“Io, infatti, ero superiore a tutti loro, ero a mille miglia di distanza. Non erano che schiavi, mentre io ero uno spirito libero. Non ero io ad essere rinchiuso in gabbia, ma il mio corpo. E mentre la mia povera carne giaceva – senza provare sofferenza, del resto – nella piccola morte della camicia di forza, il mio dominio sul corpo era totale e potevo percorrere lo spazio infinito a mio piacimento.”
Il vagabondo delle stelle, Jack London
Quella della salute mentale sicuramente costituisce una delle questioni di maggior rilevanza, anche in termini di complessità, che interessano il mondo carcerario, in molti casi universo parallelo e sconosciuto.
La storia di M.
Se la natura e le finalità dell’istituzione carceraria sono ancora al centro del dibattito pubblico, quello che accade lontano dai salotti e dalle opinioni – da più parti sferzate con poca conoscenza dei fatti – sembra indicare che la direzione più largamente intrapresa sia quella che considera il carcere in ottica punitiva. Per quanto esistano tentativi di aprire alla possibilità di rieducare e non solo di punire i detenuti, questi falliscono quasi sempre quando si tratta di proteggere persone con bisogni particolari e specifici, che sono i primi a subire il carcere in tutta la sua violenza. Come nel caso di M., un detenuto in espiazione presso un reparto di osservazione psichiatrica “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino. La vicenda ci viene narrata da un familiare che si rivolge al Difensore Civico di Antigone preoccupato della situazione particolarmente critica in cui versa il ragazzo.
Verso la fine di agosto, la famiglia di M. viene informata di un tentativo di suicidio del ragazzo. Alla debolezza si risponde con la forza, quindi sembrerebbe che M. venga trasferito in una cella liscia, denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. La cella liscia è una cella vuota, in cui i detenuti vengono lasciati senza niente che non siano le quattro mura lisce di una stanza. Quella delle celle lisce è una prassi, seppur formalmente vietata dal regolamento penitenziario e da fonti sovranazionali, oramai consolidata in alcuni istituti di pena. In questi casi, il contenimento ambientale di soggetti con gravi problematiche psichiatriche sembra essere la risposta più adeguata nel trattare tentativi di suicidio o atti di autolesionismo.
M., stando a quanto riferitoci, passa diversi giorni in questa cella, e quando chiudono l’acqua ci hanno riferito addirittura che si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del W.C.
La situazione di M. peggiora, si agita, la cella liscia non aiuta di certo e la prassi che ci viene narrata è quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedare il detenuto.
M. subisce un trattamento sanitario obbligatorio che da quanto raccontato non risponde a nessuna perizia psichiatrica. Viene denunciata infatti l’assenza di test clinici adeguati che possano configurare una corrispondente terapia. M. trascorre nove mesi continuativi nella sezione dedicata a soggetti in acuzie del reparto di osservazione psichiatrica, in cui la permanenza massima prevista dalla legge è invece di trenta giorni.
Quella di M. è solo una delle tante storie che arrivano al nostro ufficio e che ci danno l’idea di quanta strada ancora c’è da fare per garantire diritti e protezione a chi vive all’interno delle carceri italiane. Infatti, come emerso dal nostro rapporto annuale, in 98 istituti visitati dall’Osservatorio della nostra associazione nel 2019, una media del 27,6% dei detenuti risulta in terapia psichiatrica e il 41 % delle patologie sono disturbi psichici. Quella della salute mentale sicuramente costituisce una delle questioni di maggior rilevanza, anche in termini di complessità, che interessano il mondo carcerario, in molti casi universo parallelo e sconosciuto.
Il carcere, infatti, nella sua essenza è terreno fertile per l’insorgere di patologie psicologiche e psichiatriche anche durante tutta la fase detentiva e nella fase prossima alla scarcerazione.
Uno sguardo sulla salute mentale in carcere
Nell’analisi della salute mentale all’interno degli istituti penitenziari, uno dei primi aspetti da valutare per comprendere la portata della questione è legato all’incidenza del suicidio e di atti autolesionistici compiuti da soggetti ristretti nelle carceri italiane.
