Erano 2.480 alla fine del mese di aprile le donne detenute nelle carceri italiane, pari al 4,4% della popolazione carceraria complessiva. Una percentuale sostanzialmente stabile nel tempo, che non raggiunge i cinque punti dagli inizi degli anni ‘90 del secolo scorso.
Il tasso di detenzione femminile è di poco superiore a 4, vale a dire che poco più di 4 donne ogni 100.000 donne libere si trovano in carcere. Il tasso di detenzione maschile è circa 25 volte superiore.
I bassi numeri della detenzione femminile – che ci interrogano su un fenomeno articolato e complesso, per il quale nella storia del pensiero non si è avuta ancora una risposta soddisfacente – non rappresentano un’anomalia italiana. A livello mondiale, la media delle donne detenute nei vari paesi è pari al 6,9% della popolazione carceraria globale, una percentuale leggermente più elevata di quella italiana ma che indica comunque una netta minoranza.
Se andiamo tuttavia a guardare la percentuale delle denunce che in Italia raggiungono donne, vediamo che essa si attesta sul 18,3% del totale delle denunce. Le donne denunciate sono dunque meno di un quinto delle denunce totali, ma lo scarto tra denunce e presenze in carcere è notevole. Possiamo ipotizzare che tale scarto sia il frutto di vari fattori: lo scarso spessore criminale delle donne che fa sì che una quota di denunce non veda un seguito penale, le condanne tendenzialmente più brevi ricevute dalle donne, le norme specifiche sulle alternative al carcere per le detenute madri, il maggior tasso di fiducia di cui le donne godono presso la magistratura di sorveglianza che determina anch’esso un accesso maggiore all’area penale esterna.
Un dato che si lega a tali considerazioni è il seguente: se consideriamo l’area complessiva del controllo penale, vale a dire l’area della detenzione unita a quella del controllo penale esterno, vediamo come all’inizio dell’anno le donne in area penale esterna fossero oltre sei volte di più rispetto a quelle in carcere, mentre gli uomini sottoposti a controllo penale fuori dal carcere fossero solo il doppio degli uomini detenuti.
Le donne detenute sono ospitate in parte nelle quattro carceri femminili presenti in Italia, che si trovano a Roma – dove il carcere femminile di Rebibbia, con le sue 337 detenute per 275 posti letto ufficiali, si impone come il più grande d’Europa – a Venezia, a Pozzuoli e a Trani. In realtà in queste strutture vivono attualmente solo 612 donne, meno di un quarto della popolazione detenuta femminile totale. Gli Istituti a custodia attenuata per madri di Lauro, Milano e Torino ospitano 15 donne complessivamente. Le restanti 1.853, pari ai tre quarti del totale, vivono nelle 45 sezioni femminili attive in questo momento all’interno di carceri a prevalenza maschile. Le grandezze delle sezioni sono variabili. Un paio, a Torino e a Milano Bollate, ospitano più di cento detenute. Qualcun’altra – a Bologna, a Genova Pontedecimo, a Milano San Vittore, a Vigevano, a Lecce, a Palermo Pagliarelli – supera le 70 unità. In molte presentano numeri inferiori, fino ad arrivare alle 19 donne di Sassari su un totale di 435 detenuti, alle 13 donne di Reggio Emilia su un totale di 354 detenuti, alle 12 donne de L’Aquila su un totale di 168 detenuti, fino alle 4 donne di Mantova o alle 3 di Barcellona Pozzo di Gotto. Numeri che rendono difficile convogliare verso la parte femminile dell’istituto energie e risorse – economiche, di personale, di volontariato – per organizzare attività capaci di riempire di senso il tempo della detenzione. Capita dunque che queste donne vivano in uno stato di sostanziale abbandono, non vedendosi destinata l’attenzione specifica che necessiterebbero.
La risposta tuttavia non può essere quella di chiudere queste sezioni, rischiando di allontanare le donne detenute dai propri riferimenti sociali sul territorio. A ben vedere, due frasi di nuova introduzione all’art. 14 dell’Ordinamento Penitenziario sembrano contraddirsi l’uno con l’altro: la riforma dell’ottobre 2018 ha infatti esplicitato quale diritto il principio di territorialità della pena, per cui i detenuti “hanno diritto di essere assegnati a un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale”; ma ha anche previsto che le sezioni che ospitano donne ne prevedano un “numero tale da non compromettere le attività trattamentali”.
