“Uno dei processi per imputazioni di tortura più grandi e importanti della storia della nostra Repubblica”. Potrebbe essere questa una sintesi semplificatoria del dibattimento in corso in questi mesi davanti alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere.
“Uno dei processi per imputazioni di tortura più grandi e importanti della storia della nostra Repubblica”. Potrebbe essere questa una sintesi semplificatoria del dibattimento in corso in questi mesi davanti alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere. Sul banco degli imputati ci sono dirigenti dell’amministrazione penitenziaria e agenti che nell’aprile 2020 pianificarono e misero in atto condotte ferocemente violente ai danni di detenuti che avevano protestato nel carcere campano.
Non è la prima volta che la piccola città in provincia di Caserta è sede di procedimenti di grande importanza per la vita giudiziaria del paese: si pensi al processo Spartacus contro il clan dei Casalesi, svoltosi tra il 1998 e il 2005, che ha rappresentato un unicum in Italia sia per numero di imputati che per durata del dibattimento. Una situazione in un certo senso paragonabile a quella sembra riproporsi per le vicende di cui trattiamo: il pool dei pubblici ministeri (formato dal procuratore aggiunto Alessandro Milita e dai sostituti procuratori Alessandra Pinto e Daniela Pannone) ha infatti esercitato, ad oggi, l’azione penale per 107 imputati, tra cui i vertici della catena di comando che il 6 aprile del 2020 ideò, organizzò e autorizzò lo svolgimento della perquisizione generale, definita poi “straordinaria”, all’interno del carcere “F. Uccella”. Tra gli imputati ci sono importanti figure istituzionali e vertici di polizia, come l’allora provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, il commissario coordinatore della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere e il comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti del centro penitenziario di Secondigliano (nel frattempo indicato, dallo stesso provveditore, come comandante del gruppo di supporto agli interventi, creato ad hoc il 9 marzo 2020).
Coinvolti in quella che il g.i.p. che dispose le misure cautelari ha definito una “mattanza” sono però anche numerosi agenti di stanza in altre carceri campane (come ad Avellino e Secondigliano, e molti ancora da identificare), inseriti in quel “gruppo di supporto” che il 6 aprile fu inviato nel carcere casertano per “ripristinare l’ordine”, a qualsiasi costo.
I fatti
Le ricostruzioni dei fatti allo stato disponibili, in realtà, mostrano la pianificazione e l’attuazione di una vera e propria rappresaglia ai danni dei detenuti che avevano protestato (con pestaggi e umiliazioni che diventarono poi indiscriminati, anche su chi non aveva partecipato alle rimostranze): un’esplosione brutale e incontrollata di violenza su uomini inermi che avevano manifestato inquietudini e paure, che ognuno di noi ha conosciuto in quei giorni, e perplessità rispetto alla discutibile gestione della pandemia all’interno del carcere, della quale avevano peraltro pochissime informazioni.
Quelle feroci violenze sono state rese note con grande clamore a livello internazionale dalla diffusione delle immagini del circuito di video sorveglianza, e – si è scoperto, poi – furono seguite da una lunga sequela di calunnie, tentativi di falsi ideologici, applicazione immotivata di sanzioni disciplinari nei confronti dei detenuti, redazione di atti postumi e depistanti, come la refertazione di lesioni inesistenti agli agenti penitenziari.
Quelle feroci violenze sono state rese note con grande clamore a livello internazionale dalla diffusione delle immagini del circuito di video sorveglianza, e – si è scoperto, poi – furono seguite da una lunga sequela di calunnie, tentativi di falsi ideologici, applicazione immotivata di sanzioni disciplinari nei confronti dei detenuti, redazione di atti postumi e depistanti, come la refertazione di lesioni inesistenti agli agenti penitenziari.
I capi di imputazione sono, per tutti, gravissimi.
Da un punto di vista processuale è apparso evidente, fin dalla prima data dell’udienza preliminare (celebrata il 15 dicembre 2021) che – nonostante l’enorme lavoro investigativo – non sarebbe stato facile arrivare al cuore della vicenda e all’accertamento dei fatti. Già da quando una parte delle persone offese ha deciso di costituirsi parte civile sono cominciate le prime “schermaglie” con i difensori degli imputati che si sono opposti, con particolare veemenza, a queste costituzioni, così come a quelle delle associazioni e degli enti che hanno richiesto di prendere parte al processo. Un elemento, questo, che non deve essere trascurato, dal momento che sugli equilibri del dibattimento influisce ed influirà inevitabilmente il livello di attenzione mediatica che associazioni come Antigone e tutte le altre sensibili a queste questioni riusciranno a mantenere intorno agli avvenimenti di quei giorni. Come troppo spesso accade, infatti, con il passare dei mesi, il clamore suscitato dalla gravità degli avvenimenti, le considerazioni politiche (e non) che ne sarebbero potute (e dovute) derivare, nonché l’attenzione generale sul processo, si sono lentamente affievolite, sciogliendosi nello sterile racconto della cronaca giudiziaria. Il piano della riflessione e del dibattito pubblico si è via via appiattito sul livello del tecnicismo giuridico, lasciando da parte ogni considerazione politica che – prescindendo dalle singole condotte materiali – avrebbe dovuto porre le basi per una seria messa in discussione, per esempio, della gestione del mondo penitenziario durante pandemia, della capacità del sistema di reggere gli equilibri ordinari e straordinari, delle condizioni critiche in termini di strutture, sovraffollamento, gestione sanitaria, e del fallimento di un circuito penale e carcerario diventato contenitore del disagio, della marginalità sociale, della sofferenza.