Secondo i dati del Ministero della giustizia, nel 2019 si sono verificati in totale 53 suicidi, con 8,7 suicidi ogni 10.000 detenuti mediamente presenti, 8,376 atti autolesionistici e 939 tentativi di suicidio. Secondo i dati raccolti dal Dossier “morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, fino a dicembre 2020 si sono verificati 55 suicidi all’interno delle carceri, numero destinato ad aumentare anche come conseguenza del crescente isolamento rispetto al mondo esterno dei soggetti ristretti a seguito della pandemia. Questi dati sono particolarmente preoccupanti soprattutto se paragonati alle stime riportate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui nel 2016 in Italia nella popolazione libera si è registrato un tasso di suicidi pari allo 0,82 ogni 10.000 abitanti. Ancora una volta il carcere è il luogo in cui si registra una maggiore incidenza del fenomeno suicidario. In tal senso, il momento dell’ingresso all’interno del sistema carcerario rappresenta un evento traumatico: la rottura dei rapporti con il mondo esterno, le debolezze e le problematiche individuali, la precarietà dei rapporti affettivi congiuntamente alla condizione propria della carcerazione sono tutti elementi che incidono sulla probabilità di commissione del suicidio e che rendono dunque i detenuti una delle categorie maggiormente a rischio.
Tuttavia, il momento dell’ingresso non costituisce l’unico momento di criticità: il carcere, infatti, nella sua essenza è terreno fertile per l’insorgere di patologie psicologiche e psichiatriche anche durante tutta la fase detentiva e nella fase prossima alla scarcerazione. Numerose sono le patologie che insorgono in queste due fasi e che sono state riscontrate da alcuni studiosi. Secondo Donald Clemmer, ad esempio, nel corso dell’espiazione della pena il soggetto detenuto assimila un insieme di norme che governano ogni aspetto di vita dello stesso, portandolo così a determinare un annichilimento della personalità e dei valori che aveva prima dell’ingresso in carcere. Viene denominata dagli addetti ai lavori “sindrome da prigionizzazione” e dimostra quanto l’ambiente carcerario possa essere nocivo per i soggetti più deboli che lo subiscono, sforniti di strumenti adeguati a reagire al contesto di privazione della libertà personale.
Altri disturbi psichici particolarmente frequenti tra la popolazione detenuta sono il disturbo dell’adattamento, i disturbi legati all’uso di sostanze stupefacenti, il disturbo del controllo degli impulsi e i disturbi della personalità.
Ultimo momento definito critico per il soggetto è rappresentato dalla fase prossima alla scarcerazione, durante il quale insorgono una serie di preoccupazioni e ansie legate al reinserimento all’interno della società libera, che per molti può rappresentare un momento di forte difficoltà.
Il tema legato alla tutela della salute mentale in carcere sicuramente rappresenta uno dei nodi più difficili da sciogliere, per la necessità da una parte di garantire cure adeguate che rendano il contesto detentivo quanto meno possibile peggiorativo del disagio psichico, dall’altra per la necessità di assicurare la sicurezza della società libera e all’interno degli istituti stessi.
Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata.
Le articolazioni per la salute mentale
Il vigente ordinamento penitenziario, nello specifico il regolamento di esecuzione D.P.R 230/2000 agli artt.111 e 112, prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate “articolazioni per la salute mentale”, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. Tali reparti sono destinati a condannati o internati che sviluppino una patologia psichiatrica durante la detenzione o a condannati affetti da vizio parziale di mente, e si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia, le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti. Molto spesso infatti, l’approccio terapeutico nelle sezioni di osservazione si limita al contenimento del detenuto, spesso in acuzie, e alla somministrazione della terapia farmacologica, dando priorità alle ragioni di ordine e sicurezza, come dimostrato dalla presenza in alcuni di questi reparti delle cosiddette celle lisce.
Per comprendere più a fondo la questione relativa alle articolazioni per la salute mentale, prendiamo in esame proprio la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, nello specifico il reparto “Sestante”. Lo stesso rappresenta il centro di riferimento regionale per la cura delle più gravi malattie mentali manifestate dai detenuti, ed è anche uno dei centri di riferimento dell’Amministrazione penitenziaria a livello nazionale.
