“La giustizia italiana mi ha finito. Ho perso tutto. Ho perso le mie ambizioni. Ho perso il mio futuro. Ho perso la mia innamorata. Amico mio non voglio perdere anche me stesso in prigione. Sono una persona piena di dolore, piena di amore, piena di sofferenza e piena di avventure. E questa è l’avventura più lunga e più difficile della mia vita.”
– M., cittadino libico condannato a 30 anni di detenzione
La detenzione in carcere è, per definizione, una pena. Le persone che devono affrontarla sono viste in primo luogo come soggetti da punire: sono condannate a una sofferenza che non scaturisce solo dalla privazione della libertà, ma anche dalle condizioni carcerarie stesse. Tuttavia la sofferenza causata dalla pena inflitta non è uguale per tuttə: varia, ad esempio, a seconda del contesto sociale e geografico di provenienza della persona detenuta, delle sue inclinazioni personali, del suo stato di salute, della sua storia, e della dimensione politica e culturale del reato commesso. Inoltre, le tutele e le garanzie disponibili spesso non sono ideate per le persone che subiscono dalla nostra società diverse forme di discriminazione. Le persone condannate in quanto ‘scafisti’ si trovano all’intersezione di plurime forme di discriminazione e oppressione, e perciò costrette a subire una condizione detentiva particolarmente afflittiva. L’incarcerazione delle persone destinatarie di questa accusa, posta in essere in modo sistematico e in queste condizioni, costituisce un’ulteriore forma di oppressione.
Dopo il naufragio di Cutro si sono ancora una volta accesi i riflettori sugli effetti mortiferi delle frontiere italiane. Immediatamente si è cercato un colpevole che non fosse l’Italia e le sue politiche.
Il carcere, poi, non è il primo ostacolo deterrente e punitivo affrontato dalle persone arrestate come scafisti. Arriva infatti alla fine di un viaggio lungo e pericoloso, che raggiunge il culmine nel mortale attraversamento del Mediterraneo. Dopo il naufragio di Cutro si sono ancora una volta accesi i riflettori sugli effetti mortiferi delle frontiere italiane. Immediatamente, come dopo ogni grande naufragio spettacolarizzato nella storia recente, si è cercato un colpevole che non fosse l’Italia e le sue politiche. Dopo aver individuato coloro che presumibilmente avevano condotto l’imbarcazione, i c.d. scafisti, il problema sembrava risolto. Per suggellare una condanna quasi certa ed esorbitante, il Governo ha emanato il c.d. Decreto Cutro, che oltre a togliere forme di protezione offerte dall’Italia ai cittadini stranieri e a disporre un potenziamento dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) ha anche inasprito le pene previste per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12 TUI), fattispecie contestata ai c.d. scafisti, e introdotto una nuova fattispecie incriminatrice (Art 12-bis TUI) che dispone una detenzione da venti a trent’anni nel caso in cui siano morte delle persone durante l’attraversamento della frontiera.
Chi osserva attentamente sa che questo accanimento politico contro la figura del cosiddetto scafista non è nuovo, ma un fermo immagine di un processo che va avanti da quasi trent’anni, da quando negli anni ‘90 le imbarcazioni che arrivavano in Italia provenivano dall’Albania e dalla Turchia. Sa anche che questo fenomeno coinvolge migliaia di persone, e non solo quelle che vengono direttamente demonizzate dalla maggior parte della stampa nazionale. Chi osserva l’arresto sistematico dei c.d. scafisti sa anche che, nella pratica, quest’ultimo intervento normativo avrà un minor impatto di quello che viene pubblicizzato dal Governo, semplicemente perché nelle carceri italiane ci sono già persone sopravvissute ai naufragi e poi condannate a pene di 30 anni. Ci possiamo però aspettare che in questo clima politico le pene comunque in media aumenteranno, oltre al fatto che le persone accusate di art. 12 e art. 12bis saranno costrette a espiare l’intera pena in carcere, senza possibilità di accedere alle misure alternative al carcere, in attuazione dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, di cui parleremo nei prossimi paragrafi.
