Non è un esercizio semplice, nell’immaginare la vita di una persona detenuta, rendersi conto di ogni singolo effetto che l’esecuzione della pena carceraria ha sulla vita intramuraria. Non ci si rende conto di come tale condizione incida, inesorabilmente, dal primo all’ultimo giorno, sull’intera rete di relazioni sociali che ruotano attorno al detenuto. Non ci si rende conto di come la vita in carcere possa portare alla negazione del piacere più semplice, del più banale contatto, quello umano, intimo e personale.
“Dignità e persona coincidono: eliminare o comprimere la dignità di un soggetto significa togliere o attenuare la sua qualità di persona.” Così Gaetano Silvestri, ex Presidente della Corte Costituzionale a valle della sentenza CEDU sul caso Torreggiani. E ad oggi, nel 2023, il confliggente binomio affettività-carcere continua a minare all’espressione della dignità dei detenuti. L’impossibilità di intrattenere, durante il periodo di reclusione, una relazione che non veda amputata una dimensione intima, affettiva, anche sessuale, resta un problema senza risposta.
L’irrisolta questione della privazione della sfera affettiva e intima della popolazione carceraria è tornata all’attenzione della Corte Costituzionale, dopo oltre dieci anni
Nel nostro quotidiano, si dà per scontata la possibilità di ritagliarsi un tempo proprio, privato, con una persona che si vuole guardare, toccare, ascoltare, con cui ci si consente di essere vulnerabili, con cui ci si lascia andare nella sfera più intima. È un desiderio legittimo, che in carcere si trasforma in un diritto negato. L’irrisolta questione della privazione della sfera affettiva e intima della popolazione carceraria è tornata all’attenzione della Corte Costituzionale, dopo oltre dieci anni.
Con l’Ordinanza n. 23 del 12 gennaio 2023, il magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale, di seguito anche “Ordinamento Penitenziario”), “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli art. 2, 3, 13, commi 1 e 4, 27, comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117, comma 1 Cost., quest’ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”.
Il magistrato rimettente, utilizzando la nostra Costituzione come parametro, richiede un intervento della Consulta per dichiarare contrastante con i diritti fondamentali garantiti dai costituenti la norma dell’Ordinamento Penitenziario che prevede il controllo a vista del detenuto durante i colloqui con gli esterni.
La questione, così delicata, era già stata sottoposta al vaglio costituzionale dal magistrato di sorveglianza di Firenze
Non è la prima volta. La questione, così delicata, era già stata sottoposta al vaglio costituzionale dal magistrato di sorveglianza di Firenze. In tale occasione, nonostante la pronuncia di inammissibilità della questione, con sentenza n. 301/2012, la Corte Costituzionale sottolineava come la questione concernesse “una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nell’ […] istituto dei permessi premio […] la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi, resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria. Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore”. Già nel 2012, quindi, la Corte Costituzionale pronunciava un chiaro monito per il legislatore. Un legislatore che più di dieci anni dopo è ancora inadempiente.
Vale allora la pena di soffermarsi sui profili innovativi della recente questione posta dal Tribunale di Sorveglianza di Spoleto, per comprendere le ragioni per le quali ci si possa almeno auspicare un diverso esito nella pronuncia della Consulta, e per analizzare più a fondo la cornice legislativa all’interno della quale ci si muove. Come riassunto dallo stesso Magistrato remittente, la questione viene sollevata in quanto un detenuto lamenta il divieto, derivante dall’attuale normativa, di poter disporre di spazi di adeguata intimità, anche per esercitare la sessualità con la compagna, nel momento in cui gli è consentito di svolgere con la stessa colloqui visivi che prevedono la costante sottoposizione al controllo visivo della polizia penitenziaria.