Il reparto è suddiviso a sua volta in due sezioni: la Sezione VII, reparto osservazione, in cui vengono ristretti i soggetti in acuzie, sottoposti a videosorveglianza in maniera continuativa, e la Sezione VIII, reparto trattamento, per soggetti che vengono valutati idonei a intraprendere un percorso terapeutico. Come riportato dal rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale, a seguito di una visita effettuata nel 2018, le criticità più evidenti vengono riscontrate soprattutto nella sezione VII: nonostante nasca come luogo in cui debbano essere ristretti soggetti nella fase più acuta della malattia, dunque soggetti che avrebbero maggiore bisogno di cure, viene segnalata la totale mancanza di qualsiasi progetto terapeutico e l’esclusione di attività che consentano qualsiasi forma di socialità. I detenuti si trovano ristretti in celle singole per la quasi totalità della giornata. In questi casi, la tutela della salute mentale sembra in continuo conflitto tra modalità di isolamento e controllo e cura del disagio. A riprova di ciò, l’elemento di maggiore criticità che viene riscontrato è rappresentato dalla presenza di una cella liscia, la stanza 150, che manca di qualsiasi elemento di arredo, televisore compreso, con servizio igienico alla turca a vista e senza lavabo. Un altro dato allarmante che viene riportato dal Garante è rappresentato dal registro degli accessi in cella liscia: nonostante infatti formalmente venga dichiarato che la permanenza nella stessa dura generalmente qualche ora, in realtà vengono registrati in alcuni casi la permanenza di soggetti per periodi superiori a venti giorni.
Le condizioni strutturali generali del reparto, inoltre, risultano anch’esse particolarmente scadenti: tutte le camere presentato necessità di interventi di ristrutturazione; viene denunciata sporcizia diffusa, tracce di muffa, materassi scaduti e servizi igienici a vista in tutte le celle. Le condizioni delle strutture sono state anche filmate dalle telecamere dell’Osservatorio di Antigone nel 2019, nel video disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=kWZNf20uY-c
L’unico elemento di positività è rappresentato dall’assistenza psicologica e psichiatrica che viene garantita quotidianamente dalle 8:00 alle 20:00.
La sezione VIII, o reparto trattamento, presenta senza dubbio delle condizioni complessivamente migliori. Le camere sono in buone condizioni per quanto riguarda l’arredamento e la manutenzione e i bagni sono separati. Inoltre, all’interno della sezione vi è una sala biblioteca, una stanza per l’attività trattamentale e un ambulatorio per percorsi congiunti con psicologi, psichiatri ed educatori.
Partendo dalle storie che giungono all’ufficio del Difensore Civico e passando per l’analisi delle modalità con cui viene trattata la salute mentale in carcere, e poi avendo la possibilità di osservare da vicino lo stato in cui versano i reparti di osservazione psichiatrica, risultano evidenti le lacune che l’istituzione penitenziaria soffre rispetto al tema della salute mentale. Infatti, nell’amministrazione dei detenuti e della loro permanenza nelle sezioni, che siano esse ordinarie oppure specificamente psichiatriche, quello che si predilige sono le necessità di ordine e sicurezza, mediante l’utilizzo di metodi per lo più punitivi, quali sono le celle lisce. Questa tendenza riguarda anche i detenuti psichiatrici, senza che invece venga data priorità allo sviluppo di un sistema detentivo quanto più possibile accorto alle necessità specifiche di tali soggetti, e che punti a una loro riabilitazione e a un trattamento di cura delle problematiche di salute mentale.
Dall’analisi svolta emerge dunque che il carcere per la sua stessa natura, nonostante i tentativi affannosi del legislatore, non possa e non debba essere considerato come un luogo adatto alla cura dei malati psichiatrici.
Breve bibliografia:
Giulia Camera (2017), Liberi, detenuti in carcere e ristretti in strutture dedicate: diverse prospettive del diritto alla salute in La tutela della salute nei luoghi di detenzione a cura di Antonella Massaro pp.117-124.
Maddalena Di Lillo (2019), Il problema della salute mentale in carcere, https://antigoneonlus.medium.com/il-problema-della-salute-mentale-in-carcere-4ae94fe83391
Domenica Laganà (2019), Psicologia del suicidio in carcere, una valutazione comparativa tra nuovi giunti e detenuti con “fine pena mai”