Tecnologie e diritti

Tecnologie e diritti

1024 538 XVII rapporto sulle condizioni di detenzione

 

In carcere è (finalmente) arrivata la tecnologia?

Incredibile a dirsi, la pandemia ha costituito sotto molti aspetti la prima opportunità per le carceri di assistere a un uso non residuale, e non teso alla sola custodia, di quelle tecnologie che plasmano la vita quotidiana nel mondo libero. Nei mesi scorsi si è assistito per la prima volta all’ingresso di oggetti tremendamente familiari per ciascuno di noi attorno ai quali vigeva un irriflesso tabù penitenziario, gli smartphone; all’uso di modalità comunicative che fin da bambini si frequentano nelle proprie case, le videochiamate; a un adeguamento di attività scolastiche interne a quelle sperimentate fuori, la didattica a distanza. Nel 95,5% degli istituti visitati dall’Osservatorio di Antigone nel corso del 2020 vi è oggi la possibilità di effettuare videochiamate con i propri cari. In 61 carceri l’Osservatorio ha effettuato un monitoraggio della gestione scolastica scoprendo che in meno della metà si effettua didattica a distanza. L’introduzione dei cellulari e il massiccio ampliamento del ricorso alle videochiamate ha costituito una reazione molto rapida alla pandemia da parte del sistema carcerario. Come vedremo più sotto, gli istituti hanno prontamente trovato strategie di adeguamento alla nuova realtà che passavano attraverso l’uso delle tecnologie. Ma andiamo con ordine e ricostruiamo un percorso che riguarda in maniera essenziale i diritti delle persone detenute.

Tra i principi fondamentali che aprono le European Prison Rules del Consiglio d’Europa c’è infatti quello che afferma che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. Il digiuno tecnologico imposto alle carceri rende la vita interna enormemente diversa da quella esterna, scavando un profondo fossato di ulteriore isolamento. L’analfabetismo informatico allontana ogni sana spinta di reintegrazione sociale. La Regola 24 afferma che “i detenuti devono essere autorizzati a comunicare il più frequentemente possibile – per lettera, telefono, o altri mezzi di comunicazione – con la famiglia, con terze persone e con i rappresentanti di organismi esterni, e a ricevere visite da dette persone”. Nel commentario si legge che “le autorità penitenziarie devono essere consapevoli delle nuove possibilità di comunicazione per via elettronica offerte dalla tecnologia moderna. Più queste possibilità si sviluppano, più aumentano anche i mezzi per il loro controllo, cosicché i nuovi mezzi di comunicazione elettronica possono essere utilizzati con modalità che non minacciano la sicurezza e l’ordine interno”.

Le Mandela Rules delle Nazioni Unite affermano alla Regola 58 che le comunicazioni con famiglia e amici dovrebbero avvenire “in writing and using, where available, telecommunication, electronic, digital and other means”. La clausola che subordina la possibilità di comunicare per via informatica alla disponibilità delle adeguate tecnologie si spiega con il contesto planetario cui le Mandela Rules si rivolgono, dove non è certo un paese come l’Italia ad avere difficoltà sotto questo rispetto. La legge interna italiana non esplicita il diritto della persona detenuta a usare le nuove tecnologie di comunicazione. Si auspicava l’introduzione di una frase chiara sul tema da parte della riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre 2018 che tuttavia non ci fu. In quel frangente sono state però aggiunte all’art. 18 le parole per cui “l’informazione è garantita per mezzo dell’accesso a quotidiani e siti informativi”. Non ci risulta che le carceri si siano adeguate in maniera minimamente significativa a tale disposizione.