Per i non addetti ai lavori: le questioni vengono presentate sulla base di reclami da parte dei detenuti. Quella in commento, quindi, scaturisce da una reale avvertita esigenza che, come si può immaginare, dilaga fra la popolazione carceraria. E una voce, del coro, riceve attenzione. Si legge, nell’Ordinanza di rimessione “a venire in rilievo appare innanzitutto il diritto alla libera espressione della propria affettività, anche mediante rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, secondo il disposto dell’art. 2 Cost. Si tratta di un diritto così qualificato dalla stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha esplicato da tempo come l’attività sessuale sia “indispensabile completamento e piena manifestazione” del diritto all’affettività e come costituisca “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana […] che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire” (sent. 561/1987)”.
Il diritto all’affettività, quale espressione della persona umana, ha rilievo costituzionale.
Un passo indietro. Il diritto all’affettività, quale espressione della persona umana, ha rilievo costituzionale.
Ciò significa che la nostra Carta Costituzionale prevede tale diritto come un diritto inviolabile della persona. Dal riconoscimento dei diritti della famiglia, parificato alla convivenza e alle relazioni stabili, al diritto di libertà inteso nel suo senso più ampio, al riconoscimento dell’affettività quale diritto sociale, che come tale impone un ruolo propulsivo sui pubblici poteri per garantirne l’effettività e la tutela senza discriminazioni di sorta. Il tutto, calato nel contesto intramurario, con un fine ultimo: la garanzia di finalismo rieducativo. Quel faro, talvolta a luce fioca, che dovrebbe guidare nel buio delle condanne a pena detentiva (art. 27 co. 3 cost.). E proprio al fine di garantire che la pena abbia l’intento rieducativo e di reinserimento in società, lo stesso Ordinamento Penitenziario pone in una posizione di assoluta preminenza il mantenimento delle relazioni familiari e affettive. La legge sull’ordinamento penitenziario, al suo articolo 1 prevede che “[i]l trattamento tende, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale ed è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati.” Ancora più esplicito a presidio dei rapporti affettivi è l’articolo 15 dell’Ordinamento Penitenziario, laddove sancisce che “[i]l trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione […] e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”. Addirittura con l’articolo 28 dell’Ordinamento Penitenziario è stata inserita una vera e propria tensione (ex post, utopica) al miglioramento delle relazioni famigliari.
È quindi dal 1975 che l’affettività rappresenta ed è riconosciuta quale elemento positivo del trattamento detentivo, volto a non spezzare il legame con l’esterno e quindi garantire umanità della pena e tensione al reinserimento sociale, necessari per garantire il rispetto dei dettami costituzionali. Tuttavia, la realtà è diversa.
Per quanto difficile comprendere tutto ciò che accade e ciò che manca, nella vita di un soggetto privato della libertà personale, non è difficile cogliere le ripercussioni dell’astinenza coatta da qualsiasi manifestazione affettuosa, intima e, poi, sessuale, per anni. Spesso molti.
C’è da chiedersi, quindi, quali siano gli ostacoli concreti alla realizzazione di quanto normativamente previsto. Vi è, anzitutto, un (enorme) limite quantitativo. I colloqui visivi, della durata di un’ora, sono sei al mese per i detenuti comuni (quattro per coloro i quali sono detenuti a regime speciale). I contatti telefonici, una volta a settimana per i detenuti comuni (non più di due al mese per i detenuti a regime speciale) hanno la durata massima di dieci minuti. La pandemia da Covid-19 ha introdotto la possibilità di effettuare colloqui tramite video. Nel ricongiungersi con qualcuno, c’è sempre una fase di assestamento, di ri-familiarizzazione. Una fase di più libera manifestazione verbale e corporea già pare fortemente compromessa da un limite di tempo così stringente.
I colloqui si svolgono “sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”
In seconda battuta, vi è un limite qualitativo. Un vero e proprio sbarramento all’espressione del diritto all’affettività. I colloqui si svolgono “sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia” (così l’articolo 18 comma 3 dell’Ordinamento Penitenziario, come modificato dall’art. 11 comma 1 lett. g) del D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 123). Sotto il controllo a vista, sempre.
Tale previsione normativa è inequivoca: la sfera intima, è del tutto annientata. Il principio della sorveglianza continua sul detenuto rappresenta l’architrave del dispositivo proibizionista dell’intimità e, quindi, della sessualità inframuraria. La ratio è intuibile. Il manifesto della sicurezza sociale, dell’ordine pubblico e di prevenzione dei reati, dentro e fuori dal carcere.
