predisposto un modello di ricorso gerarchico avverso la determinazione negativa dell’INPS da indirizzare al Comitato provinciale INPS territorialmente competente che è quello di residenza dell’interessato. 1)In forza del novellato art 45 dell’ordinamento penitenziario il detenuto privo di residenza anagrafica acquisisce la residenza anagrafica nel territorio ove è sito l’istituto mentre al condannato è consentito optare tra il mantenimento della precedente residenza anagrafica e quella presso la struttura ove è detenuto o internato. Tale opzione può essere in ogni momento modificata.
È infatti indispensabile promuovere dapprima il ricorso gerarchico quale condizione di ammissibilità per il successivo ed eventuale ricorso al Giudice del Lavoro.
Il modello di ricorso è stato promosso e diffuso dal Difensore civico di Antigone, dalla Cgil e dall’Inca Cgil ed ha avuto una ampia circolazione. Dalle notizie in nostro possesso, tuttavia, i ricorsi amministrativi non hanno comportato un ripensamento dell’INPS e sono pertanto stati presentati ricorsi giurisdizionali.
Di recente, il 15 dicembre del 2020, il Tribunale del Lavoro di Venezia ha accolto il ricorso contro il diniego dell’INPS al riconoscimento della Naspi ad un detenuto
Di recente, il 15 dicembre del 2020, il Tribunale del Lavoro di Venezia ha accolto il ricorso contro il diniego dell’INPS al riconoscimento della Naspi ad un detenuto affermando nettamente il carattere discriminatorio della prassi dell’Istituto di previdenza.
Il ricorrente era stato detenuto fino al 27 marzo 2019 presso il carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia all’interno del quale ha svolto attività lavorativa in favore dell’Amministrazione penitenziaria dal maggio 2018 alla scarcerazione in qualità di addetto all’assistenza di soggetto disabile. Successivamente alla scarcerazione, in data 3 maggio 2019, l’interessato aveva presentato la domanda volta alla percezione della Naspi, rigettata in data 23maggio 2019 secondo quanto previsto dal messaggio INPS n.909 del 5 marzo 2019 sopra citato.
Dunque il caso in esame non riguarda la richiesta della Naspi per periodi di non lavoro in carcere tra un turno e l’altro di lavoro prestato alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, quanto piuttosto il diritto alla Naspi per il caso di un detenuto che ha prestato attività di lavoro in favore dell’Amministrazione penitenziaria cessato per scarcerazione, dunque, involontariamente.
Una buona notizia
Correttamente, il Giudice del lavoro ha preliminarmente verificato la sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa di settore, ovvero: A) lo stato di disoccupazione involontario, B) la dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa al Centro per l’Impiego; C) almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, D) 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione. Nulla quaestio, sul caso sottoposto al Giudice del Lavoro di Venezia, sulla sussistenza dei requisiti di cui alle lettere B), C) e D). Sul punto A), ossia, sullo stato di disoccupazione involontario, il Giudice del Lavoro, nel mettere in discussione il contenuto del messaggio INPS sopra menzionato, propone un parallelo con l’involontarietà della risoluzione del rapporto di lavoro per motivi disciplinari e le dimissioni rassegnate durante il periodo tutelato di maternità ex art. 55 d.lgs 151/2001, entrambe ipotesi in cui è pacificamente riconosciuta – dalla giurisprudenza e dalla prassi amministrativa – la possibilità di accesso alla Naspi; concludendo che “Anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro penitenziario per scarcerazione la cessazione del rapporto di lavoro non è riconducibile alla volontà del lavoratore, e pertanto con la scarcerazione il detenuto-lavoratore si trova involontariamente disoccupato. Ragionare diversamente condurrebbe infatti a conclusioni contrarie alle finalità del lavoro penitenziario e alla tendenziale equiparabilità di tale prestazione lavorativa al c.d. lavoro libero più volte ribadito dalla Corte Costituzionale.”