Chi sono i cosiddetti scafisti?
Per riconoscere il carico demonizzante che la parola ‘scafista’ comporta, scegliamo di riferirci alle persone criminalizzate come i ‘capitani’ delle barche. Anche riconoscendo che ci sono tante persone accusate che dichiarano di non aver mai preso in mano un timone nella loro vita, ci sembra importante utilizzare una parola più neutrale, e comunque una parola più frequentemente utilizzata dai detenuti stessi per descrivere il ruolo criminalizzato.
Quanto segue è tratto dalle attività e dalla ricerca del nostro gruppo di lavoro, ‘Dal mare al carcere’, un progetto militante nato da esperienze antirazziste, che tramite attività di ricerca e supporto socio-legale dall’esterno si è avvicinata alle realtà e alle questioni legate al carcere, cercando di amplificare le storie e le prospettive di alcune tra le persone più colpite dalle politiche razziste e carcerarie dello Stato italiano.
Dal 2013 alla fine del 2022 sono state fermate in seguito agli sbarchi almeno 2.870 persone identificate come c.d. scafisti o come “equipaggio”
Grazie ad un monitoraggio degli arresti degli ultimi 10 anni effettuato insieme all’Ong borderline-europe, abbiamo rilevato che dal 2013 alla fine del 2022 sono state fermate in seguito agli sbarchi almeno 2.870 persone identificate come c.d. scafisti o come “equipaggio”, persone che vengono da una vasta gamma di paesi: dall’Africa settentrionale, occidentale e orientale, dal medio-oriente, dall’Europa dell’est e dal subcontinente indiano. Un’inchiesta della rivista Altreconomia a cui abbiamo collaborato, pubblicata a maggio 2023, mostra che al 23 marzo 2023 in Italia erano detenute 1.124 persone per questo reato, quasi tutte straniere (1.012 persone). Emerge inoltre un’incidenza fortissima dell’utilizzo della custodia cautelare in carcere: la percentuale di persone detenute in attesa di primo giudizio è del 30%, una percentuale di gran lunga superiore rispetto alla media che si riscontra per altri detenuti stranieri in attesa di primo giudizio imputati per altri reati (17%).
La ricerca condotta da noi finora, presentata nel 2021 con il report “Dal Mare al Carcere” e da allora aggiornata a cadenza trimestrale, esamina nel dettaglio ogni fase del processo di criminalizzazione: dal viaggio all’arresto, dalla detenzione in carcere alla detenzione amministrativa in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), a cui sistematicamente si viene sottoposti al momento della scarcerazione, fino a soffermarsi sulla vita dopo la detenzione, sulle difficoltà nella regolarizzazione e quelle poste dagli ulteriori ostacoli economici, di salute e di opportunità che tutte le persone detenute, ma quelle straniere in particolar modo, affrontano dopo il carcere.
Le persone che conducono le imbarcazioni in Europa si trovano a farlo per una varietà di ragioni. Alcune sono obbligate con la violenza e con l’inganno, altre agiscono per senso di solidarietà, altre per non dover pagare il viaggio, e altre ancora per averne un guadagno economico. Hanno età, livelli di istruzione, classi sociali, genere, provenienze geografiche, motivazioni e storie di vita diverse. Molte delle persone con cui abbiamo parlato dichiarano di non aver guidato l’imbarcazione, quindi di non aver commesso il reato. D’altronde i processi si svolgono spesso in maniera sommaria, basati quasi esclusivamente sulle dichiarazioni rese da pochissimi testimoni che spesso si rendono irreperibili dopo l’inizio del processo.
Lo scafismo è un reato politico. Ciò che accomuna i capitani è che si trovano in carcere con l’accusa di aver aiutato sé stesse ed altre ad attraversare la frontiera italiana. Una più complessiva e profonda valutazione politica del fenomeno migratorio, infatti, porterebbe a riconoscere che la morte e la violenza che avviene alla frontiera italiana sono il prodotto diretto delle politiche, italiane ed europee, di chiusura e di controllo delle frontiere, di cui anche la minaccia e la punizione carceraria è parte integrante. Non esistendo una via legale e sicura di ingresso per le persone che hanno necessità di muoversi, non esiste altra scelta se non quella di affidarsi a servizi di “smuggling” di vario stampo e natura. Questi servizi rispondono ad una necessità irremovibile, creata e perpetuata dalle politiche italiane ed europee.
