Erano 129.056 le persone complessivamente in carico agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna al 15 marzo 2023. Il 60% di esse, pari a 77.426, vedeva l’applicazione di una qualche misura penale (misure alternative alla detenzione, sanzioni sostitutive, libertà vigilata, lavori di pubblica utilità, messa alla prova), mentre il restante 40% era in carico per indagini e consulenze.
Nel corso del 2022 sono stati concessi 24.704 permessi premio a persone detenute. Molto disomogeneo tra le varie regioni il rapporto tra il numero di concessioni nel corso dell’anno ed il totale delle presenze in carcere a fine anno, ovvero le concessioni di permessi premio sul territorio nazionale.
Spicca tra tutte la Lombardia, dove sono stati concessi 8.455 permessi nel 2022, a fronte di una presenza a fine anno di 8.147 detenuti. Nel Lazio, dove il numero dei detenuti a fine anno (5.933) non era di troppo inferiore, i permessi concessi sono stati 1.120.
Se alla fine del 2014 le persone in carico agli Uepe per l’esecuzione di una qualche misura erano 31.865, otto anni dopo, alla fine del 2022, erano parecchie più del doppio, ovvero 73.983.
Un grande contributo a tale incremento era dovuto all’allargamento dell’applicazione della messa alla prova ma, come vedremo in seguito, non solo.
Sul totale delle persone in carico agli Uepe, gli stranieri costituiscono il 19,2%. Se paragoniamo questo dato con quello della loro presenza in carcere, che li vede pesare per il 31,3% della popolazione detenuta, vediamo come siano assai inferiori per loro le opportunità di percorsi alternativi alla reclusione. Tra gli stranieri in area penale esterna, il 42,9% proviene da paesi europei fuori o dentro l’Unione e il 36,1% da paesi africani. I primi cinque paesi maggiormente rappresentati sono il Marocco (3.855 persone), l’Albania (3.457), la Romania (3.227), la Tunisia (1.322) e la Nigeria (1.066).
Le donne in area penale esterna costituiscono l’11,5% del totale, una percentuale decisamente più alta rispetto a quella della loro presenza in carcere, di poco superiore al 4%
Le donne in area penale esterna costituiscono l’11,5% del totale, una percentuale decisamente più alta rispetto a quella della loro presenza in carcere, di poco superiore al 4%. Ciò si deve alle pene tendenzialmente più leggere di cui le donne sono destinatarie rispetto agli uomini, alle norme specifiche che prevedono alternative al carcere per le detenute madri, al maggior tasso di fiducia di cui le donne godono presso la magistratura a causa del loro scarso peso criminale.
Il 6% delle misure (4.616 persone) riguarda la misura di sicurezza della libertà vigilata, mentre la sanzione del lavoro di pubblica utilità (quasi interamente legata alla violazione del codice della strada e solo per il 7,8% alla violazione della legge sulle droghe) interessa il 12,9% del totale delle misure, coinvolgendo 9.959 persone.
Solo lo 0,1% delle misure (106 persone) riguarda le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, una cifra che nel tempo è sempre stata estremamente contenuta.
La cosiddetta ‘riforma Cartabia’, che ha introdotto nuove sanzioni sostitutive e ha allargato le possibilità del loro utilizzo
La legge n. 689 del 1981 che ha introdotto tali sanzioni sostitutive nell’ordinamento giuridico italiano è stata negli anni applicata estremamente poco, sicuramente anche per il fatto che il limite dei due anni coincide con quello della sospensione condizionale. Dobbiamo a questo limitatissimo impiego l’esigenza sentita dal legislatore di ritornare sull’argomento all’interno della cosiddetta ‘riforma Cartabia’, che ha introdotto nuove sanzioni sostitutive e ha allargato le possibilità del loro utilizzo.
I due grandi contenitori che interessano le misure penali esterne al carcere sono quelli della messa alla prova e, ancor di più, delle misure alternative alla detenzione. Quanto alla prima, a metà marzo vedeva coinvolte 25.030 persone, pari al 32,3% del totale delle misure. Si aggiunga a questo che oltre la metà delle 51.630 persone in carico agli Uepe per attività di indagine e consulenza era coinvolta in indagini legate proprio alla misura della messa alla prova. Quest’ultima, introdotta nel sistema degli adulti con la legge n. 67 del 2014, è cresciuta moltissimo negli ultimi anni, passando dalle 503 persone che vi erano sottoposte alla fine del 2014 alle 24.255 della fine del 2022.
L’ultimo dato disponibile, relativo al 2021, ci dice che la percentuale di revoche della misura nel corso dell’anno è stata pari all’1,5% (era stata pari al 2,2% nell’anno precedente). Alla fine del 2022 gli stranieri in messa alla prova costituivano il 18% del totale delle persone sottoposte a tale misura, a riprova della loro inferiore rappresentazione in misure meno contenitive. I lavori di pubblica utilità svolti nell’ambito della messa alla prova riguardavano per la stragrande maggioranza (85%) servizi in ambito socio-sanitario e socio-assistenziale. La seconda categoria più rappresentata, ovvero la manutenzione di immobili e servizi pubblici, copriva solo per il 5% del totale.
