L’Italia ha introdotto nel 2014 un rimedio risarcitorio in favore delle persone detenute che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione
Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo – con la sentenza “Torreggiani” (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10) adottata con decisione presa all’unanimità – ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), giudicando che le condizioni di vita dei detenuti integravano i requisiti necessari per la sottoposizione degli stessi a trattamenti inumani e degradanti. Da allora l’Italia ha adottato numerose riforme, e ha tra l’altro introdotto nel 2014 un rimedio risarcitorio in favore delle persone detenute che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea.
Le persone che hanno subito un trattamento non conforme alla Convenzione e sono state detenute per almeno quindici giorni in condizioni che violano l’art. 3 hanno adesso il diritto di ottenere una riduzione della pena detentiva ancora da scontare, pari a un giorno per ogni dieci giorni di violazione. Coloro che hanno scontato una pena inferiore a quindici giorni o non si trovano più in stato di detenzione (o la cui pena ancora da scontare non consente la detrazione completa della riduzione della pena descritta sopra) hanno il diritto di ottenere un risarcimento di 8,00 euro per ogni giorno trascorso in detenzione nelle suddette condizioni. È possibile presentare un reclamo entro sei mesi dalla fine della detenzione o della custodia cautelare in carcere.
Il ricorso alla Cedu dunque non è più possibile. Ma cosa sappiamo dell’applicazione del rimedio interno?
Il ricorso alla Cedu dunque non è più possibile, almeno senza prima tentare il ricorso interno, e dunque non abbiamo più subito condanne dalla corte europea per le nostre condizioni di detenzione. Ma cosa sappiamo dell’applicazione del rimedio interno?
Nel 2022 sono arrivate agli uffici di sorveglianza italiani 7.643 istanze. Ne sono state decise 7.859 e di queste 4.514, il 57,4%, sono state accolte. Gli accoglimenti erano stati 3.115 nel 2018, 4.347 nel 2019, 3.382 nel 2020 e 4.212 nel 2021. Come si vede, l’Italia viene sistematicamente condannata, dai suoi stessi tribunali, per violazione dell’art. 3 della CEDU, più che ai tempi della sentenza torreggiani. In quel caso si è parlato in totale di circa 4.000 ricorsi pendenti, con potenziale esito positivo, oggi siamo ad oltre 4.000 condanne l’anno.
La realtà è probabilmente peggiore di quello che ci dicono i numeri
Questo non significa che le condizioni di vita nelle nostre carceri oggi siano peggiori di quelle di allora. Molte cose sono cambiate, nel 2010 arrivammo ad avere oltre 69.000 detenuti mentre da allora abbiamo al massimo raggiunto le 60.000 presenze, e nel frattempo sono cambiate alcune norme in materia di droghe, custodia cautelare, misure di sicurezza psichiatriche etc.. Eppure il fatto resta, a giudizio degli uffici di sorveglianza italiani la detenzione in condizioni inumane e degradanti non si verifica di rado. E la realtà è probabilmente peggiore di quello che ci dicono i numeri. Nonostante l’elevata percentuale di accoglimento come vedremo nei fatti in molti distretti è estremamente difficile vedere il proprio reclamo accolto, e c’è anche da dubitare se ne valga davvero la pena. Come abbiamo detto, chi vede riconosciuta la violazione di questo diritto riceve 1 giorno di riduzione di pena ogni 10 giorni di detenzione in condizioni disumane e degradanti o, se ha già finito di scontare la pena, 8 euro al giorno. Non molto se ci si pensa. Sei mesi di vita al di sotto della soglia della decenza equivalgono a 1.440 euro, o a 18 giorni di sconto di pena. Mente a sua volta l’accesso alla giustizia ha inevitabilmente dei costi. Non ci sarebbe da stupirsi se molte persone che ritengono che i propri diritti siano stati violati decidessero di non presentare il ricorso.
Sorprende infatti l’enorme disomogeneità del tasso di accoglimento tra i diversi uffici
Come dicevamo poi, in molti distretti l’accoglimento è un fatto davvero improbabile. Sorprende infatti l’enorme disomogeneità del tasso di accoglimento tra i diversi uffici. Se la media nazionale nel 2022 era superiore al 50%, guardando al dato per ufficio si va da situazioni come Trento (83,6%), Brescia (82,3%) o Potenza (80,6%), in cui l’accoglimento appare un esito abbastanza probabile, a situazioni come Bologna (27,2%), Catanzaro (27,3%) o Roma (26,2%), in cui lo è decisamente meno.
Ovviamente questo non significa che in Trentino, Lombardia o Basilicata le condizioni di detenzione siano peggiori che in Calabria, Emilia-Romagna o Lazio. Né appaiono risolutive altre tradizionali chiavi di lettura. La divisione tra nord, centro e sud ad esempio, che influisce notevolmente sulla composizione della popolazione detenuta, in particolare per la presenza degli stranieri, che potrebbero avere maggiori difficoltà di accesso al reclamo, qui non appare determinante. Nel nord Italia la percentuale media di accoglimento da parte degli uffici è del 59,4%, al centro del 56,7% e al sud e nelle isole del 53,0%.
Né appare risolutivo nemmeno il riferimento al carico di lavoro, in questo caso al numero di reclami sopravvenuti, per quell’ufficio. Tanto nella parte destra che in quella sinistra del grafico abbiamo sia uffici a cui pervengono un elevato numero di reclami, sia uffici che ne ricevono molti meno.
Ogni tribunale ha le proprie culture professionali e prassi operative, il cui esito però è appunto una notevole disparità nel modo in cui le persone eseguono la propria pena
Probabilmente l’unico modo per spiegare questa notevole disomogeneità è qualcosa di già noto, anche se del tutto ingiustificabile: uffici diversi ragionano, e decidono, in maniera molto diversa, anche di fronte a casi concreti molto simili tra loro. Al di là della ovvia autonomia ed indipendenza di ciascun magistrato, ogni tribunale ha le proprie culture professionali e prassi operative, il cui esito però è appunto una notevole disparità nel modo in cui le persone eseguono la propria pena, o in questo caso nel modo in cui vengono tutelate quando finiscono per essere detenute in condizioni disumane.
Guai se l’Europa definisce le condizioni di detenzione in Italia indegne di un paese civile. Poco male se a farlo sono i nostri stessi giudici
Ma se questo non è accettabile, non è probabilmente nemmeno l’aspetto più grave di questa vicenda. Quello che più sorprende è l’assoluta indifferenza con cui queste decisioni vengono accolte. Quando a condannarci fu la Corte europea dei diritti dell’uomo la cosa suscitò un grido di indignazione e diede vita ad una importante stagione di riforme. Oggi che le condanne arrivano dai tribunali italiani, in virtù di una norma che adotta gli stessi criteri della CEDU (non a caso l’art. 35 ter è rubricato “Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”) la cosa cade nella generale indifferenza. Guai se l’Europa definisce le condizioni di detenzione in Italia indegne di un paese civile. Poco male se a farlo sono i nostri stessi giudici.