Le conseguenze di queste accuse e della detenzione carceraria che quasi sempre ne consegue sono enormi, e ledono la vita di migliaia di persone. Nei prossimi paragrafi esamineremo in maniera più approfondita gli aspetti della condizione detentiva dei capitani, iniziando con qualche osservazione sulle conseguenze pratiche dell’intersezionalità di oppressioni vissute dai detenuti stranieri appena approdati in Italia, per poi approfondire le conseguenze del regime di cui all’art. 4 bis o.p. e della detenzione amministrativa che solitamente colpisce ulteriormente le persone condannate per art 12 TUI.
Le condizioni detentive dei capitani. Un approccio intersezionale.
Abbiamo già accennato al fatto che i cosiddetti scafisti si trovano all’intersezione di forme di discriminazione. Riscontriamo che molti dei diritti fondamentali formalmente riconosciuti alle persone detenute e sottoposte ad un procedimento penale – quali ad esempio il diritto di difesa, il diritto di essere informato in una lingua comprensibile della natura e dei motivi delle accuse a proprio carico e del contenuto delle udienze, il diritto alla salute e all’integrità fisica, e il diritto di asilo – sono sistematicamente violati per quelle persone che si trovano in un’intersezione di caratteristiche discriminanti. Le storie dei capitani ne sono un’importante dimostrazione, in quanto incarnano un’intersezione di caratteristiche che amplifica le sofferenze spesso vissute in detenzione.
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- Mancanza di una rete sul territorio
Innanzitutto, come premesso nei paragrafi precedenti, quasi la totalità delle persone identificate come capitani vengono immediatamente sottoposte alla custodia cautelare in carcere, e sono quindi detenute anche in assenza di una condanna definitiva. Questo viene giustificato dal fatto che i capitani al momento del loro arresto sono considerati ad alto rischio di fuga, perché privi di legami sociali e risorse materiali sul territorio. La mancanza di una rete o di una comunità in Italia ha un ulteriore impatto sulle persone detenute, che non ricevono supporto dai loro cari e non sono noti a comunità e reti di supporto sociale all’esterno. Generalmente, non conoscendo nessun avvocato di fiducia da poter nominare, viene assegnato loro un avvocato d’ufficio, che non sempre ha le risorse o le competenze per seguire questo genere di casi. Il risultato è che, regolarmente, a prescindere dall’affidabilità delle prove o dallo stato dei fatti, spesso i legali optano per il rito abbreviato o il patteggiamento, rimedi che, pur ottenendo uno sconto di pena, comportano una rinuncia a una difesa piena ed effettiva. La mancanza di una rete sociale di supporto ha anche fatto sì che i processi per anni si svolgessero senza osservazione esterna. - Problemi linguistici
A questo vanno aggiunti poi i problemi linguistici. Non avendo avuto l’opportunità di imparare l’italiano prima dell’ingresso in carcere, le persone si trovano catapultate nel sistema carcerario, a volte senza nemmeno aver compreso le ragioni del loro arresto, e senza la possibilità di comprendere il sistema o esprimere le proprie necessità e i propri bisogni. Questo è dovuto ad una carenza endemica di mediazione culturale, nelle carceri e nei tribunali. Non sempre mediatori culturali o interpreti sono assunti dalle strutture carcerarie, e, quando lo sono, i numeri esigui fanno sì che le loro competenze linguistiche non possano colmare i bisogni di una popolazione diversa e multilingue. A volte il terzo settore prova a sopperire a questa carenza, senza però poter aspirare a risolvere un problema strutturale. In tribunale, i servizi di interpretariato sono pagati male ed in ritardo, senza una copertura delle spese di trasporto. Spesso le udienze sono rinviate per assenza di interprete, causando una protrazione dei tempi del processo e, quindi, della condizione di limbo in cui l’imputato si viene a trovare. Questo è emerso in maniera particolarmente drammatica in Calabria, regione in cui gli interpreti disponibili sono pochissimi, per cui anche agli avvocati risulta estremamente difficile, a volte impossibile, interagire con i propri assistiti. - Isolamento
La difficoltà di comunicare isola ulteriormente la persona già detenuta, rendendogli difficile far valere i propri diritti o denunciare eventuali abusi o disagi che possono risultare dalla sua condizione. Ci sono casi, per esempio, di persone che per mesi, o addirittura per tutta la durata della loro detenzione, non sono riuscite a chiamare a casa per comunicare il loro arresto. Non ricevendo più notizie dopo essere partiti per attraversare il Mediterraneo, molte famiglie nei paesi di origine si sono trovate a dover ricercare figli dispersi, e spesso a temere che fossero morti in mare. Spesso queste persone non sono informate del loro diritto alla chiamata, né delle procedure per richiederla, complicate dal fatto che la chiamata deve passare per la mediazione dell’ambasciata.