Non ci pare che le due disposizioni siano tuttavia fino in fondo compatibili. Moltiplicare le sezioni femminili in giro per l’Italia consente una maggior vicinanza delle donne detenute alle loro famiglie, ma rischia tuttavia di diminuire le presenze in ciascuna sezione. Ben più facile ed incisivo sarebbe il prevedere che le donne potessero prendere parte a quelle stesse attività diurne che vengono organizzate per gli uomini, anche in ottemperanza a uno dei principi fondamentali tanto delle Mandela Rules delle Nazioni Unite quanto delle European Prison Rules del Consiglio d’Europa che vuole la vita in carcere il più possibile somigliante alla vita esterna. Più di una volta, durante le nostre visite a carceri che ospitavano donne, ci siamo sentiti dire dalla direzione che i piccoli numeri delle sezioni femminili non permettevano l’organizzazione di classi scolastiche o di corsi di formazione professionale. Si fatica tuttavia a comprendere per quale motivo donne e uomini non possano in carcere frequentare la stessa classe di studio, e tale tabù sia così radicato da preferirgli la violazione di un diritto tanto fondamentale quanto quello all’istruzione.
Se consideriamo le capienze ufficiali degli istituti femminili, possiamo vedere come il loro tasso di affollamento, pari al 118,4%, sia superiore a quello dell’intero sistema penitenziario italiano, pari ufficialmente al 110,6%. Per quanto riguarda invece le sezioni femminili in carceri a prevalenza maschile, non avendo dati ufficiali sulla loro capienza scorporata da quella del resto dell’istituto ci basiamo sulle nostre rilevazioni dirette effettuate nel corso del 2022. Queste ci dicono che anche qui il tasso di affollamento risulta maggiore per le donne che per gli uomini. Le prime, nonostante lo scarso peso numerico che hanno sul sistema penitenziario e di conseguenza la loro scarsa responsabilità del sovraffollamento carcerario, lo subiscono più di quanto accada per gli uomini, quando al contrario non soffrano una condizione di isolamento.
Uno sguardo alle detenute straniere ci mostra come esse siano nettamente calate negli ultimi quindici anni. Se oggi costituiscono il 30,2% del totale delle donne detenute, nel 2013 coprivano circa dieci punti percentuali in più. Le nazionalità più rappresentate sono la rumena e la nigeriana. La prima, che nel 2013 contava 287 presenze, si è stabilizzata negli ultimi anni sotto le 200 unità, segno del percorso di integrazione generale compiuto dalla comunità rumena in Italia.
Le donne in carcere sono destinatarie di condanne a pene tendenzialmente inferiori rispetto a quelle degli uomini. Segno evidente del minore peso criminale della componente femminile, caratterizzata – ancor più di quella maschile, come emerge dalla conoscenza diretta degli istituti da parte dell’Osservatorio di Antigone – da una precedente condizione di esclusione sociale che il periodo di detenzione tende ad approfondire.
Le donne detenute infatti – anche a causa del maggiore stigma che la carcerazione per loro comporta – interrompono i legami con il partner o con le famiglie di origine ben più frequentemente di quanto non accada per gli uomini.
Dalla nostra diretta rilevazione nel corso del 2022, emerge come il disagio psichico sia maggiore tra le donne detenute piuttosto che tra gli uomini. Le donne con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati, il 12,4% delle presenti, contro il 9,2% della rilevazione complessiva; le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano invece il 63,8% delle presenti, contro il 41,6% complessivo. Gli atti di autolesionismo sono stati 30,8 ogni 100 presenze tra le donne, contro i 15 degli istituti esclusivamente maschili.
Il distacco dai figli e il conseguente senso di colpa costituisce sicuramente un motivo di destabilizzazione. Sono circa 4.000 i figli di donne detenute nelle carceri italiane. Di questi, 22 alla fine di aprile vivevano in carcere con la propria madre. Il numero dei bambini in carcere è andato sempre oscillando negli ultimi decenni.
Guardando a tali oscillazioni, si nota tuttavia come esse non risentano minimamente delle due date significative rispetto al percorso normativo che ha riguardato le leggi a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, ovvero il 2001, anno dell’entrata in vigore della cosiddetta Legge Finocchiaro, e il 2011, anno della cosiddetta Legge Buemi. Una evidente indicazione del fatto che non sono gli aggiustamenti normativi, i quali ovviamente devono lasciare margine di discrezionalità alla magistratura, a poter risolvere il problema. Il calo più rilevante nelle presenze dei bambini in carcere si è infatti avuto a seguito di un evento che di normativo non ha nulla, ovvero la pandemia. Percepito il pericolo di far vivere dei bambini in un luogo chiuso al momento dell’emergenza sanitaria, la magistratura di sorveglianza ha provveduto a utilizzare gli strumenti di legge esistenti per assegnare le detenute madri a percorsi esterni al carcere, cosa che si sarebbe potuta dunque effettuare anche prima dell’avvento del Covid-19.
È invece fondamentale che per via normativa si proceda allo stanziamento di fondi per la realizzazione di case famiglia protette, previste dalla legge del 2011 al fine di offrire un domicilio ritenuto adeguato a quelle detenute madri che non accedono ad alternative al carcere a causa della sua mancanza. L’assenza di copertura finanziaria per le case famiglia protette ha fatto sì che a oggi ne esistano solo due, a Milano e a Roma, per un totale di circa quindici donne ospitabili con i propri figli.