La sentenza è da salutare con favore in quanto esplicitamente afferma “che la negazione del beneficio della Naspi ai soli detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria confliggerebbe con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Costituzione, in quanto accedendo all’interpretazione dell’Inps i detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria sarebbero gli unici, nell’ordinamento, a versare la contribuzione atta a finanziare la Naspi senza potersene avvantaggiare.”
Tale principio è da condividere appieno, in primo luogo, perchè evita discriminazioni tra chi ha lavorato, durante l’esecuzione della pena, a favore di soggetti diversi dall’Amministrazione penitenziaria, e che ha accesso alla Naspi, e chi ha lavorato alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, che non avrebbe accesso alla Naspi secondo il messaggio Inps in commento.
Una differente interpretazione che non riconosca il diritto alla Naspi anche durante la detenzione carceraria riteniamo che confliggerebbe con la stessa funzione trattamentale assegnata dal legislatore al lavoro carcerario
La turnazione del lavoro in carcere
Il principio affermato dal Tribunale del Lavoro di Venezia potrebbe essere utilizzato anche per affermare il diritto alla Naspi per il detenuto durante la detenzione e nei periodi “forzati” di astensione al lavoro legati alla turnazione tipica del lavoro penitenziario. A patto, ovviamente, che siano soddisfatti gli altri requisiti di legge in precedenza menzionati.
Una differente interpretazione che non riconosca il diritto alla Naspi anche durante la detenzione carceraria riteniamo che confliggerebbe con la stessa funzione trattamentale assegnata dal legislatore al lavoro carcerario atteso che anche il sostegno economico durante il percorso di reinserimento ha un’indubbia valenza trattamentale. Per utilizzare le argomentazioni utilizzate dal Giudice del Lavoro di Venezia nella sentenza in commento, anche nel diverso caso qui proposto, si potrebbe sostenere che anche durante la detenzione e l’involontaria sospensione dell’attività lavorativa, legata alla turnazione a sua volta derivante dalla scarsità di opportunità lavorative in carcere “la remunerazione e la tutela previdenziale/assicurativa svolgono un ruolo fondamentale sia per il riconoscimento che viene attribuito all’attività lavorativa svolta, sia per l’innegabile effetto positivo sul processo di “modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale” (art. 1, co 2, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà DPR 230/2000).” Dunque, se alla cessazione del rapporto di lavoro in ragione della turnazione, pur ricorrendone gli altri presupposti, non fosse riconosciuta la tutela della disoccupazione anche la funzione rieducativa della pena sarebbe vanificata: se infatti il lavoro penitenziario ha una finalità di recupero e reintegrazione ugualmente la disponibilità di un sostegno economico nel delicato processo di reinserimento nella società, durante il periodo detentivo, ha un’indubbia valenza trattamentale, tesa a non vanificare gli sforzi di riabilitazione profusi nel corso dell’espiazione della pena.
In materia di diritto al lavoro in carcere la legge penitenziaria è ispirata al principio secondo cui il detenuto che lavora deve vedersi riconosciuti gli stessi diritti del cittadino libero.
D’altronde sono numerose le disposizioni che suggeriscono una siffatta interpretazione. Come è noto, in materia di diritto al lavoro in carcere la legge penitenziaria è ispirata al principio secondo cui il detenuto che lavora deve vedersi riconosciuti gli stessi diritti del cittadino libero. La Legge 354/1975 (ordinamento penitenziario) prevede, infatti, che “l’organizzazione e i metodi” del lavoro penitenziario “devono riflettere” quelli del lavoro nella società libera (Art. 20 comma 3); che “la durata” delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e che alla stregua di tali leggi deve essere garantita, tra l’altro, “la tutela assicurativa e previdenziale” (Art. 20 comma 13); infine, che la remunerazione deve essere stabilita in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico “previsto dai contratti collettivi di lavoro” (Art.22). L’orientamento dettato dal legislatore nazionale è in sintonia con quello emergente dalle Regole penitenziarie europee (Raccomandazione R 2006 – 2) secondo cui in modo particolare “i detenuti che lavorano devono essere inseriti nel sistema nazionale della previdenza sociale” (Art. 26, punto 17).