A questa barriera si aggiunge l’uso improprio dell’isolamento penitenziario. T., che sta scontando una pena di 30 anni, è stato messo in isolamento nel carcere siciliano in cui era appena stato trasferito. La ragione, comunicata all’avvocato in seguito a più solleciti e al coinvolgimento del Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti, era la protezione della sua incolumità personale: T. era stato brutalmente picchiato da un gruppo di altri detenuti, e gli agenti di polizia avevano scelto di non intervenire sul momento per non aumentare il disordine e mettersi a rischio. La soluzione avrebbe dovuto essere transitoria in vista di un trasferimento immediato in un altro carcere: è durata quasi due mesi. - Mancanza di tutela sanitaria
Altre storie che emergono dal contatto con i capitani e i loro avvocati dimostrano anche le gravissime carenze dell’assistenza sanitaria penitenziaria. Questo emerge in maniera particolarmente allarmante in Calabria, dove queste mancanze generano morte e sofferenza estrema. Il sig. Oleksandr Krasiukov è deceduto, all’età di 43 anni, nel carcere di Catanzaro il 17 febbraio 2023 in seguito ad un’emergenza medica che non ha ricevuto la dovuta attenzione. Di nazionalità ucraina, il sig. Krasiukov era stato arrestato al momento del suo arrivo in Italia per aver condotto un’imbarcazione con a bordo migranti. Le preoccupanti condizioni sanitarie del carcere erano state documentate e rese pubbliche solamente una settimana prima dall’osservatorio Antigone.
Inoltre, non avendo le risorse per procurare un’adeguata assistenza medica, diverse istituzioni carcerarie fanno regolarmente ricorso ad un uso improprio dell’isolamento, spesso disposto per “motivi sanitari”. È il caso di un detenuto sieropositivo, M., che al momento della sua diagnosi è stato messo in isolamento, situazione in cui si trova tuttora dopo 5 mesi. In questo tempo, non ricevendo informazioni utili per elaborare la sua condizione, trovandosi in isolamento prolungato, il sig. M. è caduto in una depressione profonda e commette regolari e gravi atti di autolesionismo che mettono a rischio la sua vita. Ma l’isolamento sanitario viene usato anche per casi di malattie facilmente curabili. Un avvocato in Calabria ci ha riferito che quando ha fatto visita al suo assistito era stato in isolamento sanitario per 8 mesi perché affetto da scabbia, un problema che avrebbe potuto essere facilmente curato in circa due settimane con l’uso dell’adeguata crema.
- Mancanza di una rete sul territorio
Le condizioni carcerarie in generale, la mancanza di speranze per il futuro per persone arrestate spesso appena maggiorenni che scontano pene fino a 30 anni, il senso di ingiustizia per aver subito una condanna per aver provato ad attraversare la frontiera, la lontananza dai cari in un carcere di un paese straniero, contribuiscono alle frequenti depressioni, a tentativi di autolesionismo e anche, orribilmente, a tentativi di suicidio.