Allo stesso tempo, è intuibile anche immediato l’effetto inibitorio. Lo sguardo incessante di un controllore, in qualunque momento del giorno, anche nei momenti fisiologicamente più intimi, senza intermittenza o pausa, annichilisce, ancor prima dell’intimità con un altro soggetto, quella con il proprio corpo. E ne consegue uno strappo costituzionale, declinato nella violazione della libertà di disporre del proprio corpo (articolo 13 Cost.), del diritto alla salute (articolo 32 Cost.), della dignità personale del detenuto (art. 2 Cost.) e un ostacolo alla risocializzazione (violazione dell’articolo 27 Cost.). Il dispositivo proibizionista incide in profondità sul disegno costituzionale del diritto punitivo, mettendone a rischio la finalità. Prescindere dalla dimensione fisica dell’affettività, che è senza ombra di dubbio parte integrante dell’identità di ogni individuo, allontana del tutto dall’obiettivo che la Costituzione stessa affida all’esecuzione penale. Quali rimedi, dunque?
Non da ultimo, vi è un ulteriore limite all’implementazione di qualsiasi miglioramento alla vita dietro le sbarre, ed è il più banale e talvolta il più feroce: l’opinione pubblica. Capita spesso di sentire che chi si trova in carcere è giusto che stia peggio rispetto a chi è libero. Altrimenti che carcere sarebbe? In quest’ottica l’idea del sesso in carcere è un vero e proprio tabù. L’ultimo dei problemi, sicuramente per chi sta fuori. Lo spirito pubblico continua a vedere la pena come afflizione anche corporale, da scontare senza lamentele e senza pretese.
Come precisato anche dall’Amicus curiae a firma del Presidente dell’Associazione Antigone Onlus, Patrizio Gonnella, esprimendo alla adita Corte Costituzionale la propria opinione sulla questione di legittimità costituzionale presentata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, qualsiasi previsione rimediale alla situazione sopra riassunta, risulta ad oggi del tutto insoddisfacente.
I sostenitori di un quadro già adeguato a garantire la necessaria intimità ai detenuti fanno riferimento ai permessi premio di cui all’articolo 30 dell’Ordinamento Penitenziario. Ad una parentesi extra-penitenziaria, quindi. Il permesso premio, però, non può che rappresentare una risoluzione parziale del problema poiché determina la conseguenza di spostare il piano dell’esercizio di un diritto che deve annoverarsi tra quelli fondamentali della persona, verso l’orizzonte della premialità, certamente non garantito ad ogni detenuto (precluso, a mero titolo di esempio, a chi non abbia ancora maturato le quote di pena previste dagli artt. 30-ter e quater Ordinamento Penitenziario, per l’ammissibilità della richiesta). Per dare un ordine di grandezza: secondo i dati dell’amministrazione penitenziaria, nel corso del 2022, il totale delle concessioni dei permessi premio è stato riconosciuto ad un numero estremamente basso di detenuti. È stato stimato intorno al decimo della popolazione carceraria, che si attesta intorno alle 56.000 unità secondo le statistiche aggiornate al gennaio 2023.
In fondo, trattare l’affettività e la sessualità esclusivamente come premio significa ammettere che comprimere la sessualità di un detenuto sia parte integrante dell’essenza della pena carceraria.
In fondo, trattare l’affettività e la sessualità esclusivamente come premio – alla stregua degli sconti di pena, dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione – significa ammettere che comprimere la sessualità di un detenuto sia parte integrante dell’essenza della pena carceraria. Del permesso premio è stato detto in modo molto evocativo che equivale ad una “caramella da assaggiare per quarantacinque giorni all’anno (al massimo)”.
La sessualità, quindi, trattata come elemento del trattamento sanzionatorio, quando invece costituisce un diritto fondamentale della persona. Il difetto interpretativo non è di poco conto, e le ripercussioni, come visto, sono enormi.
Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera, taluni Paesi dell’Europa dell’est – solo per rimanere in ambito continentale – sono tra gli Stati ove è prevista la possibilità
Del resto, a riprova del fatto che la sessualità intra muraria debba essere considerata un diritto e non solo un desiderio legittimo, basta uscire dalla piccola realtà italiana. Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera, taluni Paesi dell’Europa dell’est – solo per rimanere in ambito continentale – sono tra gli Stati ove è prevista la possibilità di usufruire di appositi spazi penitenziari all’interno dei quali, sottratti al controllo visivo del personale di custodia, il detenuto può trascorrere diverse ore in compagnia del proprio partner. Ciò che garantisce la possibilità di riprendere familiarità, o di mantenerla, e di esprimere la propria sfera più intima con qualcuno. Una cosa semplice e fondamentale. E umana.
Come ulteriormente elaborato dall’Associazione Antigone nel proprio amicus curiae presentato alla Corte Costituzionale, l’immobilismo parlamentare a seguito del monito della stessa Consulta nel 2012, è ancor più inspiegabile se si pensa al recente mutamento del quadro normativo in materia di affettività per i detenuti minorenni. Con il D.Lgs. n. 121 del 2018, articolo 19, proprio al fine di favorire le relazioni affettive, è previsto per la popolazione carceraria minorenne la possibilità di usufruire ogni mese di quattro visite prolungate che si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. All’interno di tali spazi, è senz’altro tutelata la sfera intima dei detenuti più giovani. L’intento è sempre lo stesso: non spezzare i legami sociali, non rendere la risocializzazione, una volta riottenuta la libertà, una scalata verso qualcosa che nemmeno si ricorda.
Dell’esigenza di replicare tali spazi nascosti dallo sguardo dei controllori anche per i detenuti adulti, sono consapevoli tutti gli operatori in gioco. Lo urla a gran voce la stessa normativa italiana appena citata, lo urla a gran voce l’esperienza estera. Ne ha dato monito e spunto la Corte Costituzionale più di dieci anni fa. E certamente ne coglie l’importanza chi, come chi scrive, dà per scontata la possibilità, a conclusione di una giornata sotto lo sguardo di chiunque, di poter chiudere la porta. Ed essere liberi.
Il diritto all’affettività e alla soddisfazione sessuale che ne rappresenta una delle più basilari manifestazioni, rappresenta un baluardo costituzionale assediato da malcelati preconcetti, retoriche semplicistiche e un’idea di carcere e di pena ancora intesa in senso retributivo, già manchevole di quel senso di umanità di bricolana memoria.
Cambierà qualcosa adesso?
Bibliografia
[1] Alberti D. G., Relazioni affettive dei detenuti, stanziati 28 milioni di euro, in Ristretti Orizzonti, 22 maggio 2022
[2] Aliprandi D., Affettività e sessualità in carcere: “Ce lo chiede l’Europa”, in Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2022
[3] Anastasia S. e Grieco S., Una nuova quaestio sul diritto alla sessualità in carcere, in Garante dei detenuti, 17 marzo 2023
[4] Associazione Antigone Onlus, Amicus Curiae sull’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale n. 23/2023
[5] Bevere P., Sentenza Corte Costituzionale n. 301/2012. Il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere
[6] Della Bella A., Riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute: uno sguardo all’esperienza francese, disponibile a https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/SGEP_tavolo14_allegato3.pdf
[7] Giurisprudenza Penale con Associazione Antigone Onlus, Affettività e carcere: un binomio (im)possibile?, Fascicolo 2019, 2-bis
[8] Longo G., Sul ricorso di un detenuto di Spoleto deciderà la Corte costituzionale. Contrari i sindacati di polizia penitenziaria, su La Stampa, 15 gennaio 2023
[9] Morelli F., Coltivare gli affetti in carcere è possibile, in Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2022
[10] Pugiotto A., Della castrazione di un diritto. La proibizione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2-bis – “Affettività e carcere: un binomio (im)possibile”?
[11] Valentino N., L’ergastolo. Dall’inizio alla fine. Sensibili alle foglie, 2009, p. 47