Sul piano amministrativo, per il passato è da citarsi il lavoro della Commissione ministeriale in materia penitenziaria messa in piedi all’indomani della sentenza Torreggiani del 2013 e presieduta dall’attuale Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Nella sua relazione conclusiva del novembre di quell’anno, la Commissione disponeva che “in via sperimentale si avvierà nel medio periodo la pratica dell’organizzazione dei colloqui via ‘skype’ negli Istituti forniti di computer, in aggiunta alle ore di colloquio regolamentari”. Ma le attenzioni della Commissione al mondo informatico non si limitavano al tema dei contatti con l’esterno. “In linea con il Progetto strategico governativo ‘Agenda digitale’”, scriveva ancora, “va comunque avviato da subito (…) il percorso per l’adozione della Cartella medica digitale”, fondamentale per assicurare continuità terapeutica, per monitorare lo stato di presa in carico da parte delle Asl, per promuovere la telemedicina. All’epoca nessun carcere italiano era dotato di cartella digitale. Tutto veniva registrato in fascicoli cartacei che parevano risalire a ere remote, enormi faldoni pieni di fogli stratificati, rovinati, scritti a mano e spesso incomprensibili, nel rischio di non saper fornire le giuste indicazioni terapeutiche in situazioni critiche e di compromettere fortemente il diritto alla salute. Nell’estate 2014 l’Osservatorio di Antigone tentò una prima ricognizione su 12 regioni a campione (nord, centro, sud, isole) sullo stato di adeguamento a tali disposizioni, coprendo oltre la metà delle carceri del paese. Si trovarono solo quattro istituti che avevano sperimentato l’uso di Skype (Padova, Trieste, Volterra, Piazza Armerina), uno strumento privo di costi e di banale organizzazione. Quanto alla cartella clinica digitale, oltre all’Emilia Romagna che l’aveva virtuosamente introdotta in tutte le sue carceri, solo 9 istituti tra quelli monitorati si erano adeguati alla disposizione. Dopo ben tre anni, nel 2017, l’Osservatorio ripeté un simile monitoraggio a campione su 86 carceri (il 45% del totale), scoprendo che le videochiamate si potevano effettuare in soli 7 istituti, l’8,1% di quelli visitati. In 3 si poteva accedere a Internet per motivi diversi dalla videochiamata. Il sistema pareva impermeabile a cambiamenti che lo avrebbero avvicinato al resto del mondo.

Fino a quando, all’inizio del 2020, il mondo non fu scosso dalla pandemia. Da quel momento gli eventi si susseguono a un ritmo che mai si era visto nell’universo penitenziario. Il decreto legge dell’8 marzo 2020 recante misure urgenti per contenere gli effetti della pandemia sull’attività giudiziaria, ripreso in questo meno di dieci giorni dopo dal decreto cosiddetto Cura Italia, interrompe – inizialmente solo per due settimane – i colloqui in presenza dei detenuti con congiunti o altre persone, sostituendoli con colloqui a distanza svolti “mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere  autorizzata  oltre  i  limiti” di legge. La legge 77 del 17 luglio, di conversione del decreto cosiddetto Rilancio, formalizzerà la possibilità di svolgere colloqui a distanza tramite strumenti messi a disposizione dall’Amministrazione “su richiesta dell’interessato”, oltre che quando ciò è necessario per motivi di salute.

Se la parte teorica è rapida, la prassi non è da meno e le rimane alle calcagna. Accade adesso la cosa forse più straordinaria per chi conosce l’universo carcerario: i cancelli degli istituti si aprono all’uso consentito dello smartphone. Uno degli oggetti maggiormente demonizzati dal sistema penitenziario viene addirittura acquistato dall’istituzione per la popolazione detenuta.

Il 12 marzo, a poche ore dalla tragedia delle rivolte penitenziarie, l’Amministrazione emana una circolare nella quale chiede alle carceri di “consentire lo svolgimento di esami di laurea, esami universitari e colloqui didattici tra docenti e studenti detenuti, sia appartenenti ai circuiti di Media Sicurezza che As3, mediante videoconferenza e/o tramite Skype”. La circolare aggiunge, cosa niente affatto scontata, che “allo scopo di limitare il disagio dei detenuti sopraindicati, in particolare se iscritti a corsi universitari, si consentirà anche l’uso della posta elettronica per comunicazioni celeri con i docenti”. Infine, si consentirà “il ricorso alla posta elettronica per la corrispondenza tra i detenuti sia Media Sicurezza sia As3 con i familiari”. Tutto questo vale solo per la fase emergenziale, ma è comunque qualcosa cui mai si era assistito prima. Da sottolineare l’attenzione a percorsi che esulano da quelli affettivi nei quali introdurre l’uso della tecnologia. Si rompe il tabù del digitale in carcere. Lo stesso giorno una circolare dell’ufficio amministrativo preposto all’alta sicurezza autorizza per i detenuti in questo circuito, sempre limitatamente alla fase dell’emergenza, l’uso “della piattaforma ‘Skype for business’ per l’effettuazione di videochiamate con i propri familiari aventi diritto”. Se la parte teorica è rapida, la prassi non è da meno e le rimane alle calcagna. Accade adesso la cosa forse più straordinaria per chi conosce l’universo carcerario: i cancelli degli istituti si aprono all’uso consentito dello smartphone. Uno degli oggetti maggiormente demonizzati dal sistema penitenziario viene addirittura acquistato dall’istituzione per la popolazione detenuta.