Al 15 marzo le persone in misura alternativa erano 37.715 (di cui 3.519, il 9,3%, erano donne)
L’altro grande contenitore, come si è detto, è quello delle misure alternative alla detenzione, ovvero l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà. Al 15 marzo le persone in misura alternativa erano 37.715 (di cui 3.519, il 9,3%, erano donne), ovvero il 48,7% del totale delle persone sottoposte a misure penali esterne. L’affidamento in prova al servizio sociale costituiva il 66,4% delle misure alternative, la detenzione domiciliare il 30,9% e la semilibertà il 2,6%. Erano inoltre 8.245 (tra cui 740, il 9%, donne) le persone in carico agli Uepe per indagini legate alle misure alternative al carcere.
Tra gli affidamenti in prova al servizio sociale, si contano 3.919 affidamenti in casi particolari (per tossico o alcoldipendenti), pari al 15,6% del totale degli affidamenti. Il 66,6% degli affidati è stato condannato dalla libertà, senza effettuare un passaggio per il carcere, mentre il 27,7% è stato condannato dalla detenzione e il 5,7% dalla detenzione domiciliare o dagli arresti domiciliari. È interessante notare come gli affidamenti in casi particolari costituiscano il 5,4% degli affidamenti dalla libertà, il 37,8% di quelli dalla detenzione e il 24,3% di quelli dalla detenzione domiciliare o dagli arresti domiciliari, indice del fatto che i tossicodipendenti tendono comunque più facilmente a effettuare un passaggio per lo stato di detenzione. Le persone che si trovano in detenzione domiciliare sono 11.661 (di cui 1.220, il 10,7%, donne), mentre i detenuti semiliberi sono 996 (di cui solo 35, il 3,5%, donne).
Molto pochi in generale i provvedimenti di detenzione domiciliare concessi a causa dell’età a detenuti ultrasettantenni
Molto pochi in generale i provvedimenti di detenzione domiciliare concessi a causa dell’età a detenuti ultrasettantenni. Se alla fine del 2021, ultimo dato disponibile, i detenuti di età superiore ai settant’anni erano 993, nel corso di quell’anno sono stati concessi 44 provvedimenti di detenzione domiciliari dovuti all’età (erano stati 12 nel 2020, 30 nel 2019, 34 nel 2018, 19 nel 2017).
Uno sguardo ai dati relativi alla legge 199 del 2010 – che ha introdotto la possibilità di scontare presso il proprio domicilio l’ultimo anno di pena, portato poi a un anno e mezzo nel 2011 – ci dice che, dal momento della sua entrata in vigore fino alla fine dell’aprile 2023, ne hanno usufruito 33.357 persone. Di queste, 2.433 erano donne (il 7,3% del totale). Gli stranieri che hanno beneficiato della forma di detenzione domiciliare prevista da tale legge sono stati 11.170, ovvero il 33,5% del totale dei beneficiari.
Se si pensa che all’inizio del millennio le persone in misura alternativa alla detenzione non raggiungevano le 18.000 unità, si vede come il loro numero sia più che raddoppiato nel corso di questi due decenni abbondanti. Tuttavia, l’incremento nell’uso delle misure alternative non ha tendenzialmente in questo arco di tempo sottratto persone alla pena carceraria.
L’allargamento delle prime non ha in generale comportato una riduzione nel numero delle presenze in carcere, ma si è piuttosto aggiunto allo spazio delle pene detentive secondo una sorta di binario parallelo. Semplicemente, si è allargata l’area delle persone sottoposte a queste forme di controllo penale.
Si noti come in due momenti, nell’ultimo ventennio, si è assistito a una riduzione dei numeri delle presenze penitenziarie che nulla avevano a che fare con la volontà di ridurre la portata della detenzione a favore di quella alternativa al carcere: con l’indulto del 2006 e con la pandemia del 2020. In entrambi i casi si è avuta una riduzione anche del numero di persone sottoposte a misura alternativa (ovvia e significativa nel caso dell’indulto, poco significativa e legata probabilmente alla minore commissione di reati dovuta al lockdown nel caso della pandemia). Vi è invece un’altra data che è rilevante per quanto riguarda l’analisi dei dati sulle misure alternative, ovvero il 2010. Fu allora che, nel gennaio, venne dichiarato lo stato di emergenza penitenziaria legato al sovraffollamento delle carceri e, nel novembre, venne introdotta la legge n. 199 sulla detenzione domiciliare per i residui brevi di pena. È solo di fronte a tale misura emergenziale che i numeri del carcere sono iniziati per la prima volta a calare grazie alla sottrazione che avveniva a vantaggio delle misure alternative. E in particolare, tuttavia, a vantaggio della detenzione domiciliare, la misura alternativa maggiormente contenitiva e più vuota di contenuto risocializzante, nonché la più economica e semplice da attuare. La tendenza alla deflazione carceraria continuerà a manifestarsi per un paio d’anni dopo la sentenza Torreggiani del 2013, per poi riprendere (pandemia a parte) l’andamento più consueto che vede i numeri del carcere aumentare insieme a quelli delle misure alternative alla detenzione.
Fino a quando, dunque, l’area delle misure alternative non sarà capace di sottrarre realmente spazio alla detenzione, affermando la cultura delle misure penali vissute all’interno della comunità, ben più efficaci in termini di recidiva e di potenzialità reintegrativa rispetto a ogni forma di segregazione, non avrà senso vantare l’allargamento dell’area penale esterna come una conquista nel percorso verso una esecuzione penale più aperta e differenziata.