Gli effetti del regime ostativo di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario
Un altro elemento che rende la detenzione in carcere particolarmente gravosa per persone condannate per il reato di cui all’art. 12 TUI è rappresentato dal fatto che esso è annoverato nell’elenco dei reati previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, disposizione che comprime notevolmente i diritti dei detenuti, o meglio di una particolare categoria di detenuti.
L’art. 4 bis prevede il divieto della concessione di misure alternative al carcere e altri benefici per gli autori di determinati delitti (i cosiddetti reati ostativi), salvo la sussistenza di alcune circostanze che attestino una collaborazione con la giustizia
L’art. 4 bis prevede il divieto della concessione di misure alternative al carcere e altri benefici per gli autori di determinati delitti (i cosiddetti reati ostativi), salvo la sussistenza di alcune circostanze che attestino una collaborazione con la giustizia, collaborazione che peraltro è difficilissima da dimostrare. Il risultato è che gli autori di questi reati sono considerati “socialmente pericolosi” unicamente sulla base del titolo di reato e devono espiare tutta la pena in carcere. In forza dell’art. 4 bis, quindi, ai capitani è in linea generale preclusa la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione.
Questa preclusione è diventata ancor più netta in seguito all’emanazione del decreto Cutro che ha inserito nel novero dei reati previsti dal 4 bis, oltre all’art. 12, anche l’art. 12 bis con gravi conseguenze. Infatti, se prima del decreto nel caso in cui ci fossero stati morti durante la traversata, alla persona criminalizzata veniva contestato, oltre all’art. 12 TUI, il reato di omicidio colposo plurimo, che non rientrando nel novero dei reati ostativi, consentiva, attraverso il meccanismo dello scorporo della pena, l’accesso alle misure alternative, oggi questo non è più possibile a causa della contestazione dell’onnicomprensivo reato di cui al nuovo art.12-bis, come già detto, anch’esso reato ostativo ai sensi dell’art. 4 bis o.p.
È inoltre importante evidenziare che i modi per superare l’ostatività – anche alla luce delle recenti modifiche operate dalla riforma Cartabia – purtroppo sono più apparenti che reali. Come già accennato, essa – anche prima della riforma – può essere superata dimostrando di aver tenuto un comportamento, processuale e non, collaborante. La riforma ha poi introdotto una nuova prospettiva di accesso ai benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti la cui portata dipenderà dall’interpretazione che verrà data alla norma e dalla volontà di ampliarne o restringerne l’ambito di applicazione. In particolare, per chi è stato condannato per art. 12 – al pari dei condannati per mafia e altri reati associativi – vengono richiesti elementi specifici, diversi dal comportamento tenuto in carcere, dalla partecipazione al percorso rieducativo o dalla mera dichiarazione di dissociazione, che consentano di escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Seppur in termini diversi, ancora una volta la chiave per accedere ai benefici penitenziari consiste nel dimostrare di essersi dissociati dal contesto criminale di appartenenza.
Perché questo bisogno di dissociazione? L’art. 4 bis è stato introdotto nel 1991 come strumento di contrasto alla criminalità organizzata al pari del 41 bis. Le condizioni che hanno portato all’introduzione di una simile disposizione hanno fatto sì che la maggior parte dei reati ostativi ivi previsti sono reati che presuppongono la vicinanza a organizzazioni criminali: così si spiega la logica, sebbene perversa, di offrire l’accesso a una misura alternativa solo in cambio di una riscontrata collaborazione. Tuttavia, negli anni l’art. 4 bis ha visto aumentare spropositatamente e immotivatamente il numero di reati che ne giustificano l’applicazione e nel 2002 è rientrato anche l’art. 12 TUI. È importante evidenziare che la logica sottesa alla previsione di cui al 4 bis, già non condivisibile, perde di senso se applicata alle persone condannate come scafisti ai sensi dell’art. 12: infatti, la maggior parte di loro non ha mai avuto nulla a che fare con le organizzazioni dedite allo smuggling. Lo Stato italiano chiede quindi una collaborazione o l’allegazione di specifici elementi che attestino una sua dissociazione dall’organizzazione criminale che il detenuto spesso non dà per il semplice fatto che non la può dare. E qui si torna alla connotazione politica che caratterizza il reato di cui all’art. 12, considerato inspiegabilmente, a prescindere dalla sua applicazione concreta, un reato talmente grave da giustificare una previsione che obbliga chi lo commette a espiare tutta la pena in carcere.