In una circolare datata 21 marzo, il capo dell’Amministrazione penitenziaria chiede a direttori e comandanti di spiegare alle persone detenute le misure adottate, sottolineando l’impegno dell’Amministrazione stessa per alleviare il disagio attraverso, tra le altre cose, “l’acquisizione di oltre 1.600 telefoni mobili ed il prossimo acquisto di ulteriori 1.600 cellulari”, come ribadito pochi giorni dopo dal Ministro della Giustizia al Parlamento. Ciò “incrementerà considerevolmente i colloqui a distanza che saranno possibili, oltre che con l’utilizzo di Skype, anche con le videochiamate da effettuarsi tramite le utenze mobili”. Si specifica che i video-colloqui saranno possibili “senza alcuna spesa per tutti i detenuti anche se appartenenti al circuito di alta sicurezza”. I cellulari potranno inoltre venire utilizzati dai detenuti per telefonare verso utenze mobili.
Durante la prima ondata di Covid-19 l’Osservatorio di Antigone, impossibilitato a effettuare le visite, ha raccolto e sistematizzato le segnalazioni sulle carceri di tutto il territorio nazionale che provenivano dalla propria rete di contatti locali o da operatori e parenti che si rivolgevano all’associazione. Si è potuto così verificare come in pochi giorni tanti e tanti istituti avessero raggiunto quel traguardo organizzativo per il quale in passato non erano bastati degli anni. Pochi giorni dopo l’inizio del lockdown, si effettuano videochiamate in tanti istituti da nord a sud. Sono 58 le segnalazioni su altrettanti istituti che in quei giorni raggiungono l’Osservatorio di Antigone con notizie sull’attivazione delle videocomunicazioni. Moltissime altre sono immaginabili senza che ne abbiamo avuto diretta informazione.
Nel carcere di Mantova si utilizza Skype, così come in quelli di Rimini, Livorno, Porto Azzurro, Rossano, Lecce; a Genova Marassi e a Lucera si aggiunge anche Whatsapp, a Biella arrivano 13 dispositivi per le videochiamate, a Brindisi si moltiplicano le postazioni, a Taranto, a Pozzuoli, a Catanzaro si usa Skype for business, a Padova sono disponibili 7 smartphone, a Chiavari si cerca di attrezzare la biblioteca per avere più postazioni di videochiamate. Volterra, Rovigo, Massa, Ascoli Piceno, Catania, Palermo, Tempio Pausania, Oristano e tanti altri ancora: le carceri sono finalmente attraversate da un’onda digitale che le avvicina al mondo esterno.

Uno scenario che mai si sarebbe potuto prevedere, viste le premesse, e che, se da un lato sorprende positivamente, dall’altro lascia l’amarezza dell’immaginare quanto si sarebbe potuto fare e non si è fatto se non sotto la pressione del dramma sanitario.

Uno scenario che mai si sarebbe potuto prevedere, viste le premesse, e che, se da un lato sorprende positivamente, dall’altro lascia l’amarezza dell’immaginare quanto si sarebbe potuto fare e non si è fatto se non sotto la pressione del dramma sanitario. Nell’ottobre 2020 un decreto legge prevedeva il nuovo reato di introduzione o detenzione del cellulare in carcere. Nessuno ne avrebbe sentito il bisogno se le telefonate penitenziarie e le relazioni con i propri cari fossero state maggiormente liberalizzate. Rimane la consapevolezza della facilità con la quale ogni avanzamento compiuto nel periodo che stiamo vivendo possa perdersi appena l’agognato ritorno alla normalità lo permetta. E rimane dunque l’attenzione che ogni attore coinvolto – la politica, l’amministrazione, la società civile – è chiamato a prestare affinché non si torni indietro neanche di un passo. Anzi, si faccia ancora tanta strada in avanti.