Il piano processuale, in sostanza, può essere e, anzi, deve essere utilizzato per aprire e stimolare riflessioni più ampie.
Nello specifico, la complessa documentazione investigativa, le ore di registrazioni del circuito di videosorveglianza, le intercettazioni telefoniche, il contenuto delle denunce e dei successivi riconoscimenti fatti dai detenuti, non potevano che spingere il g.u.p.verso l’inizio di un dibattimento che consentisse di stabilire, con chiarezza, quanto accaduto e attribuire le relative responsabilità. Dopo il prevedibile rinvio a giudizio per gli imputati che non hanno scelto la strada di un rito premiale alternativo, le difese degli imputati si sono misurate, ciascuna con una diversa strategia, nel tentativo di indebolire l’impianto accusatorio.
Il processo
Il processo si è aperto il 7 novembre 2022 con la prospettazione di una lunga serie di questioni di legittimità costituzionale relative, tra l’altro, alla nullità della richiesta di rinvio a giudizio – e il conseguente decreto del g.u.p. – per mancato deposito, imputabile alla procura, di alcuni atti delle indagini. L’eventuale rilevanza della questione avrebbe potuto comportare una paralisi del dibattimento e, se accolta dalla Consulta, la regressione del procedimento alla fase precedente, con la possibile ma concreta conseguenza, tra l’altro, di prescrizione di alcuni dei reati contestati. I pubblici ministeri hanno però prodotto, in due diverse udienze, le prove del deposito integrale della documentazione investigativa, compresa quella audiovisiva, e la Corte ha ritenuto che non vi fosse alcuna rilevanza della questione sollevata.
I problemi, però, sono continuati: nel dichiarato intento di non ‘politicizzare’ il processo, è stata richiesta l’esclusione di alcuni testimoni – principalmente indicati nelle liste delle associazioni costituitesi parte civile – accolta dalla Corte d’Assise: non sono stati ritenuti rilevanti, tra gli altri pure esclusi, gli ex ministri della Giustizia, Alfonso Bonafede e Marta Cartabia, il presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi, il sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi, così come gli ex capi del D.a.p. Bernardo Petralia e Carlo Renoldi, subentrati nel ruolo dopo gli avvenimenti di cui a processo.
Per esempio, c’è stata opposizione alla trasmissione integrale di Radio Radicale delle udienze di escussione dei testimoni, sulla considerazione che l’assunzione della prova avrebbe potuto essere influenzata – per chi dovrà essere esaminato come teste – da quanto già dichiarato dalla polizia giudiziaria che ha svolto le indagini.
L’istruttoria è così faticosamente iniziata l’8 marzo 2023, non senza alcune obiezioni sollevate dai difensori. Per esempio, c’è stata opposizione alla trasmissione integrale di Radio Radicale delle udienze di escussione dei testimoni, sulla considerazione che l’assunzione della prova avrebbe potuto essere influenzata – per chi dovrà essere esaminato come teste – da quanto già dichiarato dalla polizia giudiziaria che ha svolto le indagini. La trasmissione, pertanto, avrebbe dovuto, secondo quest’impostazione, essere possibile solo al termine del dibattimento (la Corte ha ritenuto infondata questa obiezione e ha autorizzato Radio Radicale alla pubblicazione integrale ed immediata delle dirette delle attività di udienza). Da un punto di vista organizzativo, invece, in considerazione della complessità e probabilmente della delicatezza della vicenda, la Corte d’Assise ha pronunciato un’ordinanza nella quale ha ritenuto (facendo riferimento anche alla recente riforma operata con la legge delega 134 del 2021, attuata con il d.lgs. n. 150 del 2022) che una sola udienza a settimana potrebbe non essere sufficiente a garantire una celere e concentrata celebrazione del dibattimento, tantopiù alla luce del fatto che la sola lista testimoniale depositata dalla procura elenca circa duecentocinquanta testi.