I CPR e le deportazioni forzate
Altri non-luoghi con cui si scontrano le persone criminalizzate per art. 12 sono i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), centri di detenzione amministrativa, dove, purtroppo, molti capitani si trovano a scontare un periodo di trattenimento successivo alla detenzione in carcere per il solo fatto di non avere ancora documenti in Italia (nonostante i lunghi periodi spesso trascorsi in carcere), oppure perché considerati, automaticamente, in quanto ex-detenuti, socialmente pericolosi.
Riteniamo importante riportare alcune storie esemplificative dell’utilizzo sistematico e seriale della detenzione amministrativa come strumento di controllo sociale e elemento strategico di una criminalizzazione senza fine.
Il trattenimento in CPR e le esigenze di rimpatrio spesso sono ritenute prioritarie rispetto al diritto di difesa e ad altri fondamentali diritti, primo tra tutti, il diritto di asilo di cui all’art. 10 della Costituzione. Ne è un esempio la storia un capitano biafrano – da noi supportato nel 2022 – richiedente asilo rimpatriato in Nigeria prima di poter essere ascoltato dal giudice che doveva valutare la domanda di asilo e, anche se non seguiti direttamente, abbiamo notizia di molti capitani tunisini a cui è toccata la stessa sorte.
Lo stigma creato dall’essere stati condannati per art. 12, come purtroppo per qualsiasi altro reato, porta al trattenimento in CPR anche a prescindere dalle positive relazioni e valutazioni rese dal personale penitenziario o della magistratura di sorveglianza
Lo stigma creato dall’essere stati condannati per art. 12, come purtroppo per qualsiasi altro reato, porta al trattenimento in CPR anche a prescindere dalle positive relazioni e valutazioni rese dal personale penitenziario o della magistratura di sorveglianza. Questo determina uno scollamento tra due sistemi di detenzione, quello del carcere e quello dei CPR, che rende i secondi, privi di regolamentazione e soggetti ad ogni tipo di discrezionalità, ancora più micidiali dei primi. È il caso di Alieu, un capitano del Gambia che nonostante avesse intrapreso un percorso di studio e formazione in carcere, nonostante avesse presentato una richiesta di asilo, nonostante un’associazione del territorio si fosse dichiarata disponibile ad ospitarlo al momento della scarcerazione, è stato tradotto dal carcere di Palermo direttamente al CPR di Bari.
Purtroppo a volte neanche una sentenza di assoluzione evita il CPR: è quello che è successo l’anno scorso a un cittadino libico, assolto per il reato di cui all’art 12, che dopo anni di integrazione in Italia si è visto arbitrariamente trattenuto in CPR in quanto ritenuto socialmente pericoloso per lo stesso reato per cui era stato assolto.
Infine è importante evidenziare come a volte la logica del rimpatrio mostra il suo volto più crudele: sono i casi in cui il sistema si mostra estremamente “efficiente” e le persone vengono rimpatriate direttamente dal carcere, senza bisogno di passare per il CPR: ne è un esempio la storia di un cittadino gambiano – da noi seguito all’inizio dell’anno – che tramite il riconoscimento consolare in carcere, alla scarcerazione è stato portato direttamente in aeroporto, e forzatamente rimpatriato.
È importante allargare le attenzioni e le esperienze di molte associazioni attive nel mondo del carcere anche ai CPR in quanto sono ritenuti da molte persone lì trattenute luoghi ancor peggiori delle carceri stesse. Le condizioni nei CPR sono talmente deleterie che ci sono arrivate domande dalle persone recluse che chiedono di essere riportate in carcere.
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