La Corte costituzionale si è pronunciata in modo particolare sulla questione del diritto alla retribuzione dei lavoratori detenuti, rilevando, già nella sentenza n.1087/1988, che il lavoro del detenuto è un diritto e che, pertanto, avendo perso la sua vecchia natura “afflittiva”, non si può più “dubitare che il rapporto che ivi si instaura è disciplinato dal diritto comune negli elementi essenziali tra cui la retribuzione […] per quanto non possa ritenersi che tale genere di lavoro sia del tutto identico [a quello svolto in libertà], specie per la sua origine, per le condizioni in cui si svolge, per le finalità cui è diretto e che deve raggiungere, non può assolutamente affermarsi che esso non debba essere protetto, specie alla stregua dei precetti costituzionali (artt. 35 e 36 Cost.)”. La Corte costituzionale si è espressa anche sul diritto alle ferie retribuite dei lavoratori detenuti, dichiarando con la sentenza n. 158 del 2001, l’illegittimità costituzionale dell’art. 20, della Legge 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui non riconosceva il diritto al riposo annuale retribuito (o alla relativa indennità sostitutiva) al detenuto che avesse prestato la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. In sostanza i detenuti lavoratori, così come i liberi cittadini, hanno diritto a una remunerazione corrispondente alla quantità e qualità dell’attività prestata, al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali, in generale a un trattamento che deve essere mutuato su quello della “società libera”. Alla luce di tali principi appare francamente immotivata la decisione di non riconoscere l’involontaria sospensione del lavoro, a causa della turnazione, al detenuto anche durante l’espiazione della pena.
Non vi è ragione d’altra parta per negare che nel caso di specie la condizione di disoccupazione del lavoratore sia del tutto involontaria, in quanto la cessazione dell’attività lavorativa è stata unilateralmente stabilita dall’Amministrazione, né è in alcun modo prevedibile il momento in cui il lavoratore verrà riammesso in servizio. Sembra logico quindi accordare a un lavoratore che si trovi privo di impiego e di stipendio, per cause indipendenti dalla propria volontà, la tutela tipica prevista dall’ordinamento contro la disoccupazione per le generalità dei consociati.
Possiamo attestare che ci sono pervenute numerose segnalazioni sulla mancata percezione della Naspi sia da detenuti che da persone che avevano da poco terminato di espiare la pena
Nell’esperienza del difensore civico possiamo attestare che ci sono pervenute numerose segnalazioni sulla mancata percezione della Naspi sia da detenuti che da persone che avevano da poco terminato di espiare la pena e che si sono viste private di un necessario supporto nel difficile cammino di rientro in società.
Il lavoro intrapreso con la Cgil e l’Inca 2)Si ringraziano l’Inca cgil, la Cgil con cui si è instaurata una fruttuosa collaborazione e Giampaolo Romanzi del difensore civico che ha reperito la sentenza del tribunale di Venezia e trattato molte segnalazioni pervenute al difensore in tema di disconoscimento della Naspi. ci ha permesso di dare una risposta alle tante sollecitazioni e richieste e ci impone di seguire l’evoluzione di questa campagna al fine di far sì che intervengano ulteriori decisioni dei giudici di merito e di legittimità che consolidino il principio dell’equiparazione tra il lavoro penitenziario e il lavoro c.d. libero.
Del resto se l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro inserire una discriminazione tra cittadini detenuti e liberi proprio in tale materia avrebbe una valenza simbolica nefasta che riteniamo vada contrastata con la promozione dei diritti.
References
↑1 | In forza del novellato art 45 dell’ordinamento penitenziario il detenuto privo di residenza anagrafica acquisisce la residenza anagrafica nel territorio ove è sito l’istituto mentre al condannato è consentito optare tra il mantenimento della precedente residenza anagrafica e quella presso la struttura ove è detenuto o internato. Tale opzione può essere in ogni momento modificata. |
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↑2 | Si ringraziano l’Inca cgil, la Cgil con cui si è instaurata una fruttuosa collaborazione e Giampaolo Romanzi del difensore civico che ha reperito la sentenza del tribunale di Venezia e trattato molte segnalazioni pervenute al difensore in tema di disconoscimento della Naspi. |