Come si è evidenziato, tuttavia, il piano processuale si è andato spesso intersecando con quello politico; sarebbe pertanto una grave leggerezza, come pure sta accadendo, tenere separati i due livelli, sganciando quello delle responsabilità individuali dalla gestione complessiva, quotidiana e sistemica dell’istituzione penitenziaria. È importante sottolineare, per esempio, che il 25 marzo scorso si è diffusa la notizia della presentazione alla Camera dei deputati di una proposta di legge per l’abrogazione del reato di tortura, introdotto, dopo lunghi anni di discussioni e un tortuoso iter parlamentare, nel 2017. È evidente come il processo di Santa Maria Capua Vetere rischierebbe di venir pesantemente condizionato se la proposta dovesse trovare seguito legislativo, sebbene ad oggi, per fortuna, la bagarre parlamentare sembra essersi spostata su questioni più elettoralmente appetibili.
Altra questione significativa riguarda la scelta di due, tra gli imputati, di procedere nelle forme del giudizio abbreviato, seppure le loro posizioni non siano meno gravi: si tratta, infatti, di imputazioni per reati di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, lesioni e tortura, e per aver – nel corso della ormai nota “perquisizione straordinaria”, personale, arbitraria e illegittima – sottoposto le persone recluse a misure di rigore non consentite dalla legge, tra il 6 aprile 2020 e i giorni successivi. Gli agenti, in particolar modo, sono accusati di aver, in concorso con altri, percosso, pestato e provocato lesioni ai detenuti con colpi di manganello, calci, schiaffi, pugni e ginocchiate; di averli costretti a inginocchiamento e prostrazione o a restare in piedi per un tempo prolungato con la faccia rivolta verso il muro, o ancora inginocchiati, imponendo condotte umilianti, come la rasatura forzata di barba e capelli.
All’udienza dello scorso 14 febbraio, il pubblico ministero ha fatto le sue richieste di condanna: sei anni di reclusione per un agente e tre anni e otto mesi per l’altro. In ogni caso, su quanto accaduto fuori e dentro i reparti del carcere di Santa Maria c’è ancora necessità di fare luce. A ottobre scorso la procura ha chiesto, e ottenuto, la proroga del termine per indagare su altri (oltre cinquanta) agenti che, inizialmente, a causa del fatto che indossassero caschi, e perché non c’erano ulteriori elementi utili in tal senso, non erano stati individuati.
A tal proposito, vale la pena riflettere sulle modalità con le quali sono state svolte le indagini.
Non può nascondersi, infatti, che per l’efficacia dell’attività investigativa sia stata decisiva la scelta della procura di delegarne lo svolgimento a un corpo di polizia diverso da quella penitenziaria.
Sul punto, non essendo prevista alcuna deroga in tema di competenza per territorio, sulla falsariga di quella dell’art. 11 c.p.p. per i magistrati, è possibile che si instauri un procedimento presso l’ufficio giudiziario in cui gli indagati svolgano la loro attività di polizia; allo stesso modo è pure possibile, in mancanza di norme organizzative interne che precludano quest’opzione al pubblico ministero, che questi scelga di attribuire la conduzione delle indagini allo stesso corpo di polizia cui appartiene il soggetto sottoposto alle indagini. Non sarebbe, viene da chiedersi, quest’occasione propizia per introdurre, come già proposto da tempo anche da parte della dottrina, una disposizione che possa disciplinare queste ipotesi?
D’altronde, proprio in questo processo sono numerose le imputazioni che fanno riferimento a false informative di reato redatte, proprio dagli agenti della polizia penitenziaria, per “giustificare” il trasferimento dei “rivoltosi” del reparto Nilo in regime di isolamento al reparto Danubio, dove uno di loro – Hakimi Lamine –, morirà il 4 maggio 2020.
Eccoci di nuovo sul campo dell’intersezione tra piani: questa e altre questioni che il procedimento di Santa Maria Capua Vetere sembra aver svelato non possono trovare risposta e approfondimento nella sede giudiziaria, che non ha questo compito; devono piuttosto interrogarci seriamente sulle azioni che concretamente è necessario portare avanti, su altri livelli.
Quella, ormai trascurata, per esempio, dei numeri identificativi sulle divise del personale di polizia.
In questo scenario così complesso il processo continuerà nei prossimi mesi, e lo farà nell’aula bunker del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, all’interno dell’enorme struttura in cui si trova il carcere dove sono avvenuti i fatti, e dove, nel frattempo, permane il regime cosiddetto “a celle chiuse” per tutti i reparti, ad eccezione del Volturno (dove sono ristretti i detenuti a trattamento avanzato).
Quanto ai luoghi in cui sono avvenute le vicende oggetto del processo, il Danubio, dove furono spostati i detenuti che “avevano protestato” e che, per questo, dovevano essere puniti – reparto che ospitava la sezione ex art. 32 e le celle di isolamento – è stato di recente ristrutturato.
Non potrà bastare una ritinteggiata per cancellare quanto successo, né servirà a far dimenticare, soprattutto a chi le ha subite, le feroci violenze di quel giorno.
Tocca, allora, a tutti gli altri, lavorare collettivamente sul processo per preservare la memoria di quanto accaduto.